Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

lunedì 20 ottobre 2014

Il Giovane favoloso



Il giovane favoloso è un bel film. Non è un film perfetto, ma la bellezza non sempre coincide con la perfezione. Di Martone mi era piaciuto molto anche Morte di un matematico napoletano. Non ho visto Noi credevamo, per il semplice motivo che non sono attratto dalle vicende risorgimentali, ma il minimo che si possa dire di Martone è che è un regista onesto, preciso e robusto.

Fare un film niente meno che sulla vita di Leopardi è un’impresa rischiosissima, vuoi per la fama del recanatese, vuoi per gli infiniti pregiudizi ormai inestricabili da tanta figura storica, vuoi perché l’agiografia, il sentimentalismo o il patetismo sono sempre in agguato.

Invece Martone è riuscito a fare un film sanguigno, materico, splendidamente moderno, sulla figura più splendidamente moderna della nostra a tratti risibile storia culturale.

Elio Germano ha incarnato in modo struggente la corporeità sognante di Giacomo: questo giovane sofferente, lucidissimo, disperato e così bruciante di desiderio. Si potevano quasi sentire gli odori del bosco, lo stallatico delle vecchie piazze: passeggiavamo anche noi assieme a Leopardi per il natio borgo selvaggio al crepuscolo, in attesa di un buio totale, colmo di stelle, non ancora offeso dalla luce elettrica. Respiravano a fatica con lui. Bravissimo Elio Germano.

La natura possente, la meschina società degli uomini, i favolosi spasimi dell’amore, subito ricacciati nel dolore di non essere corrisposti, la schifosa deformità, la malattia: tutto riprende la camera di Martone, senza inutili preziosismi, senza esagerazioni, senza omissioni. Onestà e pulizia, sobrietà e nobiltà, totale oblio di sé nella materia della natura e dei corpi: l’impresa, a mio parere è riuscita. Regia e cast sono impeccabili.

Martone è riuscito a rendere, quasi magicamente, lo spirito anti romantico di Leopardi, saldamente ancorato alla ragione, al materialismo illuminista. Per questo non guastano, anche se sono un po’spiazzanti (il rischio di arruffianarsi i "contemporanei" è sempre dietro l'angolo), gli inserti di musica elettronica e la voce che canta in inglese,alternati un meraviglioso Rossini.

Leopardi era un uomo che trascendeva il suo tempo. Tutto aveva visto, tutto aveva sentito, questo ragazzo, tutto aveva compreso di sé e dei suoi simili, della natura e dell’arte, della posizione ridicola dell'uomo nell'universo.

I dialoghi del film sono tutti basati su scritti di Leopardi e dei contemporanei. Nella realtà non sono avvenuti se non per lettera, ma l’invenzione cinematografica, d’altronde necessaria, rende scorrevole il tutto. Ogni frase pronunciata proviene da leopardi, dal suo pensiero, dalle sue emozioni.

Non trovo utile soffermarmi sugli eterni vizi degli italiani: la pigrizia, il conformismo, il bigottismo, sono gli stessi dei tempi di Giacomo, tuttalpiù coadiuvati da qualche tecnologia. Oggi i “pulcinelli” e i “baroni fottuti”, viaggiano in auto e diteggiano sugli smartphone, ma sono gli stessi, che, cialtroni e puzzolenti, molestavano il giovane per le strade di Napoli.  Oggi gli addetti alla cultura fanno i promoter, come allora, di chi possa raccontare ancora belle favole non troppo crudeli e possibilmente con un bel finale.

Oggi, come allora, rane granchi e topi schiamazzano e farneticano di “progresso”, “ripresa dei consumi”, “diritto al lavoro”, “modelli sostenibili”: il tutto, in mezzo allo sfascio che avanza. Il giovane Giacomo ne sarebbe atterrito e divertito fino alle lacrime.

 Il film ritrae molto bene la diversità di Leopardi: diverso nel corpo, diverso nell’anima. La sofferenza gli ha permesso di vedere il volto spaventoso (orrendo e favoloso a un tempo) del reale. L’isolamento culturale in cui egli ha vissuto, è tipico, ancora adesso, in Italia, nei confronti di chi ha qualcosa di veramente nuovo da dire.

Qualcosa di simile (pur nella differenza totale del contesto e dei temperamenti) è quello che è accaduto a Pasolini. La sua diversità, non solo sessuale, la sua basica disperazione lucida, lo rendeva una figura magari stimatissima ma priva di seguito, un caso isolato: nessuno come lui prima, nessuno come lui dopo. In questo Leopardi e Pasolini sono simili.

Non si poteva chiedere a Martone più di quello che ha dato: uno scorcio realistico su una grande anima alla ricerca della impossibile felicità nella bella e indifferente Italia.

Martone getta luce anche sul desiderio immenso di amore e di vita del giovane favoloso. L’amicizia con Ranieri, i possibili risvolti omosessuali (ma non dimentichiamoci che il concetto di amicizia nell’ottocento era un po’ diverso da quello di “compagni di bisboccia” che c’è adesso), tutto viene esplorato con realismo e senza dargli un’enfasi non necessaria.

Leopardi, nella sua sofferente vita, ha avuto nell’amicizia quello che gli era stato negato nell’amore. E proprio a Napoli, sotto il duplice segno della natura matrigna e dell’amicizia fraterna, egli concepisce la Ginestra, il suo Manifesto programmatico, tanto citato a destra e manca, quanto poco ascoltato.

La sala dove ho visto il film era gremita di gente di ogni età.

I commenti, all’uscita erano i soliti: “è un po’ lento”, poveretto”, però l’attore è bravo”, sì, però lui era troppo disperato”, “bello, ma la filosofia è un po’ troppo negativa”.

Insomma il destino di Leopardi continua anche adesso: la gente ne è attratta e respinta allo stesso tempo, oggi come nel 1830.  È come se si avesse oscuramente bisogno di Giacomo, il fratello saggio e sofferente, perché ci dica qualcosa che non vogliamo ascoltare, che non ascolteremo, ma che sappiamo ci farà bene: l’amara medicina del vero, la possibilità spaventosa, finalmente, di essere liberi sotto il cielo.

lunedì 13 ottobre 2014

L'ultimo messia di P. W. Zapffe




Questo saggio è disponibile in rete soltanto in un farraginoso e antiquato inglese (tradotto a sua volta non si sa quanto bene dal norvegese). Da qui, oltre che da una mia certa imperizia, nasce la poca scorrevolezza di alcuni periodi. Credo però che il senso generale si comprenda benissimo e trovo questo testo del 1933 straordinariamente attuale. Peter Wessel Zapffe, filosofo norvegese, scalatore, non è l'ultimo di una serie di “pensatori” che hanno avuto il coraggio o la mancanza di capacità auto illusorie, di scartare ogni facile soluzione, in un secolo come il XX che di facili e mortali soluzioni ne trovò tante, troppe. Non voglio parteggiare per una certa corrente filosofica “pessimista”, in quanto credo che “pessimismo” sia un termine abusato e fuorviante. Si tratta più che altro di realismo. Il realismo sta conoscendo una costante ma inarrestabile rinascita dopo essere stato soffocato da secoli di idealismo e soluzioni salvifiche marxiste, cattoliche e quant’altro. Pur non condividendo in toto la visione nichilista di Zapffe (se c'è una cosa che non ha bisogno di motivazioni è proprio la vita, secondo me), c'è qualcosa di stranamente consolante in queste pagine. Allegria di naugragi, come si dice.
Cos’è la realtà fuori dall’oggetto, fuori dalla condanna del kantismo dell’inaccessibilità del noumeno? Cosa ci spinge, cosa ci parla dentro? Da cosa scappiamo?

Cercare il reale credo sia il primo passo verso la maturità individuale, come pure di specie. E Dio solo sa (se esiste, naturalmente) quanto bisogno abbia l’uomo di diventare finalmente maturo. E Dio solo sa quanto siamo ancora lontani dall’esserlo. Giochiamo con le leve del mondo e ci pasticciamo dentro e l’immenso meccanismo ci si sta rivolgendo contro. È sotto gli occhi di tutti, ormai.

 L’ultimo Messia

Peter Wessel Zapffe

 I.

Una notte di un tempo remotissimo, un uomo si svegliò e vide se stesso. Vide che era nudo nell’immensità, senza patria nel suo stesso corpo. Tutte le cose si dissolvevano nel suo pensiero: meraviglia dopo meraviglia, orrore dopo orrore, tutto si svelava alla sua mente.

Anche la donna si svegliò e disse che era tempo di uccidere. Ed egli prese il suo arco e la freccia, frutto del connubio di spirito e mano e uscì sotto le stelle.

Mentre le bestie arrivavano presso la pozza d’acqua dove era solito aspettarle, egli non sentì più il balzo della tigre nel suo sangue, ma un grande salmo di fratellanza nel dolore tra tutti i viventi.

Quel giorno non fece ritorno con la preda e quando lo ritrovarono, la luna seguente, era seduto, morto, presso la pozza d’acqua.
II.

 Cos’era successo? Una breccia nella profonda unità della vita, un paradosso biologico, un abominio, un’esagerazione di portata disastrosa. La vita aveva superato il suo obiettivo, staccandosi via dal resto.

Una specie troppo pesantemente armata di uno spirito possente, era divenuta una minaccia per la propria salvezza. La sua arma era una spada senza elsa, una lama a doppio taglio che scinde ogni cosa: colui che la brandisce deve afferrare la spada e rivolgere il suo taglio contro di sé.

 Nonostante i suoi nuovi occhi, l’uomo era ancora radicato nella materia, la sua anima imbastita di essa e subordinata alle sue cieche leggi. Eppure egli poteva vedere la materia come estranea, comparare se stesso a tutti i fenomeni e sentire i propri processi vitali.

Egli torna alla natura come un ospite non invitato, invano stendendo le mani per implorare una riconciliazione con la propria fattrice: la natura non risponde più. Essa ha realizzato un miracolo con l’uomo ma non lo riconosce più. Egli ha perso diritto di residenza nell’universo, ha mangiato il frutto dell’Albero della Conoscenza ed è stato espulso dal Paradiso. Egli ha potere sul mondo ma lo maledice, avendolo preso in cambio dell’armonia della propria anima, della propria innocenza, dell’intima pace nelle braccia della vita.

 Così l’uomo rimane con le sue visioni, tradito dall’universo, tra stupore e paura.
Anche le bestie conoscono la paura, nelle tempeste, nelle zanne del leone.
Ma l’uomo conosce la paura della vita stessa, perfino del suo stesso essere.
La vita è per la bestia potenza, calore e gioco e lotta e rabbia e piegare il capo sotto la legge del più forte. Nelle bestie la paura è limitata al presente, nell’uomo diventa paura del mondo e disperazione.
Non appena il bambino compare sul fiume della vita, il ruggito della cascata della morte sale alto nella valle, sempre più vicino, a strappargli ogni gioia.
L’uomo appartiene alla terra, la quale respira come un grande polmone. Ogni volta che espira, la vita sgorga da tutti i suoi pori e si slancia verso il sole. Quando inspira, invece, un lamento di dissoluzione passa tra le moltitudini, e i corpi cadono a terra come grandine.
Non solo il proprio destino l’uomo vede: i cimiteri si spalancano sotto il suo sguardo, le lamentazioni dei dissolti millenni salgono verso di lui da quelle orribili forme decomposte, i sogni delle madri tornati polvere.
La cortina del futuro si solleva per rivelare un incubo di ripetizioni infinite, l’insensata dissipazione di materiale organico. La sofferenza di miliardi di umani fa il suo ingresso dentro di lui attraverso la porta della compassione; da tutto ciò che vede, sorge una risata che si burla di ogni richiesta di giustizia, di ogni principio ordinatore. Vede se stesso uscire dal grembo della madre, tende la sua mano nell’aria ed essa ha cinque diramazioni.
Da dove viene questo diabolico numero cinque e che cosa ha a che fare con la mia anima?
Egli non è più ovvio per se stesso. Tocca il proprio corpo con assoluto orrore: questo sei tu e fin qui puoi estenderti e non oltre.
Porto del cibo con me che ieri era un animale che poteva ancora correre per conto suo.
Lo mastico e diventa parte di me: allora, dove finisco io e dove inizio?
Tutte le cose sono incatenate insieme in cause ed effetti e tutto ciò che cerca di afferrare si dissolve prima che il pensiero lo comprenda. Presto comincia a scorgere le meccaniche anche nel suo ambiente, nel sorriso della sua amata. Alla fine, le caratteristiche di ogni cosa sono le sue. Niente esiste senza di lui, tutte linee convergono verso di lui, il mondo non è altro che uno spettrale eco della sua voce. Salta in piedi urlando a squarciagola, vorrebbe vomitare se stesso sulla terra insieme al suo impuro pasto; sente incombere la pazzia e vorrebbe darsi la morte prima di perderne la capacità.
Ma mentre soppesa l’imminente morte, ne afferra anche la natura e le cosmiche implicazioni. La sua immaginazione creativa costruisce nuove spaventose prospettive dietro la cortina della morte e vede che anche lì non c’è salvezza.
Adesso può discernere i contorni dei propri termini biologico - cosmici: egli è il prigioniero senza speranza dell’universo, destinato a prospettive ignote
Da quel momento è in uno stato di panico senza fine.