Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

lunedì 22 giugno 2015

"Sono i ricchi che fanno i poveri"



Stamattina ho sentito in TV un tale di cui non ricordo il nome ma solo la faccia da cazzo, dire che l’Italia dovrebbe trasformarsi in un paese dedito solamente al turismo. Solo in questo modo aumenterebbe considerevolmente il PIL o stronzate del genere. In che modo questo tipo preconizzava il futuro turistico dell’Italia? Semplice: bisogna creare tantissime piccole nicchie di qualità, dove ci sia accesso a pochi turisti ma che possono pagare tantissimo. L’idea ha un suo senso. Si evita il deturpamento delle bellezze italiche e si fa circolare solo gente ricchissima. L’economia decolla. All’obiezione della conduttrice che in questo modo si arricchirebbero solo in pochi, il benpensante ha replicato che “Sono i ricchi che fanno i poveri, Se ci sono più ricchi, anche i poveri stanno bene”.
Non credo che sia una risposta ingenua. È, invece, l’ingenua formulazione di un articolo di fede del cosiddetto liberismo. Se circola più ricchezza, anche i poveracci ne trarranno beneficio, come i cani che mangiano gli avanzi che cadono dalla mensa del padrone.
Una simile concezione è talmente atroce che avrei preso questo bel tomo e gli avrei fatto pulire i cessi di qualche nota e bellissima località turistica per il resto della vita, almeno avrebbe potuto sperimentare da solo i benefici che sicuramente gli sarebbero ricaduti addosso.


Siamo bombardati ogni giorno da queste idiozie. Ci affliggono con le storie patetiche dei migranti ogni giorno e ora perché dobbiamo vivere nella colpa di non sentire il desiderio di ospitarli. Questa gente che mai e poi mai vivrà uno svantaggio dal punto di vista personale per l’afflusso vertiginoso di migranti, ha la pretesa di far sentire in colpa chi invece ne avrebbe svantaggio. La classe dominante si permette di redarguire, di spiegare qual è l’emozione giusta da avere nei confronti degli eventi. Contemporaneamente ci sono quelli che cavalcano il malcontento popolare, ma mica perché sono dalla parte del popolo, no: sono semplici questioni di voto.
La verità, pura e semplice, è che il popolo non esiste più o non è mai esistito, se non come rappresentazione di chi muove i fili di milioni di burattini.
L’incontenibile esplosione demografica dei paesi più poveri è la causa principale delle massicce migrazioni. Non sono le guerre, o lo sono solo in parte, la causa della fuga in massa di migliaia di persone. Questo è quello che vogliono farci credere.
E in ogni caso, le guerre combattute nelle zone periferiche del mondo, sono tutte il risultato delle politiche espansionistiche specialmente degli Stati Uniti.

Io non riesco a provare molta empatia per i cosiddetti migranti: non riesco perché, in primo luogo, mi ci sento obbligato. E un’imposizione, anche se apparentemente in fin di bene, rimane sempre tale. Il puntare al disastro, al dolore, alla tragedia, sono armi retoriche che caricano il cittadino (la cui responsabilità è decisamente marginale) di colpe oscure. Tu che vivi in paradiso, come puoi osare essere indifferente alla sofferenze dei tuoi fratelli?
Chi ha la colpa di avere provocato questa destabilizzazione in Libia? Lo sappiamo chi ce l’ha. Che se li becchino loro i migranti. Dietro questo flusso inarrestabile di persone c’è l’occidentalizzazione del mondo che si ritorce contro gli occidentali. È per questo che la politica dell’accoglienza mi disturba.

I poveri migranti devono ricaricare i cellulari. A Ventimiglia un bravo cittadino li ha forniti di un pannello solare all’uopo. Chissà che compagnia telefonica usano, che tariffe hanno. Se li intervistano, scappano tutti da guerre e sono tutti laureati come minimo in ingegneria. Sono bravi, puliti, sono il nostro prossimo futuro. Non portano idee nuove, o nuova cultura, no: portano le stesse idee che abbiamo noi, gli stessi obiettivi e desideri di una vita migliore, che significa “voglio avere il diritto di consumare cellulari, automobili, voglio studiare quelle cose che mi serviranno per avere più soldi domani e voglio fare figli che faranno le stesse cose domani e dopodomani” e fino allo spegnimento del sole.

Nessuno se la sente di negare a queste persone una possibilità: è pur vero che ogni tanto biglietti della lotteria milionari vengono incassati. La fortuna di pochi passa per le disgrazie di molti e le illumina. Ce l’ha fatta tizio, ce la posso fare anch’io o tuttalpiù un mio pronipote: a un essere umano basta questo spiraglio per infilarsi, è il destino commovente di tutti noi.

Scappano da guerre. In realtà quelli che scappano veramente da guerre sono una minoranza. Nessun paese li vuole: sono tutti così crudeli e cattivi? Solo l’italiano è bravo e accoglie, magari con il mugugno.
D’altra parte noi abbiamo papa Francesco, il Peter Sellers del Vaticano che ci delizia con le sue stronzate celestiali.
La colpa della sovrappopolazione è il capitalismo? In parte sì. In parte no. In parte è fenomeno culturale. Chi è povero fa figli, che sono l’unica ricchezza. È sempre stato così.
È una ricchezza morale, etica. Una volta i figli si mandavano nei campi. Ora si devono prendere cura di chi rimane a casa, mandando possibilmente soldi.

Si auspica questa meravigliosa, utopistica redistribuzione delle ricchezze. Se mai una tale favoletta trovasse luogo nella realtà, sarebbe l’inizio di un disastro ancora maggiore dei precedenti. L’umanità concorde si troverebbe tutta complice nel consumare ancora di più.
Salvo che il buon Francesco non auspichi una collettività mondiale di buontemponi, un bel villaggio globale fatto di casupole, lavori a rotazione, la sera nei cortili a raccontarsi antiche storie. Sarebbe bello e un po’ noioso. Ma le moltitudini sterminate potrebbero mai accontentarsi di un pannello solare per ricaricare i cellulari, sterminate mense pubbliche, immensi parchi gioco e condomini: una specie di Unione Sovietica Mondiale, ma più buona? Siamo così sicuri che anche una simile società consumerebbe meno  quell’8% di suolo coltivabile del pianeta per nutrirsi? Oppure, in nome della concordia, nove, dieci undici miliardi di anime future si accontenteranno di una scodella di riso o di avena?
La mia sensazione (ma io sono ignorante e potrei sbagliarmi) è che tutti farneticano senza sapere di cosa parlano. C’è chi tira in ballo Marx  o Keynes, come se i due (quale dei due si valuta secondo le proprie credenze)  avessero la risposta pronta per qualunque evenienza.
È il capitalismo, bellezza, dicono. Le alternative sono redistribuzione o comunismo.
La verità è che la soluzione a questo problema non la conosce nessuno e forse non c’è.
 I ricchi faranno i poveri come dice la faccia di cazzo in TV. È quello che hanno sempre fatto. I poveri sono semplicemente ricchi senza soldi.
I flussi continueranno fino al mescolamento totale.Questa cosa in fisica si chiama entropia.

venerdì 5 giugno 2015

Collettività e cattiva coscienza



Le questioni collettive mi ripugnano per un difetto della mia costituzione psichica. Tuttavia mi rendo conto che sono io stesso un animale sociale, immerso fino ai capelli nella collettività, in un umore fatto di amore e repulsione.

Poiché la mia ripugnanza della politica e dei fenomeni collettivi, nasce in buona parte dalla frequentazione nel passato di gente che invece ci sguazzava a proprio uso e consumo, non posso fare altro che osservare e cercare di capire.

Quello che sono riuscito a vedere come collante della collettività è qualcosa di molto simile a una sorta di cecità, un impulso cieco a fare, a stabilirsi al centro della corrente. È una sorta di agitazione che impedisce al genere umano di fermarsi un attimo. Cerca soluzioni a problemi che esso stesso (il genere umano) si crea. L’assoluta autoreferenzialità umana è sconcertante.
Nietzsche la chiamava volontà di potenza e sebbene questa definizione suoni mitologica e poco scientifica rende bene l’idea.

Le questioni collettive mi ripugnano, dicevo. Se cerco di indagare a fondo in questa ripugnanza, trovo una pulsione all’isolamento molto forte in me.
Certo, ho anch’io una vita sociale, degli affetti, sono spesso cordiale, almeno da qualche anno a questa parte.

Sono sempre stato uno che se mi si chiedono in prestito dei soldi e ce li ho, li do e mi dimentico di richiederli. Sono uno che, almeno fino a poco tempo fa, se qualcuno mi avesse chiesto di accompagnarlo dalla parte opposta della città alle sei del mattino, lo avrei fatto (e l’ho fatto). Se qualcuno mi chiede una mano, non riesco a ignorarlo, anche se è un estraneo, mica perché sono bravo, no: è una semplice impostazione mentale. Ne ho passate tante e lo so come ci si sente a essere abbandonati al proprio destino. Non voglio essere proprio io quello che abbandona. È solo ultimamente che ho imparato a mettere dei paletti, come si dice, a proteggermi: forse perché con l’età, la fatica di sprecare il tempo comincio a sentirla di più che il senso di colpa di dover dire di no.
Ecco dunque che, sebbene mi ripugni la collettività, ho una buona tolleranza per gli individui che mi attraversano la vita. Io mi faccio sempre da parte, tengo aperta la porta, evito di sovrappormi, non mi è mai importato di essere il centro della scena.
Sono quello che si dice una brava persona.

Se da un lato sono sempre stato disposto a mettermi in secondo piano per evitare al mio ego di straripare, da un altro punto di vista il mio mettermi in disparte è sempre stato segno di un imbarazzante disamore per la vita. Manco di vitalità e ce ne vuole una buona dose per desiderare tanto di intervenire nel “collettivo”. Penso proprio che nel regime sovietico sarei stato mandato nei campi per scarso amore per il popolo.

Da giovane avevo un po’ di entusiasmo e quando frequentavo la mia bella e brava associazione buddista per la pace nel mondo, credevo sul serio che l’umanità potesse progredire e trovare una dimensione collettiva di pace.
Adesso, la sola idea che qualcosa del genere possa essere possibile, mi deprime.
Niente mi mette più tristezza nel pensare alla società umana come a una propaggine di un telefilm della serie Don Matteo o un’ininterrotta sequenza di giornate da oratorio.

La salvezza dell’individuo giace nella collettività, non c’è dubbio. Un uomo solo, vale nulla: ma l’individuo nel salvarsi, perde anche quel piccolo irriducibile tarlo che può a volte trasformarsi nel male, ma può anche generare un cambiamento di prospettive.
Il progresso (qualunque cosa sia, negativa o positiva) non si è svolto facendo marciare tutti in fila per tre. Sono gli individui solitari che hanno creato tutto. Gli organuli delle cellule, fanno nutrire le stesse, ma hanno origine da una specie d’infiltrazione parassitaria di un microrganismo in un altro. Allo stesso modo la società progredisce (qualunque cosa voglia dire) grazie agli apparenti outsider.

Questa è certo una concezione tutt’altro che originale, lo so.

Può darsi che la collettività mi faccia schifo, semplicemente perché non sono adeguato a farvi parte. Sono come un bambino disadattato che gioca da solo in un angolo di cortile.
Detto per inciso, mi è capitato molto spesso di sentirmi così durante la mia merdosa infanzia.

E allora tutto questo peana di cazzate sulla collettività, trova la sua giustificazione.
Mi rode la mia cattiva coscienza.
Sento che non faccio, non penso e non sono quello che dovrei, come cittadino di quest’epoca.
Non sono a favore delle cose che migliorano il mondo.
A me fa cagare chi pretende di migliorare il mondo.
Non riesco proprio ad amare chi s’impegna per il sociale, chi ama i cuccioli, chi si prende cura dei bambini africani, degli handicappati, di tutta la miseria del mondo. Non riesco proprio ad amare chi ha fiducia nel progresso e nella crescita, chi ritiene la sua presenza nel mondo indispensabile. Non solo non riesco ad amarli, mi fanno paura.

La stessa cosa si applica alla politica, anche se qui l’appello alla collettività e al progresso è funzionale al mestiere del politico.  Ormai però il re è talmente nudo che gli si vedono gli organi interni, le trippe intente a digerire tutto quello che si sono mangiati delle vite della collettività.
L’uomo è assurdo sia quando commette il male, sia quando fa il bene.
Se fa il bene, l’orrore aumenta, perché in genere il bene è beata giustificazione di qualcosa che è male per qualcun altro. Si edificano chiese sopra i cimiteri, banche sopra il sangue nei campi, progresso sopra il cervello delle persone, si fa la beneficienza a chi, in fondo, si considera inferiore. Il sommo bene tende a escludere dall’amore universale chi ne fa vedere i difetti. Chi vede le crepe nel meraviglioso edificio collettivo una volta era messo a morte, oggi è semplicemente ignorato. Tutto deve procedere bene, in nome della collettività: per le lamentele ci sono i talk show.

È per questo motivo che in quest’epoca meravigliosa i film e i libri devono preferibilmente avere un bel finale. È l’ideologia cristiana, dopotutto, dalla quale deriva anche il senso di progresso dell’ideologia comunista. Cattolicesimo, protestantesimo, marxismo e capitalismo hanno eretto i loro altari all’happy end.
Solo che chi come me ha quel tarlo, l’happy end, lo teme.

A che serve sproloquiare così, dicono i bene pensanti.  
Cerca piuttosto di fare qualcosa di costruttivo per chi verrà dopo, i posteri.
I posteri, queste luride merde. C’è qualcosa di più infido dei posteri?
I posteri non possono fare mai altro che tradirti.
Io sono un postero del Manzoni e lo schifo. Sono un postero di tutte le ideologie e le temo. Sono un postero del postmoderno e mi sento svenire al pensiero.
Dei posteri non è mai fregato niente a nessuno. I posteri se ne fregheranno completamente di noi, avranno cose molto più importanti da fare.

Ripenso ai temi che scrivevo al liceo. Non li ricordo. Però ero bravo. Avevo le idee chiare.
C’era tanto da capire, allora. Perché non sapevo ancora un cazzo. Ora che so tante cose, non riesco più a capire niente.
Ho perso il centro e il baricentro. Barcollo.
Mi riprendo e vado avanti, senza fermarmi, come tutti.
Voglio semplicemente adempiere la mia missione: vivere bene ed essere felice, senza dispiacere troppo agli dei.