Prendete una quantità di personaggi da non avere nulla da invidiare
a Guerra e Pace, inseriteli in un contesto marginale di un’epoca di grandi
rivolgimenti come quella che va dai primi anni del novecento allo scoppio della
prima guerra mondiale; fate incontrare, innamorare, litigare, duellare, ridere,
morire e piangere i suddetti personaggi; aggiungete a questo punto una
riflessione pressoché ininterrotta sul tempo, la morte e la valenza malattia –
vita ed eccovi La Montagna Incantata.
Thomas Mann è uno scrittore che, dietro la sua seriosa carica
borghese, ama scherzare in modo leggero e contemporaneamente pilotare il
lettore sul bordo dell’abisso, come un compagno di scuola dispettoso che con un
ghigno fa finta di spingerti giù dalla finestra. Solo che Mann va fino in
fondo: spinge veramente giù il lettore che desidera lasciarsi andare, dentro un
precipizio inesorabile.
Questo lunghissimo romanzo è la descrizione dell’opera
disgregatrice del tempo e la ricerca di ciò che può salvarci.
La storia di Hans Castorp, giovanotto ingenuo ma non privo di
mezzi intellettuali, è nota.
Arrivato al sanatorio di Davos, in Svizzera, con il semplice
obiettivo di far visita per qualche settimana al cugino Joachim, militare la
cui carriera è stata interrotta dalla tisi, Castorp finisce per risiedervi
sette lunghi anni, soggiogato dall’incanto del posto, dalla magia della
possibilità di una sospensione totale dal tempo, scandito solo dai ritmi
regolari del sanatorio.
Detta così, sembra solo la storia di una fuga dalla realtà da
parte di un ometto sbiadito che non ha il coraggio di vivere. Nulla però sembra
brulicare di vita e stimoli di ogni tipo, come quel ricovero di malati
destinati a rimanervi spesso tutta la vita e a morirvi, o a non potere tornare
in pianura, pena il riacutizzarsi del bacillo.
Questo limbo a duemila metri di altezza diventa, nel libro, la
culla di ogni forma di pensiero occidentale.
Castorp vi perseguirà la saggezza, stimolato dall’incontro con
personaggi memorabili, come Naphta, Settembrini, Mynheer Peeperkorn, Madame
Chauchat, Bahrens il direttore e tanti altri.
Il tema trattato, con mezzi totalmente differenti, è quello del
Deserto dei Tartari, cioè il rapporto dell’uomo con il tempo: ma mentre il
capolavoro di Buzzati è spoglio e aspro e desolato, il capolavoro di Mann è
rigoglioso, pieno di efflorescenze, un rigoglio che ricorda il proliferare
delle muffe su un cadavere.
Ci vorrebbero diversi post solo per riassumere la storia narrata.
La parabola di Castorp è un esempio, sui generis, del romanzo di formazione.
Mann utilizza i personaggi di Settembrini e Naphta per esporre
tutte le ideologie contrapposte del secolo. Il razionale e liberale Settembrini
con il suo ripetuto motto placet experiri,
incarna l’ideale del progresso borghese, che non deve mai retrocedere dal far
uso della ragione e della nobiltà d’animo per migliorare l’uomo.
Naphta invece incarna il lato oscuro di ogni ideologia. È un
gesuita disilluso, che sa che le masse non possono mai emanciparsi da sole, che
non crede nell’individuo, ma solo nelle strategie che spiriti superiori devono
apporre per guidare l’umanità abietta e smarrita.
Entrambi i personaggi si contendono a colpi di discorsi
interminabili, dialoghi fulminanti, esplorazioni vertiginose, l’animo del
giovanotto.
Se ci si prendesse la briga di rileggere lo scontro verbale tra i
due, protratto per pagine e pagine, si avrebbe un compendio della storia delle
idee borghesi dall’Illuminismo in poi.
Mann riesce a farci entrare tutto. Ogni idea concepibile è
elaborata e distrutta al fuoco dello scontro ideologico tra progresso borghese
e disfatta dell’individuo.
Castorp si barcamena tra i due mentori, da cui viene affascinato
in egual modo, ma (e qui la malizia di Mann sfrutta tutti i registri dell’ironia)
trova sempre il modo di elaborare una sua strategia vitale, sorniona e leggera.
Lui si limita a placet experiri, a
seguire il flusso del tempo senza fermarsi da nessuna parte. Ha oscuramente
compreso che solo la malattia, con la sua inevitabile vicinanza con la morte,
offre la chiave per comprendere meglio quel fenomeno incredibile che è la vita
e il suo rapporto con il tempo. Solo la conoscenza del limite estremo, ci porta
nel cuore pulsante della vita.
Non a caso Settembrini definisce affettuosamente Castorp
“beniamino della vita”.
Nel romanzo succedono tante, tantissime cose: impossibile
registrarle tutte.
Questo romanzo è un’esperienza da vivere, bisognerebbe leggerselo
piano piano, gustandoselo, portandoselo dietro come un compagno di viaggio,
quasi desiderando che il viaggio non finisca mai.
Così l’ho vissuto io tutte le volte (e sono molte) che l’ho
riletto. È un’opera che contiene in sé qualcosa che si autorigenera ogni volta.
È come se si accordasse sempre (nonostante sia ambientato in un tempo e in un
conteso ormai lontanissimo) con la vita del presente e vi si sovrapponesse,
illustrandola.
È un libro che non ho mai potuto fare a meno di amare.
Le scene memorabili sono tante. L’incontro con Madame Chauchat,
indolente nobildonna russa di cui Castorp si innamora;, la contesa tra Naphta e
Settembrini che sfocia in un duello alla pistola nel quale l’oscuro Naphta,
piuttosto che accettare il pacifismo di Settembrini, si uccide; la morte del
cugino Joachim preceduta da una breve agonia, la cui accettazione del proprio
destino commuove Castorp; la sessione periodica di visite, nella quale,
nonostante l’evidente miglioramento della salute, Castorp si rifiuta di
lasciare il sanatorio; La descrizione della vita nel sanatorio con i suoi
pranzi e le sue cene sovrabbondanti, la strana gioia mista a sensualità che
investe tutti i dimoranti, le feste in cui tutti si scatenano come pazzi, come
se non fossero malati; il ritorno, a tre quarti del romanzo, di Madame Chauchat
insieme a Mynheer Peeperkorn, un personaggio dalla vitalità smisurata del quale
prima Castorp è geloso, ma di cui poi subisce il fascino.
Insomma, questo è uno di quei romanzi – mondo, come vengono
definiti da certa critica i mallopponi che cercando di farci entrare tutto, in
genere soffocano i lettori.
Qui però Mann costruisce un mondo in cui vorresti perdertici
dentro.
Il fulcro dell’opera, secondo me, è il capitolo NEVE, situato poco
dopo la metà del romanzo. È il capitolo nel quale il pensiero di Mann viene
allo scoperto in tutta la sua ambiguità irrisolta.
Hans Castorp, da quel baldo giovanotto che è, decide di fare
un’escursione sugli sci, sulle piste innevate intorno al sanatorio. In quei
tempi non esistevano impianti di risalita, skipass e cose del genere. Sci in
spalla, si cercava un posto adatto e ci si buttava.
Colto da una violenta quanto brevissima bufera, Castorp si perde
in mezzo alla neve e ai boschi. Intorno a lui l’ombra delle montagne aumenta. È
pomeriggio inoltrato e se non riesce a tornare prima che faccia buio, la sua
situazione diventa pericolosa.
La tempesta si placa e lui trova rifugio dietro un capanno chiuso,
nel quale non può entrare, ma che lo ripara dal vento. In preda alla stanchezza
si assopisce, in piedi, sugli sci, appoggiato al muro del capanno.
Un sonno profondo lo avvolge e si ritrova a sognare. È un sogno
vivido, come fosse la realtà. È su una bellissima spiaggia di sabbia bianca,
evidentemente è una delle isole greche. Intorno a lui bellissime giovinette e
bellissimi giovani, conversano, giocano, si amano. È un quadro di pace e
serenità senza uguali. Tutto è perfetto, la luce meravigliosa del sole illumina
un momento di eternità. È un momento assoluto, di felicità completa.
Hans cammina su quella spiaggia meravigliosa e si dirige verso un
tempio lontano, mentre le ombre della sera calano. All’interno del tempio ci
sono delle donne.
Castorp si avvicina in preda a una strana inquietudine. Capisce
che sta per assistere a qualcosa che è l’origine della pace meravigliosa che ha
visto su quella spiaggia.
Le donne si girano verso di lui e sono vecchie, rugose, con i seni
grinzosi e penduli, delle orribili megere. Le vecchie sono intente a divorare,
contendendoselo a morsi, il cadavere di un bambino.
Castorp intuisce con raccapriccio che qualsiasi promessa di
armonia, nasconde dietro sé, nel profondo, sepolta in modo che nessuno possa
vedere, un atto di violenza terribile.
In preda all’angoscia, Hans si risveglia di colpo e si ritrova appoggiato
al capanno, in mezzo alla neve. Il sogno sembra essere lungo ore e ore, mentre
invece il suo assopimento è durato solo qualche minuto.
La giornata non è ancora finita, il cielo si è rasserenato e lui
si accorge di essere vicinissimo al sanatorio, in salvo. Ha visto la chiave di
tutto, l’unicità di vita e morte incatenati in un abbraccio senza fine e se n’è
tirato indietro.
“Lo sapevo che era un sogno.” “Quanto aveva sognato
stava impallidendo. Quanto aveva pensato, già quella sera non gli appariva del
tutto chiaro”.
Riflettendo sul sogno così inquietante Castorp (e Mann insieme a
lui) arriva a una conclusione, insieme accorata e non del tutto sentita: Per riguardo alla bontà ed all'amore l'uomo non
deve concedere alla morte la signoria sui propri pensieri.
Questa frase non è del tutto sincera e Mann,
probabilmente, lo sapeva: ma non poteva fare a meno di arrivare a quella
conclusione. Tutta l’opera di Mann (ma anche la sua stessa vita, la difficoltà di
trascendere i propri impulsi omosessuali, i lunghi periodi di depressione, il
suicidio del figlio Klaus) è stata tutta un confronto con la morte e il suo
rapporto con la vita. Mann fuggiva, con tenacia, ma senza distanziare mai la
grande avversaria dietro di sé.
Questo sterminato, bellissimo, esperienziale
romanzo, si chiude con l’ingresso del mondo nella carneficina del 1914. La
cultura europea arriva alla fine. Il demone della morte ha vinto, almeno
apparentemente. Castorp è richiamato alle armi, dovrà abbandonare Davos per
affrontare una prova dalla quale probabilmente non uscirà vivo.
Mann termina il romanzo in modo ambivalente, come
tutta la sua opera in fondo, sempre in bilico tra Morte e Amore:
“Avventure della carne e dello spirito che hanno potenziato
la tua semplicità, ti hanno permesso di superare nello spirito ciò che
difficilmente potrai sopravvivere nella carne. Ci sono stati momenti in cui nei
sogni che governavi sorse per te, dalla morte e dalla lussuria del corpo, un
sogno d'amore. Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte, anche
dalla febbre maligna che incendia tutt'intorno il cielo piovoso di questa sera,
sorgerà un giorno l'amore?".
Dopo cento anni, ancora stiamo aspettando il sorgere dell'amore.
Mann incarna alla perfezione gli abissi e le
luminosità della grande borghesia europea al tramonto. Un tramonto di cui noi,
oggi, viviamo la notte, circondati come siamo, da morti viventi sotto forma di
zombi – consumatori.
Complimenti Massimo, una bellissima analisi, che sottoscrivo in pieno.
RispondiEliminaMi hai fatto venir voglia di rileggerlo.
un resoconto intenso e dettagliato della trama in questione incita sicuramente a una rilettura, a soffermarsi su certi passi evidenziati come quello, che condivido particolarnente, dove il pensiero, legato alla nostra intimità più profonda, non potrà mai essere violato, per nessuna ragione, e da nessun dio.
RispondiEliminaAssieme alla Recherche(che ho letto in toto 7 volte), il Romanzo della mia vita e del mio costante assillo, il Tempo. Mi è piaciuta parecchio la Tua analisi, peraltro su diversi temi che il Romanzo affronta. Complimenti. Grazie.Alessandro
RispondiElimina
RispondiEliminai couldn't believe that i would ever be re-unite with my ex-lover, i was so traumatize staying all alone with no body to stay by me and to be with me, but i was so lucky one certain day to meet this powerful spell caster Dr Akhere,after telling him about my situation he did everything humanly possible to see that my lover come back to me,indeed after casting the spell my ex-lover came back to me less than 48 hours,my ex-lover came back begging me that he will never leave me again,3 months later we got engaged and married,if you are having this same situation just contact Dr Akhere on his email: AKHERETEMPLE@gmail.com thanks very much sir for restoring my ex-lover back to me,his email: AKHERETEMPLE@gmail.com or call/whatsapp:+2349057261346
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.. Lo sto leggendo. Il " Tempo", la mia ossessione. La morte come parte della vita. Il senso della 'esistenza' nelle molteplici declinazioni del vivere. La Fede, non importa in chi, come spinta propulsiva per attingere la forza di continuare senza cadere nella tentazione di porre un termine.
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