Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

lunedì 27 aprile 2015

Scriabin o il colore dell'estasi



http://www.youtube.com/watch?v=h1l_UEPJi2M

Nel link, la Sonata N. 10,detta degli "insetti".

Esattamente cento anni fa, il 27 aprile 1915, a causa di una setticemia sviluppatasi da un foruncolo infetto sotto i baffi, moriva a 43 anni Aleksandr Scriabin. Figura di musicista eclettica ed eccentrica quanto altri mai, Scriabin è uno dei pochi artisti che può a rigore definirsi genio, in quanto creatore di un linguaggio proprio, originale e insieme universale.

Nasce imitando Chopin (addirittura migliorandolo, cosa incredibile) e finisce per essere totalmente se stesso, creatore di un linguaggio unico, precursore di tutti gli sperimentalismi del Novecento. Parte dal simbolismo russo, per approdare alla fantascienza. Scriabin parte dal tardo romanticismo per arrivare a una concezione dell’arte completamente multimediale. È sua l’idea della tastiera che proiettava colori. La sua concezione musicale era sinestetica, a ogni nota corrispondeva un colore.

La sua ultima opera Mysterium, incompiuta, doveva essere eseguita ai piedi dell’Himalaya, per giorni e giorni, da un’orchestra di migliaia di elementi. Scriabin riteneva che questa esecuzione avrebbe creato vibrazioni che avrebbero fatto sprofondare il vecchio mondo, facendo affiorare al suo posto uno nuovo, nel quale l’umano e il divino sarebbero stati inscindibili.

Scriabin era evidentemente un pazzoide, quasi alcolista, dedito allo studio della teosofia, quella strana mistica infarcita di stronzate spiritiste e ricerca degli ultramondi, in voga tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento.

Nato il giorno di Natale del 1871 (il 6 gennaio del 1872 secondo il nuovo calendario) riteneva questo essere di buon auspicio: si considerava (ed era considerato dai suoi, non pochi all’epoca, “discepoli”), un emissario cristico della Nuova Arte. Curiosamente, morì il 14 aprile del 1915 (27 aprile del nuovo calendario), giorno di Pasqua.

Può a ben diritto essere considerato, in senso romantico un Uomo del Destino.

Fu l’autore di incredibili speculazioni armoniche. Le sue composizioni, infatti, erano basate su cellule armoniche più che su cellule tematiche: fu un precursore in tutto e per tutto.

Il fatto è che, dietro le fumisterie pseudo religiose, Scriabin celava uno spirito di ricerca inesauribile, una devozione assoluta alla missione dell’artista.

Scriabin credeva nell’uomo, insomma. Credeva che nella propria interiorità l’uomo celasse le leggi da seguire per approdare sulle sponde della Felicità.

Fu impressionista oltre Debussy, espressionista oltre Schönberg, fu totalmente se stesso, senza condizionamenti e compromessi e per questo fu, dopo la morte, abbastanza trascurato. La cultura sovietica non poteva tollerare deviazioni mistiche: nonostante questo, le sue sonate per pianoforte e i suoi preludi divennero il cavallo di battaglia per pianisti come Horowitz e Richter.

I suoi due grandi poemi sinfonici, il Poema dell’Estasi e il Poema del Fuoco, sono capolavori assoluti del Novecento. Il primo di essi, risente ancora della smisurata influenza che ebbe il Tristano e Isotta di Wagner sulla musica di fino ottocento e novecento, seppur trattata con mezzi espressivi originali. Il secondo detto anche Prometeo è lo sviluppo completo del suo sistema, basato su una scala musicale di sua invenzione (Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si♭), in cui ogni nota, naturalmente, esprimeva un preciso grado di spiritualità.

Tutta la musica di Scriabin, dalle sue produzioni giovanili simil chopiniane e tonali, alle impervie composizioni mature, è pervasa da una strana, penetrante, dolciastra sensualità.

È musica che rapisce, che può fare male. È musica (specialmente dalla Sesta sonata in poi) da pazzi. Un’anima assorbita da se stessa che cerca di esternare i moti interiori rendendoli come zaffate di pennello su una tela. Smarrita ogni coordinata tonale (apparentemente) è musica ondivaga, allucinata. È comprensibile che possa non piacere, questa musica che era, paradossalmente, una ricerca incessante del piacere.

Scriabin era un intossicato, un genio malato, allucinato, uno che apparentemente aveva perso la bussola. In realtà la sua bussola orientava verso altri piani di coscienza, nella regione inaccessibile ai più, chiamata Estasi.

Lasciò, oltre alla sua musica, alcune pagine di meditazioni filosofiche, estremamente interessanti. In esse si scorge una mente speculativa molto meno presa da fumi teologici di quel che sembra. Segno che il genio è sempre libero, in fondo, da condizionamenti.

Scriabin auspicava l’unione completa tra arte e filosofia. In lui si trovano echi di Nietzsche, di Schopenhauer ma trattati con il respiro del dilettante di genio.

 Ecco alcuni versi di Scriabin che riassumono in parte la sua ricerca estetica, artistica e filosofica.

 
“Io sono la libertà, sono la vita, sono un sogno, sono fatica, sono desiderio ardente, incessante, sono beatitudine, sono insana passione, sono niente, sono tremito.

Sono gioco, sono libertà, sono vita, sono sogno, sono fatica, sono sentimento.

Sono il mondo. Sono insana passione, sono fuga frenetica, sono desiderio, sono luce. Sonoascesa creativa che accarezza teneramente, che cattura, che brucia, distruggendo.

Resuscitando io sono torrenti furiosi di sentimenti sconosciuti, sono il confine, sono la sommità,sono niente.

Voi, abissi del passato nati dai raggi dei miei ricordi, e voi, vette del futuro e creazioni dei miei sogni! Voi non siete voi.

Io sono Dio!

Sono niente, sono gioco, sono libertà, sono vita.

Io sono il confine, sono la vetta.

Io sono Dio!

Io sono la fioritura, sono la beatitudine, sono la passione che tutto consuma, che tutto pervade.

Sono il fuoco che avvolge l'universo e lo riduce al caos.

Sono il gioco cieco delle forze scatenate.

Sono creazione dormiente. Intelletto a riposo.”

La cosa più bella e sconvolgente di questo universo è che possano esistere, nella stessa dimensione spazio temporale di una piccola vita umana, persone come Scriabin, il mistico e Schubert, il piccolo viandante: figure assolutamente antitetiche e entrambe umanamente divine.  

mercoledì 22 aprile 2015

La Montagna Incantata di Thomas Mann



 
Prendete una quantità di personaggi da non avere nulla da invidiare a Guerra e Pace, inseriteli in un contesto marginale di un’epoca di grandi rivolgimenti come quella che va dai primi anni del novecento allo scoppio della prima guerra mondiale; fate incontrare, innamorare, litigare, duellare, ridere, morire e piangere i suddetti personaggi; aggiungete a questo punto una riflessione pressoché ininterrotta sul tempo, la morte e la valenza malattia – vita ed eccovi La Montagna Incantata.

Thomas Mann è uno scrittore che, dietro la sua seriosa carica borghese, ama scherzare in modo leggero e contemporaneamente pilotare il lettore sul bordo dell’abisso, come un compagno di scuola dispettoso che con un ghigno fa finta di spingerti giù dalla finestra. Solo che Mann va fino in fondo: spinge veramente giù il lettore che desidera lasciarsi andare, dentro un precipizio inesorabile.

Questo lunghissimo romanzo è la descrizione dell’opera disgregatrice del tempo e la ricerca di ciò che può salvarci.

La storia di Hans Castorp, giovanotto ingenuo ma non privo di mezzi intellettuali, è nota.

Arrivato al sanatorio di Davos, in Svizzera, con il semplice obiettivo di far visita per qualche settimana al cugino Joachim, militare la cui carriera è stata interrotta dalla tisi, Castorp finisce per risiedervi sette lunghi anni, soggiogato dall’incanto del posto, dalla magia della possibilità di una sospensione totale dal tempo, scandito solo dai ritmi regolari del sanatorio.

Detta così, sembra solo la storia di una fuga dalla realtà da parte di un ometto sbiadito che non ha il coraggio di vivere. Nulla però sembra brulicare di vita e stimoli di ogni tipo, come quel ricovero di malati destinati a rimanervi spesso tutta la vita e a morirvi, o a non potere tornare in pianura, pena il riacutizzarsi del bacillo.

Questo limbo a duemila metri di altezza diventa, nel libro, la culla di ogni forma di pensiero occidentale.

Castorp vi perseguirà la saggezza, stimolato dall’incontro con personaggi memorabili, come Naphta, Settembrini, Mynheer Peeperkorn, Madame Chauchat, Bahrens il direttore e tanti altri.

Il tema trattato, con mezzi totalmente differenti, è quello del Deserto dei Tartari, cioè il rapporto dell’uomo con il tempo: ma mentre il capolavoro di Buzzati è spoglio e aspro e desolato, il capolavoro di Mann è rigoglioso, pieno di efflorescenze, un rigoglio che ricorda il proliferare delle muffe su un cadavere.

Ci vorrebbero diversi post solo per riassumere la storia narrata. La parabola di Castorp è un esempio, sui generis, del romanzo di formazione.

Mann utilizza i personaggi di Settembrini e Naphta per esporre tutte le ideologie contrapposte del secolo. Il razionale e liberale Settembrini con il suo ripetuto motto placet experiri, incarna l’ideale del progresso borghese, che non deve mai retrocedere dal far uso della ragione e della nobiltà d’animo per migliorare l’uomo.

Naphta invece incarna il lato oscuro di ogni ideologia. È un gesuita disilluso, che sa che le masse non possono mai emanciparsi da sole, che non crede nell’individuo, ma solo nelle strategie che spiriti superiori devono apporre per guidare l’umanità abietta e smarrita.

Entrambi i personaggi si contendono a colpi di discorsi interminabili, dialoghi fulminanti, esplorazioni vertiginose, l’animo del giovanotto.

Se ci si prendesse la briga di rileggere lo scontro verbale tra i due, protratto per pagine e pagine, si avrebbe un compendio della storia delle idee borghesi dall’Illuminismo in poi.

Mann riesce a farci entrare tutto. Ogni idea concepibile è elaborata e distrutta al fuoco dello scontro ideologico tra progresso borghese e disfatta dell’individuo.

Castorp si barcamena tra i due mentori, da cui viene affascinato in egual modo, ma (e qui la malizia di Mann sfrutta tutti i registri dell’ironia) trova sempre il modo di elaborare una sua strategia vitale, sorniona e leggera. Lui si limita a placet experiri, a seguire il flusso del tempo senza fermarsi da nessuna parte. Ha oscuramente compreso che solo la malattia, con la sua inevitabile vicinanza con la morte, offre la chiave per comprendere meglio quel fenomeno incredibile che è la vita e il suo rapporto con il tempo. Solo la conoscenza del limite estremo, ci porta nel cuore pulsante della vita.

Non a caso Settembrini definisce affettuosamente Castorp “beniamino della vita”.

Nel romanzo succedono tante, tantissime cose: impossibile registrarle tutte.

Questo romanzo è un’esperienza da vivere, bisognerebbe leggerselo piano piano, gustandoselo, portandoselo dietro come un compagno di viaggio, quasi desiderando che il viaggio non finisca mai.

Così l’ho vissuto io tutte le volte (e sono molte) che l’ho riletto. È un’opera che contiene in sé qualcosa che si autorigenera ogni volta. È come se si accordasse sempre (nonostante sia ambientato in un tempo e in un conteso ormai lontanissimo) con la vita del presente e vi si sovrapponesse, illustrandola. 

È un libro che non ho mai potuto fare a meno di amare.

Le scene memorabili sono tante. L’incontro con Madame Chauchat, indolente nobildonna russa di cui Castorp si innamora;, la contesa tra Naphta e Settembrini che sfocia in un duello alla pistola nel quale l’oscuro Naphta, piuttosto che accettare il pacifismo di Settembrini, si uccide; la morte del cugino Joachim preceduta da una breve agonia, la cui accettazione del proprio destino commuove Castorp; la sessione periodica di visite, nella quale, nonostante l’evidente miglioramento della salute, Castorp si rifiuta di lasciare il sanatorio; La descrizione della vita nel sanatorio con i suoi pranzi e le sue cene sovrabbondanti, la strana gioia mista a sensualità che investe tutti i dimoranti, le feste in cui tutti si scatenano come pazzi, come se non fossero malati; il ritorno, a tre quarti del romanzo, di Madame Chauchat insieme a Mynheer Peeperkorn, un personaggio dalla vitalità smisurata del quale prima Castorp è geloso, ma di cui poi subisce il fascino.

Insomma, questo è uno di quei romanzi – mondo, come vengono definiti da certa critica i mallopponi che cercando di farci entrare tutto, in genere soffocano i lettori.

Qui però Mann costruisce un mondo in cui vorresti perdertici dentro.

Il fulcro dell’opera, secondo me, è il capitolo NEVE, situato poco dopo la metà del romanzo. È il capitolo nel quale il pensiero di Mann viene allo scoperto in tutta la sua ambiguità irrisolta.

Hans Castorp, da quel baldo giovanotto che è, decide di fare un’escursione sugli sci, sulle piste innevate intorno al sanatorio. In quei tempi non esistevano impianti di risalita, skipass e cose del genere. Sci in spalla, si cercava un posto adatto e ci si buttava.

Colto da una violenta quanto brevissima bufera, Castorp si perde in mezzo alla neve e ai boschi. Intorno a lui l’ombra delle montagne aumenta. È pomeriggio inoltrato e se non riesce a tornare prima che faccia buio, la sua situazione diventa pericolosa.

La tempesta si placa e lui trova rifugio dietro un capanno chiuso, nel quale non può entrare, ma che lo ripara dal vento. In preda alla stanchezza si assopisce, in piedi, sugli sci, appoggiato al muro del capanno.

Un sonno profondo lo avvolge e si ritrova a sognare. È un sogno vivido, come fosse la realtà. È su una bellissima spiaggia di sabbia bianca, evidentemente è una delle isole greche. Intorno a lui bellissime giovinette e bellissimi giovani, conversano, giocano, si amano. È un quadro di pace e serenità senza uguali. Tutto è perfetto, la luce meravigliosa del sole illumina un momento di eternità. È un momento assoluto, di felicità completa.

Hans cammina su quella spiaggia meravigliosa e si dirige verso un tempio lontano, mentre le ombre della sera calano. All’interno del tempio ci sono delle donne.

Castorp si avvicina in preda a una strana inquietudine. Capisce che sta per assistere a qualcosa che è l’origine della pace meravigliosa che ha visto su quella spiaggia.

Le donne si girano verso di lui e sono vecchie, rugose, con i seni grinzosi e penduli, delle orribili megere. Le vecchie sono intente a divorare, contendendoselo a morsi, il cadavere di un bambino.

Castorp intuisce con raccapriccio che qualsiasi promessa di armonia, nasconde dietro sé, nel profondo, sepolta in modo che nessuno possa vedere, un atto di violenza terribile.

In preda all’angoscia, Hans si risveglia di colpo e si ritrova appoggiato al capanno, in mezzo alla neve. Il sogno sembra essere lungo ore e ore, mentre invece il suo assopimento è durato solo qualche minuto.

La giornata non è ancora finita, il cielo si è rasserenato e lui si accorge di essere vicinissimo al sanatorio, in salvo. Ha visto la chiave di tutto, l’unicità di vita e morte incatenati in un abbraccio senza fine e se n’è tirato indietro.

Lo sapevo che era un sogno.” “Quanto aveva sognato stava impallidendo. Quanto aveva pensato, già quella sera non gli appariva del tutto chiaro”.

Riflettendo sul sogno così inquietante Castorp (e Mann insieme a lui) arriva a una conclusione, insieme accorata e non del tutto sentita: Per riguardo alla bontà ed all'amore l'uomo non deve concedere alla morte la signoria sui propri pensieri.

Questa frase non è del tutto sincera e Mann, probabilmente, lo sapeva: ma non poteva fare a meno di arrivare a quella conclusione. Tutta l’opera di Mann (ma anche la sua stessa vita, la difficoltà di trascendere i propri impulsi omosessuali, i lunghi periodi di depressione, il suicidio del figlio Klaus) è stata tutta un confronto con la morte e il suo rapporto con la vita. Mann fuggiva, con tenacia, ma senza distanziare mai la grande avversaria dietro di sé.

Questo sterminato, bellissimo, esperienziale romanzo, si chiude con l’ingresso del mondo nella carneficina del 1914. La cultura europea arriva alla fine. Il demone della morte ha vinto, almeno apparentemente. Castorp è richiamato alle armi, dovrà abbandonare Davos per affrontare una prova dalla quale probabilmente non uscirà vivo.

Mann termina il romanzo in modo ambivalente, come tutta la sua opera in fondo, sempre in bilico tra Morte e Amore:

“Avventure della carne e dello spirito che hanno potenziato la tua semplicità, ti hanno permesso di superare nello spirito ciò che difficilmente potrai sopravvivere nella carne. Ci sono stati momenti in cui nei sogni che governavi sorse per te, dalla morte e dalla lussuria del corpo, un sogno d'amore. Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia tutt'intorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l'amore?".

Dopo cento anni, ancora stiamo aspettando il sorgere dell'amore.
Mann incarna alla perfezione gli abissi e le luminosità della grande borghesia europea al tramonto. Un tramonto di cui noi, oggi, viviamo la notte, circondati come siamo, da morti viventi sotto forma di zombi – consumatori.

venerdì 10 aprile 2015

Kim Ki Duk o i gioielli della pietà



La noia di avere un’identità. La noia della circolarità del tempo. Il tempo non è così circolare come ci vogliono fare credere i fautori delle filosofie new age. Il fatto che le particelle quantistiche e il gatto di Schrodinger e bla bla bla, nella nostra povera piccola vita non cambia nulla. Il tempo procede in avanti verso la dissoluzione di tutto e basta.

Le temp detrouit tous, dice Gaspar Noe nel film Irréversible.

Per qualcuno che abita su Andromeda, noi non siamo ancora nati. Il pianeta Terra è quello di due milioni di anni fa: nello stesso tempo siamo vivi qui e ora. L’universo è un gigantesco aldilà della morte in differita parziale per tutti gli esseri e gli enti che vi abitano, ma questo non cambia proprio nulla per noi. Nulla di nulla. Dobbiamo passarci in mezzo a questo nulla. Tutto il dolore sarà percepito senza sconti. Tutta la cosiddetta felicità ci farà palpitare e volerà via per non tornare. Siamo prigionieri in una trappola.

È curioso come oggi ci sia solo il cinema che possa esprimere certe cose. La cosiddetta letteratura è troppo schiava di vecchie ideuzze e schifezze consortili varie.

Il cinema, certo cinema, ha molto più coraggio e arriva prima.

Il cinema è il grande romanzo del XXI secolo che nessuno può scrivere, perché tutto è diventato finzione.

Ho fatto una scorpacciata di film di Kim Ki Duk, ultimamente. Ho visto Time, Soffio, Primavera estate autunno inverno … e ancora primavera, Bad Guy, Pietà, Ferro 3 …

Mi sono incantato di fronte alla poesia di questo regista sud coreano.

Mi incanta soprattutto la possibilità che hanno gli orientali di toccare le corde del melodramma senza rendersi ridicoli. Noi occidentali, (specialmente italiani) non possiamo permettercelo. Forse l’esotismo rende più indulgenti nel giudizio.

In ogni caso ho trovato questi film dei piccoli gioielli fatti di poesia delicata, mista a violenza inumana. Kim Ki duk tocca tutte corde del suo strumento filmico. Gioca con le distorsioni temporali, gli scambi di identità, la filosofia buddista, il sesso, l’amore, l’arte e confonde le carte.

Vorrei tanto scriverne più diffusamente, ma me ne mancano tempo e forze. Ho troppa carne al fuoco, come si dice. So solo che la visione di ognuno di questi film, anche il meno riuscito, mi tocca profondamente, a riprova che dove c’è la cosiddetta “anima” qualsiasi fallacia logica o povertà di dialogo o situazione inverosimile può essere accettata senza storcimenti di naso. I critici, come solito, vadano a farsi fottere.

Dietro le apparenti semplicità e le simmetrie del sentimento, il regista sud coreano mostra una grande pietà per i propri personaggi e dalla pietà scaturisce la visione.

È un cinema fatto di silenzi, di personaggi inamovibili nelle loro passioni, di grandissima delicatezza. In Bad Guy, il pappone dal cuore buono non dice una parola in tutto il film, ma il suo sguardo carico d’amore dipinge il male e il dolore delle stesse pagliuzze d’oro che ornano i templi buddisti. Il male rimane male, ma si trasfigura.  La ragazza decide di prostituirsi per amore suo, con la naturalezza delle cose ovvie. L’amore è condividere una sigaretta e l’abitacolo di un camion, ma è qualcosa di grande come il mondo.

In Soffio la donna tradita dal marito decide senza nessuna ragione apparente di dedicare la propria vita ad alleviare le sofferenze di un condannato a morte, regalandogli amore e attenzione, quell’amore e attenzione che il marito le nega. Alla fine il marito stesso si rende “complice” di questa strana generosità. La pietà, la delicatezza sono fari che illuminano la desolata pianura di un mondo spietato e disumano.

In Primavera estate autunno inverno … e ancora primavera, la risposta è che il male è ciclico ma che l’attenzione e l’amore sono ogni volta una riscoperta.

In Ferro 3 la parabola del mondo fluttuante, immagine tipica del buddismo, è portata al massimo grado. Il protagonista (anche questa volta silenzioso dall’inizio alla fine) vive leggero come una nuvola, sfruttando gli appartamenti lasciati vuoti dagli abitanti partiti per ferie, in cui vive una vita in prestito e che poi lascia intonsi e addirittura riparando orologi o bilance o suppellettili rotti. Attenzione e cura e leggerezza, dentro al dolore del mondo.

Il protagonista di Ferro 3 sviluppa la sua abilità a un tale livello che riesce a diventare invisibile al marito della sua amata, riuscendo a vivere con lei una dimensione d’amore perfetta, la dimensione del sogno, appunto.

In Time, il film più dialogato di Kim Ki Duk, la donna vuole una nuova identità per essere sicura che l’amato non si stanchi mai di lei, portando la vicenda fino alla tragedia finale.

Il tempo che cambia tutto, “il tempo che distrugge ogni cosa”, può essere affrontato solo accettandolo. La sfrenata corsa dell’uomo che vuole vincere il tempo, così tipica della nostra epoca, lascia gli individui soli e infranti, senza più nessuna possibilità di amore.

In Pietà l’anima intrisa di male del protagonista (ma più che male, direi un vuoto in cui  solo l’essenziale del debito da saldare rimane l’unico aspetto vitale) viene scaldata dal ritrovamento della “madre”. Il meccanismo della vendetta si rivela speculare a quello della compassione. Anche in questo caso un curioso miscuglio di insegnamenti buddisti e pietà cristiana costituiscono l’humus della vicenda.

Kim Ki Duk mi viene da considerarlo un regista buddista, profondamente intriso di buddismo. Nello stesso tempo opera un mescolamento di registri tra il surreale e l’ultraviolento alla Takeshi Kitano. Ha la marcia in più della profonda poesia.

Quest’uomo sembra conoscere gli uomini e averne la giusta considerazione, cioè la pietà.