Gli
psicoanalisti, leggo, lamentano lo strapotere attuale delle terapie cognitivo
comportamentali. Lamentano, a sentir loro, non tanto il fatto che gli stanno
portando via una abbondante fetta di mercato, ma che le TCC siano il frutto di
un adattamento a un’epoca (questa) alquanto disgraziata perché vede
l’affermarsi del “discorso del capitalista” di Lacan.
Il
buon vecchio strutturalista non – strutturalista, diceva che l’attuale
evoluzione del capitalismo portava a una frattura tra desiderio e Legge -
castrazione, di modo ché, il desiderio sganciato dal controllo, avrebbe reso
gli umani ultra edonisti, favorendo l’insorgere di gravi patologie, prima tra
le quali la mancanza di necessità di identificare qualcosa come “Inconscio”.
Le
TCC, leggo, sono un tentativo di rimodellare sé stessi basato sulla realtà per
quella che è. Senza voli pindarici, senza scomodare mamma e papà, pur non
negando le nefaste influenze parentali, la TCC prova a basarsi sul qui e ora.
È
un approccio in realtà antichissimo, già il buddismo si riferiva alla totale
inutilità di capire da dove la freccia avvelenata era stata scoccata, di fronte
alla priorità di togliersela ed evitare possibilmente di morire.
Di
qui, dicono i TCC, l’inutilità del concetto di inconscio. Non che non esista
l’inconscio, ma non appare più un linguaggio che ci abita, oppure il serbatoio
delle pulsioni più atroci, cioè in sostanza qualcosa con cui i più bigotti
benpensanti erano costretti a fare i conti sotto forma di nevrosi: ormai è un misero laghetto prosciugato, nella terra dove sono curati solo i
sintomi, in modo prevalentemente farmacologico.
In
sostanza l’uomo moderno starebbe diventando senza inconscio, cioè nel suo
sottosuolo il desiderio è totalmente sganciato dal godimento. L’imperativo di
quando c’era ancora l’inconscio era “come osi voler godere?” ( di mamma, di
papà, della cameriera, del cameriere con la grossa patta, del buco del culo del
cagnolino di Madame X, ecc, ecc.).
Adesso
l’imperativo che il super Io lancia è “come osi non riuscire a godere?” (con
tutte le offerte disponibili, ecc. ecc. ecc.), cosa che diventa paralizzante da
un lato, mortifera dall’altro. Pare proprio che l’uomo per funzionare abbia bisogno
di autolimitazioni, tolte le quali solo gli egotisti totali funzionano
(Berlusconi, Renzi & co. docet), gli atri diventano obesi o depressi.
I
cosiddetti psicoanalisti, parrebbe,
vedono nella pletora di disagi specifici di quest’epoca (bulimia, anoressia,
obesità, depressione, disturbi di ansia e panico) qualcosa che ha a che fare
con l’impossibilità di aderire al festino generale. Ma questa incapacità, mi
sembra, di aderire all’istanza sociale del “festino generale” che cosa ha di
diverso dal voler fuggire dalla rigidità che opprimeva il desiderio del
“festino generale” nel periodo storico pre – spettacolare?
Solo,
credo, il segno + al posto del segno - .
Se
nell’ottocento e fino al 1950 era “di moda” l’isteria e ficcarsi candele di
varie dimensioni nella vagina, oppure il tarantismo nel meridione, oppure
sfogarsi con razzismi e sessismi vari, ora è ”di moda” baloccarsi con il reale
che non si riesce a consumare. A ogni epoca la sua nevrosi o psicosi.
Ora
abbiamo la psicosi collettiva del politicamente corretto. La cosa strana è che
i cosiddetti psicoanalisti vedono nel proliferare di nuove nevrosi il godimento
sganciato dal desiderio, senza affrontare la frustrazione che questo godimento
apparentemente accessibile a tutti, in realtà è sottoposto a tutta una serie
di limitazioni. Tutto viene codificato, classificato. Le sofferenze
delle nuove (che poi nuove non sono) nevrosi provengono dal fatto che
l’individuo è lasciato completamente solo con sé stesso, abbandonato da una
società che è solo un involucro vuoto. Non esiste più una società borghese con
la quale confrontarsi o scontrarsi.
La
psicoanalisi si sente innocente di fronte al proliferare di queste nuove follie
post e ipermoderne, come se nel passato, chissà quali passi da gigante avesse
fatto nel rendere consapevoli gli individui dell’inculata che è vivere in una
società di consumo di massa.
Freud
e Marx, uniti insieme nelle mitologie anni Sessanta, tanto amate da chi adesso
le critica, avrebbero provveduto, pensavano, a sganciare l’individuo dalla
schiavitù del consumismo. In realtà questo non è mai avvenuto perché gli psicoanalisti sono stati i primi a mettersi
come obbiettivo unico quello di “ripristinare” l’individuo e farlo funzionare
meglio in un contesto sociale che adesso, perché le TCC stanno spopolando, criticano.
Troppo facile, troppo ipocrita.
Dietro
le loro valanghe di parole trovo solo un rifiuto ad accettare l’agonia meritata
di una scuola di pensiero dai connotati
religiosi: una setta ormai condannata a minoranza. Una setta che si è
dimostrata totalmente incapace di curare veramente le sofferenze degli uomini,
perché troppo legata a mitologie ed esoterismi.
Gli
psicoanalisti fanno fatica a integrare le neuroscienze. Pensano,
romanticamente, che le neuroscienze siano limitative. Una pastiglia ti cura
solo il sintomo, dicono. Giusto, ma bisogna vedere cosa c’è veramente dietro al
sintomo. Forse non c’è la castrazione, forse c’è l’ignoranza di essere al mondo
e non sapere perché: il disagio di essere immersi nei codici linguistici che
traggono origine principalmente dai giochi di potere. Parlano di vuoto del
senso, come se prima ci fosse stato un pieno. C’era l’illusione, ai tempi di
Freud, di una società borghese che sembrava funzionare. C’era l’illusione, ai
tempi di Marcuse, di una società borghese alla quale opporsi. Ora ci sono solo
individui che brancolano nel vuoto, un vuoto che la psicoanalisi non ha fatto
nulla per arginare.
In
buona sostanza la crisi e il fallimento della psicoanalisi è responsabilità
della psicoanalisi stessa, non della società che non ha mai desiderato
veramente cambiare.
La
TCC è adatta a quest’epoca di pronto intervento.
Ora,
in quest’epoca c’è un grande vantaggio: tutte le illusioni sono cadute,
oppure sono verificabili come illusioni, se si vuole. Puoi scegliere la tua
illusione dallo scaffale che preferisci e indossarla. Solo la sofferenza è, in
un certo senso, reale: l’unica cosa reale.
Essa
trae origine dal fatto, semplicissimo, che siamo vivi come individui. I vari rimedi alla
sofferenza possono definirsi, in un certo senso, storia dell’uomo. Nelle società primitive, nelle quali l'individuo è parte integrante della collettività, il carico di angoscia è minore. Torniamo alla collettività? Non so se ci resisterei, personalmente. Sono ormai troppo corrotto dal vizio del pensiero critico, dall'individualismo. Mi farebbero fuori subito.
La
fase attuale, il vero motivo per cui le TCC incontrano il “gusto” del pubblico,
è che la nostra è un’epoca di orfani. Non ci sono più madri e padri. La nostra
società non si può definire veramente maschilista, né ancora peggio
patriarcale. È una società bisessuale, anzi, asessuale, nonostante tutta
l’enfasi sul sesso praticato e consumato.
Gli
orfani provano a cavarsela come possono, si sa. Se resistono, in genere, scoprono nuovi orizzonti. Buddha, Rousseau, erano orfani precoci.
Quella attuale è
una società dominata da forze imperscrutabili, con cui è impossibile
identificarsi e che è altrettanto impossibile combattere. Le multinazionali? La
pubblicità?
Siamo
orfani della Coca Cola, anche se continuiamo a berla.
Dio
è morto nell’ottocento, nel duemila è morta la Coca Cola, anche se la vendono e
la bevono. La promessa di felicità contenuta nella pubblicità è una
dichiaratamente vuota e inutile ripetizione. Ormai non abbiamo più bisogno
nemmeno della felicità vera, ma solo di qualcuno che si suppone abbia
l’autorità di qualificarla. Abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci dica, ecco,
questa è la felicità, per poter fingere di crederci. Di questo abbiamo bisogno,
di un principio di autorità del godimento. Qualcuno che ci dica che laggiù
troveremo posti meravigliosi, svaghi, riposo. Non ci crediamo veramente, ma è
importante mantenere la finzione. È importante fare finta di credere alla Coca
Cola, ne va del nostro funzionamento. Ciò che ci fa andare avanti è unicamente
il tempo della routine, l’aspettativa che il domani sia ragionevolmente uguale
all’oggi, senza infamia e senza lode. Dobbiamo fare finta di avere dei
desideri, perché sarebbe asociale non
averli. Dobbiamo fare finta di credere, anzi, dobbiamo impersonare colui che
crede. Allora il meccanismo va avanti. Da qui nasce il planetario fenomeno
della dipendenza.
Dobbiamo
fare finta che quello che facciamo sia normale, anche la cosa più bizzarra
rientra nella normalità di chi vive la vita come si deve viverla: cioè con
ottimismo.
L’ottimismo
dell’eterno presente. Ogni deviazione dalla linea è frutto, dicono di risentimento. Può essere.
Noi,
quaggiù, viviamo già nell’eternità. Niente può più accadere, anche se poi tutto
sembra succedere. Ciò contrasta stranamente con la frenesia che sembra prendere
tutti, specialmente la mattina per le strade.
Un
vero progresso sarebbe stare fermi, immobili, tutti, magari solo per cinque
minuti: tutti, ma proprio tutti, in ogni parte del mondo. Allora qualcosa di
straordinario succederebbe: l'affiorare magico del libero arbitrio.