Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

venerdì 29 novembre 2013

Pensieri nani 10



“Credetemi, voi che indossate vestiti vivaci: in culture nelle quali ogni imbecille possiede un’individualità, l’individualità rimbecillisce.”

Karl Kraus

Scott Ross, il grande clavicembalista americano, diceva di Glenn Gould: “Non ha capito nulla di Bach. L’ho ascoltato attentamente: non ha capito nulla. Per me, un artista che non appare in pubblico, pone un problema. Almeno era un tipo che aveva il coraggio di non fare le cose che facevano gli altri. Nel complesso, era fuori misura, talmente fuori misura che ci sarebbe voluto un 747 per riportarlo indietro. Sono duro con Glenn Gould. Va beh, lui è morto adesso, non voglio attaccare un collega morto.”

Stupendo. È bello sapere che qualcuno ha detto con cognizione di causa che Glenn Gould non aveva capito nulla di Bach. È confortante. Smitizzare è la cosa più importante di tutte. Significa avvicinarsi all’illuminazione. [Ma che esagerazione. Sono solo opinioni su opinioni. È bello però che niente sia scontato.]


Importantissimo: non fissarsi su nessun pregiudizio tipo: natura ostile, nessun significato, cattiveria cosmica ecc. ecc. ecc. Vivi senza pregiudizi. Il mondo non è ostile o favorevole, è quello che è. Può apparire ora in modo, ora in un altro. Banale, ma vero. Non dimenticarlo.
Sei tu che devi addomesticare i tuoi demoni. La natura non c’entra.

Bukowski sfotteva gli scrittori che facevano fatica a scrivere. Diceva che se scrivere era una tortura per loro tanto valeva smettere. Chi si arrovella così tanto poi scrive roba di merda, diceva. Certo, se uno scrive come Bukowski non ha certo bisogno di fare tutta questa fatica. Ti metti lì e sproloqui con un certo stile a destra e a manca su quanto sia dura la vita e in che mondo di merda viviamo. Lui ci è diventato famoso negli anni 70. Adesso è solo roba muffa. 

Nagarjuna: evitare l’idea di essere e non essere. Entrambe errate. Non c’è eternità e non c’è annientamento. È il linguaggio che è inadeguato, come dire che è l’uomo a essere inadeguato.

“Ciò che mi sembra bello, quello che vorrei fare, è un libro su nulla, un libro senza appigli esteriori, che si tenesse su da solo per la forza intrinseca dello stile, come la terra che si regge in aria senza bisogno di sostegno; un libro quasi senza soggetto o almeno il cui soggetto fosse, se possibile, quasi invisibile. Le opere più belle sono quelle che hanno meno materia; più l’espressione si approssima al pensiero, più la parola vi aderisce e sparisce, più è bello. Credo che l’avvenire dell’arte sia su questa strada. “

 Gustave Flaubert

Mi infastidisce che quell’arrogante ubriacone di Bukowski possa permettersi di sbeffeggiare Hemingway cui deve praticamente tutto. Dietro l’ammirazione per John Fante si nasconde la negazione del debito con il vecchio Hem. Da qui nasce inevitabilmente un giudizio sull’uomo.

Questi che sembrano tutti pensieri slegati, sono invece uniti da un sottilissimo filo conduttore: Nagarjuna, Flaubert e Hemingway (come pure Kafka o Tolstoj o Dostoevskij) non sono affatto distanti tra loro. Oriente e Occidente si tendono la mano attraverso il romanzo moderno. Invisibili l’uno all’altro.

Sentito giorni fa, diffuso dagli altoparlanti di una Feltrinelli milanese, Jovanotti urlare “ogni cosa è illuminata” e far seguire davanti al brusio di una folla acclamante, monologhi interi fatti di sproloqui naturalistici e bei sentimenti debùt de siécle. Minuti di puro orrore nel comprendere una volta di più fino a che punto la razza umana è ormai irrimediabilmente perduta.

Non c’è praticamente nulla che io condivida con il consumatore medio, il cosiddetto uomo della strada. Faccio sempre più fatica a sentirmi membro della specie umana, così come si configura oggi: pur condividendone totalmente la biologia e una delle tante lingue del pianeta, mi chiedo spesso dove sono finiti gli esseri umani, quelli veri, intendo.

Non metterti a sperare. È da idioti.

Una vita senza ossessioni non può esistere. Questa è la sciocca pretesa di quest’epoca. Normalizzare lo sfacelo.  Estendere il pensiero liberale su ogni scoreggia, fino alla prossima sparatoria. Ipocrisia come istinto di sopravvivenza. Tanto non tocca mai a noi, è il motto del consumatore moderno.

mercoledì 6 novembre 2013

Fisica teorica e mal di universo



Le acrobazie della fisica teorica applicata alla cosmologia sono sconcertanti. Si passa dalla teoria del multiverso; alle teoria delle brane; al Big Rip (che ha preso il posto del Big Crunch, passato di moda da quando c’è la materia oscura); a una curiosissima teoria di ciclicità da eterno ritorno attraverso l’entropia per cui l’universo mentre sta per spegnersi completamente si riaccende (cioè, non lo stesso universo, uno nuovo); alla supersimmetria; all’universo a 11 dimensioni; alla teoria che spiega che non esiste il Big Bang ma la materia si forma spontaneamente nel vuoto cosmico creando l’espansione; alla materia oscura e  alla energia oscura (che non sono la stessa cosa, anche se secondo alcuni scienziati lo sono); all’universo che sta accelerando l’espansione, anzi no, la sta rallentando, anzi no, sta sia accelerando che rallentando; all’universo che è piatto, anzi no è a curvatura negativa, anzi no, è a curvatura positiva, anzi è a forma di sella di cavallo; al Big Bang che è avvenuto 13,7 miliardi di anni fa, anzi 13,8, anzi meno, anzi più; alla Teoria del Tutto; al Bosone di Higgs che forma una specie di marmellata nella quale scorrono le particelle per cui acquisiscono massa; all’antimateria che potrebbe spiegare la materia oscura; alla teoria delle stringhe; all’universo in cui lo spin delle particelle è levogiro al contrario della materia oscura le cui particelle sono destrogire, il che spiega sia l’invisibilità della materia oscura, sia l’accelerazione dell’espansione universale; alle costanti cosmologiche che non sono più costanti ma cambiano costanza a seconda della zona di universo di riferimento (come dire che non ci sono costanti e basta) … c’è da farsi venire il mal di mare, anzi il mal di universo.
Quando le teorie sono così tante da accavallarsi e confondersi le une con le altre, un comune mortale può cominciare a sospettare che a qualcuno stia dando di volta il cervello.

Oppure si può cominciare a desiderare che i cosiddetti giornalisti scientifici passino allo sport o alle cronache rosa e pubblichino un articolo di scienza riguardante la fisica teorica (ma ormai un po’ tutto) una volta, massimo due volte l’anno, e solo se proprio non se ne può fare a meno.

lunedì 21 ottobre 2013

Reality

-         


  -        Beh, ma voi siete impazziti.
Sandra: li ho guardati e ho pensato: ma voi siete impazziti.
Federico: Questa ci ha guardato e ci ha detto: ma voi siete impazziti.
Giuseppe: c’era questa donna, capisci, continuava a urlare, siete pazzi, siete pazzi!
-          Taci scema, stanno arrivando, mettiti giù.
Giuseppe: a un certo punto ho dovuto dire a questa isterica: stia giù signora, stanno arrivando.
Federico: qui, capite, eravamo in pieno marasma e questa … come posso dire, questa mentecatta, se ne esce con, ma voi siete impazziti!
Sandra: Questi due … come posso dire, questi due bastardi, mi hanno sopraffatta, ecco. Ho avuto una paura folle.


sabato 19 ottobre 2013

Pensieri nani 9



Essere liberi da ubriacarsi di questa libertà, da averne paura e tremare sperduti di fronte a immense pianure. Eppure berla tutta, fino in fondo.


Essere un uomo del mio tempo e, pur sapendo esattamente e senza dubbio di esserlo, non avere la benché minima idea di che cazzo significhi questo.

Glenn Gould. Tutta un'arte costruita sul difendersi dalla vita. Essere bambino di sé stesso per non dover morire. Perché la morte rivela il corpo nella sua essenza. Di qui la ripugnanza per il qui e ora. Questa ripugnanza si trasforma in un feroce istinto di purezza. Allora ti metti a suonare Bach contro Bach. Riesci a fare di Bach quasi un romantico in nome del più feroce antiromanticismo. Non vuoi mai essere dove sei, eppure in brevi meravigliosi momenti, ci sei, effettivamente e senti la gioia nel corpo, dopotutto. Una intera vita geniale a non voler suonare alcuni tasti e inciamparci sopra, ineluttabilmente, alla fine. 

Sei postmoderno quando non puoi porti certe domande “ontologiche” senza sentirti ridicolo o proiettato in una serie TV americana.

Mi capita, a volte, di sfogliare i blog complottisti.
Sono la naturale metafisica del XXI secolo. Mi rilassano. È confortante sapere che non siamo mai stati sulla Luna, che l’11 settembre è una bufala, che gli Stati Uniti, la massoneria e gli Illuminati sono colpevoli di tutto.
Il complottismo è un’altra religione, l’ennesima di questa epoca tormentata e i suoi adepti hanno un loro codice di linguaggio preciso attraverso i quali si riconoscono.
Intendiamoci, potrebbero avere ragione su qualcosa, magari addirittura su tutto. In fin dei conti anche le “versioni ufficiali” sono una religione. Ma cosa cambierebbe? Al mondo ci vuole più filosofia, più bellezza. 

Al 95% della popolazione mondiale non dovrebbe essere concesso esprimere opinioni. Anzi, no. Dato che il 95% della popolazione mondiale non ha potere di decidere un cazzo, tanto vale lasciarli nell’illusione di avere delle opinioni.

Non c’è niente di più facile e allo stesso tempo difficile che avere una fottutissima opinione.
La gente sembra ragionare bene. Sembra saperla lunga. A citazioni si seguono contro - citazioni. Si sanno delle cose. Apparentemente si sanno delle cose. I complottisti sono degli idioti. Ma lo sono anche gli anticomplottisti.

Ci sono schemi ripetitivi. Succede una cosa e nasce la versione ufficiale della vicenda. Successivamente proliferano versioni che confutano la versione ufficiale. Si crea una bibliografia pressoché sterminata su un fatto e il suo contrario. Esistono versioni ufficiali e confutazioni, glosse e commentari, praticamente su ogni cosa, dalla Bibbia, al Tao, alla politica internazionale, al campionato, ai denti finti di zio Peppino.
Non c’è che dire, in principio era il Logos. Ma anche alla fine e nel mezzo.

Il problema sta nei nessi causali, o meglio, nella nostra incapacità di percepirli e comprenderli.
Questo crea angoscia. L’angoscia si placa erigendo sistemi, di qualunque tipo.

Vivo di surrogati. Intorno a me palpita la felicità e, a volte, la vedo. Ne percepisco l’essenza meravigliosa. Mi rotea intorno ma non la posso essere. Posso solo assorbire qualche goccia della pioggia d’oro. Mi tocca la pelle ed esulto.

Comprendi che il meccanismo è semplice e inesorabile.
Nessuno ha nessuno. Da qui nasce la civiltà.

venerdì 18 ottobre 2013

Tra Destra e Sinistra: gocce di acqua umana



Odio i fascisti di oggi. Quelli di ieri non li ho conosciuti. Odio i comunisti che ho conosciuto. Ipocriti e borghesi più di tutti gli altri messi insieme. Sono quelli che hanno contribuito, anno dopo anno, a quello che c'è oggi, senza battere ciglio. Sono quelli che hanno tradito i lavoratori tante di quelle volte da lasciare senza fiato. 
Sono quelli che nel 1980 volevano picchiare il mio amico M. Aveva detto (candidamente, da quel pazzo che era), durante un’assemblea studentesca, di avere avuto contatti con il Fronte delle Gioventù. Era successo il finimondo. Volevano linciarlo. E pensare che questi compagni così pronti a massacrare il nemico incarnato in un ragazzetto di 18 anni, sono poi diventati tutti dei rotti in culo borghesi, con la lingua attaccata ai soldi.
Solo F., mio professore di storia, ha impedito che picchiassero M., che dopotutto, ripeto, era solo un ragazzo di 18 anni.
F., attuale leader di un microscopico partito che vanta ancora il nome "comunista", è l’unico vero comunista di cui ho rispetto.

giovedì 17 ottobre 2013

Pensieri nani 8


Uomo e verità: un ossimoro.

Donne che si muovono svelte vestite quasi come paggetti medievali.

La gentilezza è così importante.

Una qualche forma di intelligenza pervade tutti, in fondo. Noi siamo Dio, collettivamente. Un dio stronzo, per lo più. Frammenti di questa divinità sbucano da dentro di noi, a volte, nei momenti impensati.

Wittgenstein: il mondo è tutto ciò che accade.
Ma non solo. Il mondo è tutto ciò che accadrà. Che è sempre accaduto. Il mondo è inevitabile.  È la totalità dell’inevitabile.

Vivere è tutta questione di estetica.

Due giorni a casa con febbre, vomito e diarrea per un bel virus influenzale. Non ho provato neanche per un minuto la voglia di leggere o informarmi di qualcosa. Fluttuando nella nebbia della febbre e della debolezza, la mia mente si accontentava di vividi dormiveglia e sogni improbabili a ripetizione. Tutta l’arte, tutta la letteratura, la scienza, erano diventate completamente prive di importanza.
La realtà per quello che è.

Chi cerca Dio, chi la pazzia, chi una ruota di scorta, chi l’anarchia, chi si lascia andare, chi si perfeziona, chi staziona e il circo continua.

Si pretende che ci sia una comprensione finale che non esiste in natura. La mente non ha blocchi finali. Non ci si arriva mai a quel punto e in questo senso, veramente, l’anima è immortale: perché non ha pareti.

Ogni autunno mi sembra di ricominciare a vivere. In fondo io odio l’estate e amo le cose intime e raccolte, la bellezza dei colori autunnali; il grigio tanto odiato da tutti, mi è sempre sembrato un gran bel colore, anche nel cielo.

Se togliessimo veramente tutte le sciocchezze, cosa resterebbe? Penso praticamente nulla.

Sonnambuli. Abbiamo edificato una civiltà senza mai aprire gli occhi.

Non ci sarà mai conciliazione tra “realismo” e “relativismo”, perché entrambe le posizioni sono vere. Non ha senso dire “Dio esiste”, più di quanto abbia senso dire “Dio non esiste”. Questo ormai è un assunto sui cui si può stabilire un punto comune.
“Non esistono fatti ma interpretazioni”, e tuttavia, al di là delle interpretazioni, brillano i fatti. La complessità della vita si dà in primo luogo perché la mente umana è strutturata per strati complessi successivi. La pretesa complessità della vita è, essenzialmente, la pretesa complessità della mente umana.

Siamo alla post filosofia, che dopo il post moderno continua a fare sfracelli nelle menti di chi vorrebbe capirci qualcosa.
Logica fuzzy, matematica dell’infinito. Cantor che smentisce Nietzsche, come dice Borges.
Tutto molto interessante, ma a cosa porta?
Derrida è un mezzo cialtrone (cosa che ho sempre sospettato) e la filosofia analitica ha i suoi limiti.
Eppure niente viene smentito mai completamente. Si deposita, sedimenta e diventa il guano sul quale si scivola mentre si ha una corda al collo.

C’è qualcosa di più umano dell’umano e che è ancora umano. Si rimane animali pronti a mordere anche quando si tratta di analisi filosofiche. Ma questo va bene, nel senso che non è un problema.

lunedì 14 ottobre 2013

Lo straccio



Passa lo straccio. Passa lo straccio.
Passa lo straccio sopra gli interstizi neri delle piastrelle bianche di questo posto bianco e tutto questo bianco si sporca così facilmente, non riesco proprio a capire perché si ostinino a fare queste piastrelle bianche nei bagni dei luoghi pubblici.
Dovrebbero fare le piastrelle nere, così lo sporco non si vedrebbe, ma poi forse non ci sarebbe neanche bisogno di qualcuno che pulisca e allora addio posto di lavoro. Quindi forse è meglio se lasciano le piastrelle bianche anche se le fessure tra una piastrella e l’altra sono sempre nere, è così difficile pulire bene.
Passa lo straccio. Strofina bene. Strofina più che puoi. Questo è il motivo perché sei qui.
Quanto tempo, ormai? Da sempre, si direbbe.
Che poi, una dice, il destino. Io ci credo al destino. Ho bisogno di crederci. Ho bisogno di credere di non avere mai avuto scelta. Perché se mi venisse il sospetto che faccio questa vita perché l’ho scelta io, meglio sarebbe spararsi. Il fatto di non avere avuto scelta mi conforta, in un certo senso. Il destino. Un soffio di vento e voilà, sei qui, un altro soffio di vento e voilà, sei di là. Che meraviglia! Nessuna responsabilità, mai. Mai assumersi una responsabilità.
La responsabilità di una vita, poi… ma che esagerazione!
Che cosa perdi tempo a pensare, pensi sempre a un sacco di cose inutili.
Passa lo straccio, invece. Passa lo straccio.

Queste righe nere tra le piastrelle non vengono mai pulite, per la miseria!
Per me è importante fare tutto per benino, non voglio che nessuno possa dire, ma quella sta qui tutti i giorni e non pulisce nulla! Perché lo dicono, lo so. Non sono mai contenti. Nessuno si accontenta mai del lavoro di un altro, è così. Il lavoro di un altro è per definizione sempre un lavoro fatto male.
Per me no, invece, io rispetto sempre il lavoro di tutti …
Certo ci sono questi stranieri che, si vede, non hanno voglia, ce l’hanno scritto in faccia. Voglia di lavorare, saltami addosso, questi stranieri! Vengono qui a fare chissà cosa, a pretendere chissà cosa, ma sotto sotto, se potessero mollerebbero il lavoro e si metterebbero a ballare o a drogarsi o a bere birra, questa gente beve troppa birra, ecco la verità.
Passa lo straccio e non pensarci. Passa lo straccio, passa lo straccio, passa lo straccio ma queste righe nere non se ne vanno!

Che poi si sentono superiori, lo vedo. Quando sono sull’autobus, si comportano come se non fossero su uno dei nostri autobus, cioè un autobus della nostra città, ma sul loro autobus! Sono tutti lì, stravaccati, in piedi o seduti e non ti fanno mai passare e se provi a infilarti in mezzo a loro per uscire dall’autobus prima che ti si chiudano le porte in faccia ti guardano pure male. Se poi cerchi un posto a sedere, niente, l’hanno già occupato loro. E poi parlano parlano parlano così tanto che mi sembra di essere a bordo della torre di Babele. Per loro tutto dovuto, tutto! Dovrebbero girare con gli occhi bassi e invece tra un po’ comanderanno loro! Comandano già loro, ecco la verità! Io non sono mai salita su un autobus pensando, questo è il mio autobus! Sempre buongiorno, buonasera, prego signora si sieda, sempre rispetto per tutti, perché io lo so che i mezzi pubblici non sono roba mia.
Niente è roba mia, qui.

mercoledì 2 ottobre 2013

Battisti Panella Hegel: E al posto di cose ci sono le cose 2/2


Arrivati quasi alla fine del viaggio nei cinque bianchi, la fatica si sente. Tali e tanti i paesaggi sonori e linguistici visitati, tanti e tali le sfaccettature degli album precedenti, tali e tante le acrobazie del duo, che la possibilità di una caduta all’ultimo gradino è probabile e anzi certa. È come trovarsi in un sogno che non vuole finire, di cui ormai il fondale di cartapesta è sfondato e tuttavia si va avanti ad assistere a scenari vuoti senza potersi svegliare. 
Con Hegel ci si trova davanti un’opera che è difficile definire del tutto riuscita. Non che manchino momenti belli all’interno dell’album, non che manchi la poesia e sprazzi di genialità, ma si avverte una mancanza di urgenza nel comporre che invece era presente negli altri album.
Panella in più di una intervista aveva fatto intendere che il giochino lo stava stancando. Battisti invece avrebbe potuto continuare all’infinito a musicare versi improbabili, pareva averci preso gusto all’appuntamento biennale. Panella racconta di aver voluto, quasi, sabotare l’ultimo album fornendo testi sempre più metricamente complicati, fregandosene del senso e della musicalità. Inserisce a piene mani concetti filosofici e voli pindarici e Battisti riesce lo stesso, magistralmente, a musicarli, come se nulla fosse: ma il risultato, secondo me, è inferiore alle aspettative.
Gli otto pezzi di Hegel sono, ancora più che nel precedente CSAR, in bilico tra l'essere malriuscite ripetizioni di un gioco che ormai mostra la corda e gli ultimi veri esperimenti di avanguardia novecentesca. In certi momenti è veramente difficile capire se sia vera una cosa o l’altra. 


giovedì 26 settembre 2013

Battisti Panella Hegel: E al posto di cose ci sono le cose 1/2



Gli anni Novanta sono anni finali per tante cose. Il XX secolo, quello degli Orrori e delle Meraviglie, si chiude in tono minore, nell’incertezza e nell’indistinto, proprio come molti pezzi della produzione BP.
Finisce l’URSS e con esso in breve tempo buona parte della geografia che conoscevamo da bambini, finisce l’era della telefonia fissa soppiantata dai cellulari, finisce in Italia la Prima Repubblica, finisce il PCI, finisce la festa e Jovanotti si improvvisa autore serio: da questo si sarebbe dovuto capire come buttava il decennio. 
Gli anni Novanta sono naturalmente anche anni iniziali: comincia l’interminabile crisi economica e occupazionale che tra alti e bassi arriverà fino ai giorni nostri. Inizia il ventennio berlusconiano, con l’espandersi di tutti gli ammennicoli televisivi e una incipiente oscenità spettacolare (nel senso di Debord) che non avrà più fine. Inizia l’era di Internet, anche se ancora balbettante. Muore Cobain e il grunge finisce seppellito assieme a lui, la techno fa esplodere le discoteche e la testa di ragazzini recalcitranti a ogni forma di cultura. Spopolano l’ecstasy e il crack. Lo splendore e le miserie degli anni Novanta è magnificamente rappresentato da quel maelstrom di parole che è Infinite Jest, uscito nel 1996.
Negli anni Novanta c’è tutto e il contrario di tutto, in atto di mescolarsi dando forma al niente pieno di rimpianto per il passato che saranno gli anni Duemila.
A metà di questo triste calderone, nel 1994, Battisti fa uscire l’ultimo album della sua carriera e della sua vita mortale.
Hegel è quanto di più distante e sradicato si possa trovare nella produzione artistica del decennio. È ancora più distante dal mondo mercificato di quanto potessero esserlo gli altri album bianchi. Mentre la musica pop italiana del decennio si esprime con un profluvio di flatulenze oleose e finto etniche, Hegel si situa in un altrove immenso: è , letteralmente, un'inaccessibile cattedrale in un deserto, una luna bianca, pietrificata.


venerdì 20 settembre 2013

IJ



Ho finito ieri Infinite Jest. Non credo sia un lavoro da cinquantenni leggerlo. C’è qualcosa di così giovane, in fondo, di così irrisolto, che spiazza, intenerisce ma anche infastidisce.
È un colossale esercizio di bravura, con dentro una gran quantità di dolore che lo rende autentico. Mi è piaciuto? A tratti è indimenticabile, non c’è dubbio. Ma c’è qualcosa che non quadra, qualcosa di indefinibile, come se realmente il fulcro di tutto fosse ( come si evince dal titolo) uno scherzo infinito, inutile, che non fa ridere (nonostante in molti punti DFW crei situazioni che strappano involontariamente risate fragorose).
Immergersi in IJ è come fare un lungo, lunghissimo sogno, a tratti densissimo, a tratti magnifico, ma che una volta svegli cessa completamente di avere importanza. Esci da IJ con il desiderio di respirare, come dopo una lunga apnea: respirare e guardarti intorno, lasciandoti assorbire dalla tua quotidiana realtà. È  come se fossi appena scappato da dentro al cervello in ebollizione di qualcuno che non sei tu. In ogni pagina pare di sentire il flusso inarrestabile di una fantasia poderosa, sostenuta da una enorme follia razionale. Mai un’opera lascia intravedere, come IJ, l’interno del cervello di chi l’ha concepita. In questo DFW è unico tra i, diciamo, contemporanei. È a livello di P. K. Dick,, Kafka, Beckett. Vite intese come letteratura, nel bene e nel male.


giovedì 12 settembre 2013

Battisti Panella Cosa Succederà Alla Ragazza: io ti vorrei incontrare però non lo vorrei



Negli anni Novanta imperava la techno, l’uso spasmodico delle drum machine, la musica house da un lato, e il grunge, i Nirvana, gli scarponi slacciati e la sciatteria come filosofia di vita, dall'altro. 
Al crollo totale delle ideologie rivolte alla salvezza dell’uomo massa, quello che restava tra le dita dei superstiti del Moderno era la possibilità di illudersi di godere dei vantaggi di un Mercato finalmente Illimitato, oppure la libertà di scivolare nella depressione. Unica certezza: tutto si può comprare, o almeno desiderare. Tutto sarebbe cambiato, nei Novanta, crisi occupazionale a parte, che già allora si faceva sentire. Ecco il post – moderno, senza più blocchi ideologici contrapposti.
Battisti continuava a rimanere nascosto ai comuni mortali e a sfornare dischi biennali, prodotti e arrangiati a Londra. Ogni volta le aspettative dei fan rimanevo frustate a livelli tali che ormai si riteneva Battisti un caso clinico irrimediabile.
Però la sua voce, indescrivibile, onnipresente e indimenticabile una volta che la si è ascoltata, non riusciva a sparire dalla memoria collettiva. A questo fatto fu dovuto il successo effimero ma notevole degli Audio 2 con canzoni e voce talmente simil – battisti periodo Mogol che per molti fu come se Lucio si fosse miracolosamente rimesso in carreggiata.
Da parte di Battisti non vi fu, naturalmente, mai nessun commento sugli Audio 2.
Lui era da qualche parte nella sua villa del varesino a godersi il giardino e lo studio di registrazione ultramoderno. La sua voce vera arrivava soltanto attraverso i dischi bianchi, sempre più folli, solipsisti, incomprensibili.
Ormai il confine tra voglia di superamento dei limiti, mimetismo estremo, ricerca raffinata, desiderio di distruggere la propria immagine del cantautore di Acqua azzurra, acqua chiara, che nonostante tutto i vecchi fan continuavano ad appiccicargli addosso, e patologia, cominciava realmente a diventare labile. Il disco uscito nel 1992 sembra confermare questa diagnosi clinica, almeno in parte.
Il binomio Battisti – Panella sfornò con la Columbia Records (il primo distacco dalla Numero Uno) otto brani che, mentre si rivelavano ancora più ostici dal punto di vista testuale sembravano tornare a una maggiore semplicità armonica e una adesione quasi letterale da parte di Battisti agli stili musicali dei Novanta. I brani, insomma erano canzoni tipiche della decade, ma talmente tipiche da cadere in una specie di iperrealismo: i pezzi dell’album sono pezzi techno e house al cubo, con incursioni nel rap che paiono tutto meno che necessarie, e che tuttavia, come sempre, quando si tratta di Battisti, funzionano.
È come se il disco CSAR fosse uno specchio che riflette in modo assolutamente distaccato il mondo che lo circonda, così come è. Questa è forse la chiave di lettura degli ultimi due album dei dischi bianchi e della vita stessa di Battisti. Distacco e riflessione, nel senso di riprodurre l’immagine che si ha davanti di momento in momento, ma che tuttavia non ci appartiene. Per potere operare in questo modo occorre essere insieme dentro e fuori dal tempo, come i pazzi, i solipsisti o i grandi artisti. Ciascuno giudichi secondo il suo gusto in che posizione collocare Battisti.
Nonostante la freddezza, la mancanza di emozioni nella voce, o forse proprio per questo, CSAR ha molti momenti di pura bellezza e sentimenti rivelatori. Atomi che danzano al suono delle drum machine, freddi ma consapevoli.
Proseguono le vicende della Ragazza, pronta a ricominciare a danzare al suono glaciale degli anni Novanta. La copertina evidenzia questo distacco sempre più profondo dal mondo della Merce, questa noncuranza di attirare qualsiasi fruitore, con una tremolante sigla in stampatello.

venerdì 30 agosto 2013

Battisti Panella La Sposa Occidentale: sai che non si è mai la propria vita



Con l’ormai consueta cadenza biennale, nell’ottobre 1990 uscì il terzo album della “strana coppia”. Copertina bianca, come sempre, con una specie di indecifrabile ritratto dentro a un quadro. Registrato a Londra, come gli altri, si avvale della collaborazione di un arrangiatore d’eccezione come Greg Walsh, collaboratore, tra gli altri, dei Pink Floyd e di Battisti stesso in Una donna per amico.
Questa volta Battisti optò per l’eliminazione totale di strumenti che non fossero elettronici, come già aveva fatto per l’album E già.
Mentre sia in Don Giovanni che ne L’Apparenza vengono ancora utilizzati archi, pianoforti, chitarre e bassi veri, dalla Sposa Occidentale il paesaggio diviene totalmente scevro dalla presenza di mano umana: solo freddi apparecchi digitali e la sua voce, masterizzata in modo da non spiccare eccessivamente. È una voce distaccata, didascalica, con una sorta di fredda ironia appena percepibile, che vira facilmente sui toni in falsetto.
È come se dicesse che qui ormai niente è più serio e, nello stesso tempo, il gioco è ormai diventato serissimo: l’ossessione di mimesi e sparizione assume proporzioni colossali.
E tuttavia anche questo album ebbe un discreto successo, vuoi per il gradevole e apparentemente buffo pezzo che dà il titolo all’album, vuoi perché il nome Battisti era una calamita sufficiente per garantire la vendita di almeno qualche centinaio di migliaia di copie, nelle prime settimane, seguito dall’inevitabile caduta verticale una volta che il prodotto si era rivelato inascoltabile ai più. Le radio difficilmente si arrischiavano a far passare pezzi dell’album, tranne giusto il brano  - titolo.
Battisti ormai faceva un mondo a sé, difficile da penetrare. Il suo apparente solipsismo presenta molte “falle, falle rudimentali, aperte come portali, per i tuoi molto puntuali appuntamenti molto occasionali”.
In questo mondo rarefatto si può però entrare e si può godere.
Ci si accorge, in mezzo a questi cristalli di canzone, che c’è una gioia di correre, soli e tutti goduti, in mezzo alla strada. Pezzi da mettere quando si corre: c’è una sensazione di danza, movimento giocoso, spensierato, che i testi di Panella sottolineano.
O forse si dovrebbe dire che i testi rarefatti e giocosi di Panella trovano perfetta corrispondenza in una musica giocosa e rarefatta.

sabato 24 agosto 2013

Battisti Panella L'apparenza: tutto è dimostrabile, soprattutto il contrario



Don Giovanni fu un buon successo, nonostante la diversità da tutto quello che Battisti aveva prodotto in precedenza. Fu il terzo album per vendite nel 1986 e in classifica rimase a lungo al secondo posto.
Il pubblico era ancora troppo abituato e affezionato al cantautore, per non accoglierne anche le più spigolose novità. Oltre tutto, anche ai puristi della canzonetta “normale” non poteva sfuggire che, nonostante i testi ostici, le canzoni dell’album erano, semplicemente, belle. Entravano dentro, nell’anima e ci rimanevano a covare emozioni come sempre indefinibili.
L’Apparenza uscì nell’ottobre del 1988 e fu, se possibile, ancora più spiazzante dell’album precedente. Stavolta Battisti non voleva lasciare dubbi: la nuova strada che aveva intrapreso con Don Giovanni era avanti tutta e senza ritorno.
Se nell’album precedente il procedimento compositivo nasceva dalla musica alle quali Panella sovrapponeva i suoi bellettristici  versi, ora i due avevano deciso di agire al contrario. Doveva essere Panella a sottoporre a Battisti i suoi componimenti, a metrica libera, concernenti qualunque cosa volesse.
La musica doveva scaturire dal verso, così com’era.
Era una sfida alla quale i due si applicarono senza risparmiarsi. Panella non si pose limiti.
Battisti nemmeno.    
Gli arrangiamenti, i testi, la struttura dei brani: ogni aspetto de L’Apparenza è uno schiaffo in faccia a chi è ancora legato al ricordo del vecchio Battisti.
La copertina è bianca, spoglia, con una credenza stilizzata disegnata da Battisti stesso.
Resta solo la sua voce, inconfondibile, acuta, mimetica, fredda, esplicativa, a segnalare che Lucio c’è ancora, da qualche parte, nascosto: c’è e ha deciso di parlarci.
Noi possiamo solo ascoltare, fuggire, ignorare, o amare.


lunedì 12 agosto 2013

Battisti Panella. Don Giovanni: L'artista non sono io, sono il suo fumista



Prima di cominciare, bisogna dire che porsi l’obiettivo di analizzare i 40 brani è da un lato un compito ingrato e, da un altro lato, completamente inutile.
Indagare sull’astrattismo ha sempre in sé una sfumatura di ridicolo che aumenta man mano che l’indagine prosegue. Non si troverà l’assassino, alla fine del giallo, ma solo il cadavere consunto di noia dell’investigatore.
Non ci sono interpretazioni dei significati dei testi, o meglio, ce ne sono migliaia e tutte potenzialmente valide. Molti ci hanno provato e anche con risultati interessanti (in Rete c’è una pletora di interpretazioni: psicanalitiche, filosofiche, matematiche, logiche). C’è chi trova nei bianchi citazioni del Petrarca, chi i numeri di Fibonacci, chi informazioni criptate sulla vita quotidiana del cantante … la sensazione che se ne trae è quella inquietante che tutte queste interpretazioni potrebbero essere vere e false a un tempo.
Panella disse a suo tempo che le parole hanno significati molteplici e che il suo “gioco è proprio trascorrere e percorrere la parole e i sensi. Invito al ritrovamento di un tesoro che nessuno vuole trovare. E soprattutto sfuggo il senso unico, o meglio l’unico senso.”
L’impronta che si ricava dalle parole di Panella è quella dell’avanguardista stanco di se stesso: un avanguardista che non ha più bisogno di essere tale. Tutte le retroguardie sono rientrate, ormai, e la guerra, mai vinta e mai combattuta, è finita laggiù, da qualche parte degli ultimi anni del novecento, prima di cominciare. Panella pare sempre parlare da dietro un sbadiglio di noia, vezzo che si concedono molti pseudo artisti: a lui glielo si può anche perdonare. Battisti invece era un entusiasta del lavoro, un perfezionista. La produzione BP riflette questo strano connubio di noia partecipata: lo sforzo di tenere insieme due mondi distanti che per otto anni ha funzionato.
I cinque album parlano direttamente dal fondo opaco in cui le cose e le parole si confondono. Parlano di cose oltre le cose, apparentemente riconoscibili (L’Apparenza è un'altra parola chiave) in realtà inconoscibili e sconosciute.
Tutto quello che si può fare è giocare con la percezione che questi brani producono e perdersi completamente.

Il primo dei cinque bianchi non è bianco, in realtà, ma di un marroncino beige chiarissimo.
In copertina un attaccapanni alquanto stilizzato da cui pende una sciarpa d’artista, di quelle lunghissime alla Fellini, per intenderci, lascia ben poche indicazioni sul contenuto del disco.
Nel 1986, in pieno decennio pop elettronico, testi intellettualoidi, densi di richiami alle tradizioni del novecento, alla letteratura, alla psicanalisi, mescolate a melodie accattivanti, dopo l’enorme successo di Battiato, non sono più una novità per gli ascoltatori.
A Drive In, trasmissione esemplare del decennio, si prendono in giro le pretese intellettuali di Sting, che fa canzoni basandosi sulla psicanalisi di Jung.
Perfino i Matia Bazar cominciano a fare testi ermetici e minimalisti, con canzoni tipo Aristocratica o Vacanze romane.
Insomma, il pubblico è diventato onnivoro: difficile disorientarlo. La cultura ufficiale stessa viene presa e frullata nel calderone di superficialità commerciale di quegli  anni di cosiddetto riflusso.
Tuttavia anche nei rifluenti anni Ottanta il nuovo album di Battisti, lascia sbalorditi pubblico e addetti ai lavori.
Dopo quattro anni dallo sperimentale e non del tutto riuscito Eh già, con testi della moglie (o forse di Battisti stesso? Mistero mai svelato), per di più un nuovo album senza Mogol, è un evento che non può lasciare indifferenti.
Battisti aveva già abituato i suoi fan a sorprese inaspettate.
Da Anima Latina in poi (del 1974: album tra i più ricercati, raffinati e profondi della discografia non solo di Battisti, ma della musica leggera italiana) la coppia Battisti – Mogol esplora tutti i ritmi e i riti della cultura popolare.
Ecologisti, terzomondisti, ribelli, anti consumisti in un’epoca in cui era di moda esserlo, i testi di Mogol sembrano compendiare a tratti Eros e Civiltà di Marcuse: portavoce di un’epoca in cui l’immagine dell’intellettuale anti borghese aveva ancora un suo senso.
Nonostante i belli ma “furbi” testi di Mogol la curiosa e inarrivabile capacità di Battisti di creare canzoni che echeggiano l’epoca nella quale sono state composte e nello stesso tempo la trascendono, sembra crescere sempre più.
Marciare insieme al tempo e esserne al di fuori: questo è il segreto di Battisti.
Gli anni Ottanta iniziano con la fine del sodalizio con Mogol.
Sui motivi di questo distacco tutto è stato detto ed è inutile aggiungersi ai cori di deprecazione o felicitazione.
Gli ultimi due album fatti con Mogol hanno un gran successo, ma qualcosa già si nota che stona. Una donna per amico (1979) e Una giornata uggiosa (1980) sono due perfetti successi commerciali.
Chiunque si potrebbe accontentare. I tempi sono quelli che sono. Finita la deriva ecologista i testi di Mogol accennano a un proto femminismo, a una incipiente stanchezza delle ideologie. Anche la musica di Battisti sembra in qualche modo appiattirsi nella facile melodia, nella giustificazione delle cose come stanno, sia in senso letterale che in quello musicale.
Su questa china a breve si può solo arrivare alla ripetizione e alla stanchezza, la macchietta di sé stessi, la stessa irrinunciabile canzonetta di successo ripetuta ogni anno.
Ma Battisti non si accontenta del successo. Battisti non può e non vuole tutto questo.
Non vuole più, forse non lo ha mai voluto.
Lui è diverso e lo sa. Lui è veramente diverso. È disposto a tutto.
Quello che Battisti vuole è andare avanti, ricercare, trasformarsi, perdersi e ritrovarsi.
Ricordiamo sempre i due aspetti fondamentali della psicologia artistica di Battisti: volontà mimetica e desiderio di trascendersi, non essere mai dove si è, un modo per riconfermarsi sempre numero uno.
Patologia e immenso valore artistico, sempre in bilico.
Volontà di autodistruzione e desiderio feroce di perdersi dentro la propria opera, unito a un altrettanto feroce sentimento del proprio valore.
Come un Proust che si seppellisce in casa per completare la Recherche e rinnega sé stesso a favore dell’opera, così Battisti rinnega la propria immagine pubblica, azzera sé stesso definitivamente per diventare autore totale.
Ha già smesso da qualche anno di apparire in pubblico. Ora cesserà totalmente di cercare di favorirlo. Non concederà più interviste. L’ultima è del 1980, per la TV svizzera.
Chi potrà mai prendere il posto di Mogol?
Pasquale Panella, classe 1950, incontra sulla sua strada Battisti grazie ad Adriano Pappalardo. Tra Pappalardo e Battisti c’è una amicizia di lunga data.
I due condividono la passione per le immersioni e Pappalardo è stato una promessa nella scuderia della Numero Uno, la casa discografica fondata da Mogol e Battisti. Insomma, si gioca in famiglia, si può dire.
Panella sta scrivendo i testi per l’album di Pappalardo Oh, Era ora. Battisti ne sta curando gli arrangiamenti. È un disco stranissimo, inconsueto, e non stupisce che non avrà riscontro. In quell’inizio anni Ottanta pare proprio che Battisti e suoi collaboratori si mettano di impegno per remare contro qualunque probabilità di successo.
Battisti rimane colpito dai testi di Panella, che usa lo pseudonimo Vanera.
Panella ha scritto per il teatro, è un giocoliere della parola, conosce le sfumature, dosa sentimenti e ridicolo con maestria incredibile. È, in una parola, un poeta, un vero poeta, uno che sa. Questo basta per Battisti.
È il 1983. Battisti vuole che Panella faccia i testi del suo prossimo disco. Lui farà le musiche e per i testi lascia assoluta carta bianca al poeta.
È fatta. Inizia il viaggio.

giovedì 1 agosto 2013

Battisti Panella: piccolo preambolo ai cinque bianchi



Facendo un giro per la Rete (frase orrenda che lascia intravedere significati altrettanto orrendi) si possono leggere un gran numero di commenti, alcuni assai articolati e interessanti, sull’intera vicenda Battisti – Panella.
Chiunque si prenda la briga di scriverne lo fa per lodare quella che per lui o lei è stata in ogni caso un’esperienza fortemente vitale di fruizione artistica.
Si potrebbe dire che i 40 pezzi dei 5 album B - P, hanno avuto nella musica leggera, qualcosa della forza di impatto che poté avere l’Ulisse di Joyce nella storia della letteratura: qualcosa di imprescindibile, ma che pochi hanno voglia veramente di affrontare.
È musica che non può e presumibilmente non vuole, avere accesso alle masse, però trasfigura la musica di massa, così come l’Ulisse trasfigurò il romanzo borghese.
L’accostamento romanzo – canzone popolare è meno strano di quello che sembra. Per le moltitudini umane, l’unico accesso alle cosiddette narrazioni, è sempre avvenuto attraverso le canzoni. Ogni canzone è un frammento del grande monotono o imprevedibile romanzo del mondo: un manuale di istruzioni per l’uso poetico della vita, parafrasando Perec.
I cinque album hanno avuto dalla loro l’inconfondibile voce acuta di Battisti, negroide, rassicurante: è sempre lui, quello di Acqua azzurra, acqua chiara, lasciamoci guidare, vediamo dove ci porta.
E dove portava questa voce acuta, inconfondibile? … e ripeschiamo l'oh dello stupore col quale incorniciamo il fragile leggero di quel che non diciamo / e poi di che parliamo?
Dal 1986 al 1994, ogni due anni, questa follia a due si ripeteva tra le aspettative deluse da chi si aspettava un ritorno alla tradizione e crollo verticale delle vendite.
Battisti non c’è più. È un’icona impazzita. Lo fa apposta. È un furbo. Chi si crede di essere.
Poi Battisti, nel 1998, muore. Sparisce per sempre, davvero.
Per moltissima gente è un colpo inaspettato, come la scomparsa di un parente, un amico.
Tutti gli devono qualcosa, anche chi non lo ha amato. Solo che Battisti è Battisti – Mogol. Che altro?
I cinque bianchi rimangono come sfingi, con i loro enigmi. E non solo, costituiscono la fase finale della sua produzione.  Lucio Battisti non è andato oltre Hegel. Queste cinque bizzarrie discografiche sono, volenti o nolenti, il suo testamento
Tutta quella musica.

martedì 30 luglio 2013

Oltre la cupola del Truman Show



Tra gli scrittori contemporanei, mancano le cosiddette figure “tragiche”, quelle vite che diventano paradigma della condizione umana o perlomeno di un’epoca. Si è cercato in Italia, di costruirne una con Roberto Saviano, il quale, pur essendo probabilmente un bravo ragazzo, è totalmente inserito nel circuito delle opinioni politicamente corrette. Da Saviano non ci si attende lo sguardo nell’abisso. Da nessuno ce lo si attende, in genere.
Non ricordo chi ha detto che si comprende di più un’epoca dai suoi romanzi, che dalle teorie scientifiche.
L’Ottocento, il secolo borghese, ha creato il romanzo delle grandi individualità in cerca o in conflitto con sé stesse e il mondo.
Il Novecento, secolo della fisica quantistica e della “scoperta” dell’inconscio, ha creato i grandi romanzi della dissoluzione dell’individuo o del suo problematico riscatto.
Il Duemila, secolo di Internet e della Mercificazione Totale, ha portato all’impossibilità della sincerità.
Già David Foster Wallace, parlava dell’ironia come della malattia della modernità, vista come il sintomo dell’impotenza di chi ha imparato ad amare la propria gabbia.
Il Duemila è il secolo che ha abolito l’esterno di sé stesso. Viviamo in un Unico Mondo Dal Quale è Impossibile Uscire. Niente alternative date all’esistente. Universo al Capolinea.
I romanzi del Duemila (e le serie TV) descrivono, descrivono, descrivono, ciò che non ha più bisogno di essere descritto: il totale dissolvimento dell’identità umana nella merce, la totale codificazione delle esperienze umane, così completa da potere essere allineata su uno scaffale di un supermercato.
Il romanzo del Duemila è stato sostituito dalle serie TV americane, sempre più complesse, articolate, profonde, ma attenzione: proprio questa sempre più esasperata complessità umana, ne rivela il paradosso di base: tutto è già detto, tutto è già fatto, ognuno di noi si deve soltanto accomodare nel proprio disagio preferito.
Il risultato finale è sempre uno: ti mostro lo schifo della società per farti abituare. Ti devi abituare a mangiare e respirare merda, perché questa è la realtà e questo è il migliore mondo reale che possiamo offrirti. 
Non c’è più evasione dalla sofferenza, ma l’esorcizzare la stessa assumendone dosi massicce.
Le dosi massicce di iperrealismo quotidiano hanno il solo scopo di narcotizzarci.
Eppure l’arte dovrebbe avere l’obbiettivo di andare oltre, o almeno, provarci: vedere cosa c’è oltre il muro della cupola del Truman Show (altra metafora ampiamente abusata).
I romanzi, protagonisti della società di ogni secolo, da strumenti di indagine della condizione umana, sono diventati illustrazioni di illustrazioni.
Chi pubblica oggi, è inserito in una determinata, seppure ampia cornice.
I solchi sono stati tracciati e chi esce dai solchi viene ignorato.
Cessate le ideologie, quelle stesse che hanno negli anni Sessanta e Settanta decretato il fallimento di Morselli scrittore, è rimasta la potentissima ed esclusiva ideologia del profitto, che screma tutto quello da cui si potrebbe ricavare poco in termini economici.
L’uomo deve pur attaccarsi a qualcosa e accumulare è un sistema come un altro (forse un po'più dannoso di altri) per lenire l’angoscia. Una intera società nella quale sono crollati i fondamenti religiosi e ideologici deve pur sopravvivere a sé stessa. Accumulare, o tentare di accumulare, o tentare di imitare chi riesce ad accumulare, o ancora passare il tempo interessandosi delle vite dei protagonisti dell’accumulo, oppure ancora riempire il proprio tempo di preoccupazioni assolutamente materiali, è un modo per tappare tutti i buchi.
Se persino la cosiddetta spiritualità funziona oggi ad accumulo di esperienze “a pagamento”, diventa chiaro che il sistema sta funzionando alla grande, sebbene si sentano i primi sinistri scricchiolii.
La società nella quale viviamo non è più la società della grande borghesia contrapposta alle altre classi sociali, nella quale la borghesia stessa recitava la parte del giudice e dell’accusato. Ora viviamo in un mondo assolutamente immaginario, nel senso proprio di “immagine”, in una fantasmagoria dove le parti da recitare sono un numero limitato, sempre le stesse, mentre gli uomini, invece, non sono mai stati così tanti di numero.
La compassione stessa ricade sotto un regime codificato dalle vecchie religioni rivelate o dalle nuove religioni commerciali.
Il proliferare sconvolgente di istituzioni di beneficenza è il chiaro sintomo di cattiva coscienza e deliberato intento di lasciare tutto com’è.
È chiaro che al romanzo oggi, viene chiesto di illustrare e quindi giustificare, più o meno subdolamente, quello che ci circonda.
La società, grande madre che ingloba tutti, vincitori e vinti, trae piacere dalle storie di gente sofferente, che ce la fa o soccombe, ma non tollera che si mettano in discussione le sue fondamenta.
In che modo si potrebbe mettere in discussione le fondamenta della società?
Basterebbe scrivere a chiare lettere che è la fine: che il sistema che alimenta tutti è in via di esaurimento e che tra qualche decennio il cambiamento antropologico sarà inevitabile.
Basterebbe creare personaggi che pensino o vivano situazioni opposte a quelle che si ritengono “spendibili” nel panorama attuale: un uomo picchiato da una donna, un omosessuale stupido e razzista, un islamico fintamente tollerante e filosofo, in realtà superstizioso e ignorante, una donna che desidera essere stuprata, un lavoratore che muore sul lavoro perché cialtrone e negligente, un leghista buono, un democratico cattivo, un ebreo razzista e ignorante, uomini impotenti e donne insoddisfatte, rapporti sessuali scadenti, vacanze inutili, guru inetti, rapporti che stanno in piedi per affetto e amicizia, problemi veri e rimedi fasulli, problemi fasulli e rimedi veri, bambini insopportabili, aborti desiderati e riusciti, suicidi dovuti, preti atei, atei credenti, scienziati limitati, vera violenza di classe, sfruttamento dell’uomo sull’uomo, eugenetica e controllo della popolazione, distruzione dei buoni sentimenti, creazioni di veri sentimenti.
Dostoevskij poteva permettersi di essere un sublime conservatore. Ora necessitano scrittori sublimemente disposti a sacrificarsi per distruggere veramente il cancro osceno del politicamente corretto.
Servono scrittori che non si limitino a dirci che siamo nel Truman Show, ma che inizino le loro storie, proprio dal punto in cui l’uomo merce esce dal buco nel muro e entra nella Realtà, magari per scoprire che non c'è rimasto niente, o non c'è mai stato niente. 

venerdì 12 luglio 2013

Battisti - Panella: una cosina dolce al di là della merce



La dolcezza è inascoltabile … la dolcezza che io rivolsi a me … e fu per quella dolcezza che i cinque dischi sono forse gli unici che nessuno potrà mai ascoltare come merce.

Pasquale Panella

 ... forse magari è estate,
cominciano le corse tutti arrivando i primi:
i primi in una cosa, una cosina dolce, una cosina dolce.

I cinque album della coppia Battisti  - Panella rappresentano un unicum non solo nel panorama della cosiddetta canzonetta popolare italiana, ma nell’insieme della produzione artistica del secondo novecento.
Questa affermazione può sembrare esagerata, ma viene confermata dal’assoluto isolamento di queste opere nel segmento temporale nel quale vennero concepite. Non c’è mai stato, letteralmente, niente del genere prima e non c’è stato niente del genere dopo.
La loro presenza tuttavia, non è stata invano: ciò che queste opere esprimeva di totalmente liminare è stato utilizzato, sottotraccia, da decine di epigoni furbi.
Il testo che tenta di esprimere l’inesprimibile, nella canzonetta furba post panelliana – battistiana, è divenuto un ammiccare sfrontato dalle bancarelle della miseria mercificata.
Gli originali, i micidiali cinque album bianchi, loro no. Loro, a detta stessa di Panella, esistono al di là della merce. Non a caso sono stati pubblicati nell'assoluto sprezzo delle vendite, che dal primo al quinto album sono calate più o meno in caduta verticale. Non essendo merce, i cinque album non possono essere classificati.
Non ammettono valore d’uso, solo un ipotetico valore di scambio.  
Con i cinque album si procede per sottrazioni: non si può dire cosa esprimano, a livello emotivo o semplicemente musicale. Chi ne viene attratto, lo è per (come direbbe Panella) “tutt’altri motivi”.
Un ripetuto ascolto concede certamente, di poter entrare nell’universo stilistico dei testi. Alcuni significati possono essere afferrati, sottintesi, evidenziati, ma il risultato sarebbe lo stesso marginale.
La cosa sconvolgente dei cinque album è che essi sono, così come stanno, perfetti: oggetti inavvicinabili dalle quali emanano tuttavia vibrazioni profonde, vitali, seminali.
Chi viene risucchiato nel loro universo si ritrova a canticchiare strofe improbabili con il tono epico e la lacrimuccia di chi stia declamando l’Infinito o cantando la Traviata.
Questa musica così apparentemente asettica, queste liriche così ostiche, indecifrabili non provengono dalle “emozioni” (titolo famosissimo del primo Battisti), ma da qualcosa che arriva prima di esse, oppure ancora, da dopo.
Dopo la liberazione dei fardelli emotivi, dopo la fine delle nevrosi o delle rime cuore – amore, c’è l’universo traslucido dei cinque album.
Essi non possono in nessun modo piacere alle masse: nello stesso tempo non è necessario aver chissà quali basi culturali per sprofondarvi dentro. È  sufficiente accogliere l’incredibile sollievo di non doversi agganciare a nulla, ma di lasciarsi “viaggiare” da musiche, testi e pre - testi, i quali esprimono tutti, in primissimo luogo, un senso di danza.
La danza percorre tutto l’itinerario dei cinque album: il movimento leggero, giocoso, ilare, delle parole, della musica, degli oggetti, del “prospero per la pipa universale”, della distrazione, del cibo –donna, tutto senza fermarsi mai, “come fosse la fine”.

Sono album finali e non poteva essere che così: svettano in mezzo allo sterminato magazzino della canzonetta, bianchi, puri, incontaminati eppure densi di vita e gioia, per chi se ne lascia travolgere.

P.S Nei post successivi tenterò, nei limiti delle mie capacità, di esaminare album dopo album i cinque "bianchi". Ce ne vorrà di tempo e voglia ...