Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

sabato 26 gennaio 2013

Camus contro il Pensiero Unico




Se si eccettua l’inaccettabile idiozia che vorrebbe Sisifo felice, occorre rivalutare e ripensare Albert Camus, a cento anni dalla nascita. Fu forse un anarchico, in fondo, come afferma Michel Onfray, nel suo recente saggio non ancora pubblicato in Italia. Era un uomo che cercava la verità e soprattutto la vita, oltre il filtro vischioso delle ideologie.
La sua profonda onestà, la sua ricerca di una gioia di vivere all’ombra della morte, il suo esistenzialismo senza concessioni al vittimismo, il suo non consentire che si potesse uccidere in nome di un’idea, ce lo rendono caro.
Ci si chiede, e se fosse vissuto?
Se fosse morto nel 1993, o 1996, sull’ottantina (poteva benissimo succedere, nonostante la sua non eccelsa salute), avrebbe potuto attraversare le idiozie post comuniste, post moderne e post tutto. Che conclusioni ne avrebbe tratto? Del terrorismo islamico, lui algerino pied noir, cosa avrebbe scritto? Avrebbe appoggiato la Legge Mitterand, negli anni ottanta? Avrebbe giustificato le BR? Forse no. Ne L’uomo in rivolta era stato chiaro nel condannare il terrorismo.
Avrebbe ceduto alle tentazioni di diventare un filosofo alla moda, un filosofo televisivo? Avrebbe dato una amichevole pacca sulla spalla a Bernard Henry – Levy e ai nouveau philosophes o gli avrebbe smascherati per quegli ipocriti borghesi che sono? Sarebbe stato filoisraeliano o avrebbe appoggiato la causa palestinese? Si sarebbe riconciliato con Sartre? 
È triste pensare che forse neanche lui avrebbe resistito allo scempio della società dello spettacolo. Avrebbe aiutato Debord a disintossicarsi dall’alcool? Sarebbe stato anticapitalista? Mah. Si sarebbe scoperto forse ecologista, chi sa. E della globalizzazione cosa avrebbe detto? E dell’invasione delle filosofie orientali? Come si sarebbe districato nella palude del Pensiero Unico? Contro chi si sarebbe rivoltato, quando al mondo non c’è più un posto dove andare?
Un uomo della sua acutezza, avrebbe nettamente percepito che essere un intellettuale riconosciuto e stimato, dopo la fine del comunismo, significa essere complice, volente o nolente, delle nefandezze dell’esistente. Con la sua solita coerenza, si sarebbe auto esiliato nella sua tenuta di campagna, oppure sarebbe tornato in Algeria, pied noir, una volta per sempre. Avrebbe vissuto solo il natio sole africano, in mezzo agli arabi, avvicinandosi al misticismo sufi. Chi lo sa, le alternative sono tante ed è certo un po’ ozioso pensarci.
Tuttavia capire cosa ne sarebbe stato di lui, può aiutarci a capire cosa ne è stato di noi, consumatori di merce spettacolare, impoveriti e senza via d’uscita.
L’auto esilio, il non consentire, il resistere, sono le uniche possibilità rimasteci.
Camus ha tracciato la strada in un’epoca, la sua, dura, feroce, ma più comprensibile, più netta. L’uomo in rivolta del XXI secolo ha il suo bel daffare a capire anche solo contro chi rivoltarsi. Deve prima trovare se stesso. E deve farlo alla svelta, prima che tutto crolli.

giovedì 17 gennaio 2013

Nietzsche




All’ospedale di Jena mettevi
cocci di bottiglia tutto intorno al letto,
non facevi avvicinare nessuno.

Mangiavi i tuoi escrementi
come un’ostia impura, un viatico
per ritrovar pensieri ormai perduti.

Urlavi la tua maestà al creato sfidando
gli Hohenzollern assieme al gelo che entrava
dai vetri rotti della finestra del reparto.

Ti davano il cloralio
perché eri molto agitato:
smaniavi frammenti di poesie perdute,
lettere a discepoli inventati.
E come potevi stare calmo
con il cuore ricolmo di un dio?
Gridavi la gioia infinita, lo strazio dell’oblio.

L’uomo è un ponte sull’abisso:
le sue sponde, un corpo fragile

Tutto ciò che ti colpiva
inevitabile scendeva
al centro del tuo essere.
E il tuo cuore sanguinava
Sils-Maria
Sils-Maria
Pas encore

Volevi disperatamente
essere il divenire, trasmutare l’avvenire.
Sulle cime dei monti gridavi,
invocando la crudeltà del mondo,
affinché sciogliesse la tua tenerezza
Hai seppellito la malinconia
sconfitto l’ipocrisia filistea
insieme ad ogni metafisica.

L’uomo è un ponte sull’abisso:
le sue sponde, padre e madre

Danzavi la notte sul letto
con il fallo eretto
la danza di Dioniso disturbando
il reparto con il canto
dell’eterno ritorno
Per loro eri soltanto
malato di troppa solitudine,
un ex professore smarrito
ai confini dell’impero.
Sils-Maria
Sils-Maria
Pas encore

Contro il sentimento paralizzante
della dissoluzione e incompletezza
sgorgava incontenibile
la veemenza orribile della vita
che forma esseri aspiranti alla gioia,
per subito distruggerli
in un cerchio di fiamma vorticosa.
Una corrente spaventosa
ha spezzato il tuo canto.

L’uomo è un ponte sull’abisso:
le sue sponde, forza e debolezza

Solitaria scimmia umana,
legionario del pensiero,
danzante sotto i cieli
di una Grecia mentale
pervaso da musiche
non udibili da orecchio umano,
sei sfuggito per sempre
al peso che grava
su ogni stellare ritorno. 
E dopo l’ultima sfavillante giravolta,
ricadesti nelle mani delicate di mamma,
quelle mani che ogni volta
spezzavano la tua volontà di potenza,
come si spezza il pane d’abbondanza.
Infaticabile, inevitabile, fedele
L’utero che ti generò ti riaccolse:
quale ritorno custodì la tua notte.

Sempre un dio ci strazia,
che non può mai morire:
Dio del Ritorno
Dio della madre
Dio dell’oscuro antro
Dio della rinascita
Dio dell’affannosa lotta.

(settembre 2005)

martedì 15 gennaio 2013

Piccoli pensieri nazisti




Quello che voglio è l’estasi.
Quello che voglio è -  tutto.
Quello che voglio è – essere Dio e strapazzare il cosmo.
Quello che voglio è – venire in faccia alla dea Kali.
Quello che voglio è la potenza assoluta dei miei cavalli neri.
Quello che voglio è condannare ai lavori forzati tutti i possessori di tatuaggi.
Quello che voglio è sodomizzare tutte le neo mamme felici della pubblicità, sentirle implorare sì fammelo ancora e ancora.
Quello che voglio è bruciare tutte le televisioni del mondo, ridurre l’umanità alla  schiavitù del bis pensiero. Amate lo spreco? E io vi faccio sprecare! Paghi 3, compri 1, anzi, paghi 4, prendi 0! E devono essere felici, perdio, tutti felici! Totale abolizione del malumore. Allegria nei condomini pieni di spazzatura, fine dell’inutile raccolta differenziata. Abolizione della differenza tra rifiuti e produttori di rifiuti.
Prima che brucino le televisioni:
Quello che voglio è l’invasione in diretta del programma di Barbara d’Urso da parte di una banda di zingari puzzolenti e sdentati che ruberanno ogni suppellettile e pisceranno e cagheranno ovunque, compreso addosso alla malcapitata conduttrice, la quale deve essere obbligata a sorridere lo stesso, anche quando le sevizieranno in diretta il barboncino.
Quello che voglio è l’esilio perpetuo in Rwanda di Fazio e della Littizzetto. Devono vivere con la popolazione e come la popolazione. Gli deve essere impedito di far parte di qualsivoglia ONG o ONLUS caritatevole. Devono divenire essi stessi oggetto di carità.
Quello che voglio è lo smantellamento delle cosiddette nazioni. Così come siamo, feudi e pascoli sono più che sufficienti.
Quello che voglio è il cannibalismo definitivo. Il miliardo e mezzo di obesi esistenti sul pianeta venga utilizzato come cibo per il miliardo di persone denutrite. Quando il miliardo di persone denutrite diverranno obese per essersi sovralimentati con i ciccioni, si ripeta il trattamento fino alla fine del ciclo cosmico. Lungi dal farsi prendere dal falso timore di qualche violazione dei diritti umani, i fautori di tale progetto verranno insigniti del premio Nobel per la pace. Non si offendano i ciccioni. Essere mangiati non è la cosa peggiore che può capitare. Succede già a milioni di creature, compreso polli e maiali di cui vi ingozzate.
Quello che voglio è l’abolizione dei viaggi. La gente deve essere obbligata a marcire in casa. Chi vuole viaggiare deve essere disposto a donare come minimo un rene. I viaggi più lunghi avverranno a dorso di cammello o in dirigibile: i viaggi più brevi a piedi. Con l’impossibilità di muoversi facilmente, la gente sarà costretta a iniziare a pensare a cos'è veramente la propria vita, a cosa è diventata. 
Ne potrebbero nascere conseguenze curiose.
Quello che voglio è la demolizione del ridicolo culto dell’infanzia. Vaffanculo ai bambini, al cinema per bambini, ai programmi per bambini, ai giochi per bambini. Si ripristinino i cortili, dove i marmocchi si possano scannare in pace tra di loro, senza alcun intervento di qualsivoglia adulto. Potrebbero perfino divertirsi.
Quello che voglio è che una badilata di merda colpisca in faccia ogni singolo politico italiano,  ogni mattina, per dieci anni. Dovunque siano, qualunque cosa facciano. Devono trovare controproducente occuparsi della cosa pubblica.
Quello che voglio è che Jovanotti venga messo in condizione di non nuocere mai più all’ecumene con altre canzoni. Trovargli un lavoro come lavoratore dei campi a cottimo sarebbe un’opzione soddisfacente. Naturalmente deve svolgersi dall’altra parte del globo.
Quello che voglio è la soluzione definitiva del conflitto mediorientale. All’uopo occorre ricostruire l’Impero Romano.
Quello che voglio è un programma eugenetico spietato e preciso. Chiunque abbia in sé il gene della politica deve essere sterminato.
Quello che voglio è che Monti e la Fornero siano condannati a lavorare in un fast food per il resto dei loro giorni e che gli venga commutata la pensione in hamburger. E che siano obbligati a mangiarli fino alla morte. E anche un po’ dopo.
Quello che voglio è che la BCE sprofondi sotto terra. Con tutti dentro. Chi sopravvive deve essere nutrito di cartamoneta. Via flebo.
Quello che voglio è l’apertura di speciali campi di lavoro per i proprietari di SUV.
Quello che voglio è l’abolizione non del calcio, ma dei calciatori.
Ai più bravi deve essere consentito di saltellare in un cortile e avere le noccioline gratis. I soldi dei loro contratti devono essere devoluti in opere di bene come la distribuzione obbligatoria di preservativi nel Terzo Mondo.
All’uopo potrebbe essere utilizzata la Littizzetto, già esule in Rwanda. Dovrebbe insegnare l’uso comune del preservativo agli africani, con esempi pratici su come infilarne uno. Unirebbe l’utile all'inguardabile.
Quelli che non vogliono usare il preservativo devono essere subito inviati nella Santa Sede e lì obbligatoriamente ospitati, con tutta la famiglia. Naturalmente Città del Vaticano sarà preventivamente murata e isolata. L’obiettivo, ambizioso, lo riconosco, è fare implodere la Santa Sede, mentre adempie, finalmente, alla sua missione di soccorrere i più deboli.
Perché la vita, si sa, è sacra. 

martedì 8 gennaio 2013

The Master: riflessioni molto a margine



In genere, quando un film lascia perplesso, disorientato e con un certo grado di insoddisfazione il pubblico medio dei cinema, si può essere quasi sicuri che il film in questione ha qualcosa di diverso dagli altri.
Sia o meno un cosiddetto capolavoro, ci si trova di fronte a un'opera che agisce a vari livelli.
Le recensioni entusiastiche della critica e la garanzia di una interpretazione magistrale (garanzia peraltro pienamente mantenuta) hanno attirato gli spettatori a vedere The Master.
Il direttore Paul Thomas Anderson, è quello di Magnolia, il film della tipa che sniffa coca mentre canta in coro, ma in geniali scene parallele, con Jullianne Moore, Tom Cruise, Jason Robards e altri, il bel pezzo Wise Up di Aimee Mann. Quello della pioggia di rane, quello della sequenza di apertura dove si dipanano sei storie intrecciate, e quasi non si capisce un cazzo. Un film californiano, intellettuale, Magnolia: pretenzioso, eppure umano. 
Gli americani sono specialisti nello sfornare film e romanzi di questo tipo. Il vulcanismo intellettuale, che adopera emozioni mettendole in un frullatore, che accumula esperienze una accanto all'altra: una continua Commedia Umana post moderna.
Da Don de Lillo a David Foster Wallace a Jonathan Franzen, passando per Bret Easton Ellis, and so on, il cinema americano è sempre letterario. Questo stesso tipo di visione post moderna, questi enormi database emozionali, si sono riversati pari pari nelle numerose serie TV di qualità. 
Insomma, gli americani, sanno costruire situazioni umane al massimo grado possibile di complessità, provocando a comando emozioni e nello stesso tempo evocando incredibili nuovi punti di vista. Un esempio tra tutti: la serie del Dr. House.
Che c'entra, si dirà, con The Master? 
Poco, da un certo punto di vista. Molto, se si comprende l'origine di questo modo californiano di fare cinema: ritrarre la vita, in modo di creare una sorta di IperVita, dove c'è tutto e non può esserci meno che tutto. C'è talmente tutto, che a volte pare quasi di sentire la risata di sottofondo degli sceneggiatori che dicono: "ma sì, mettiamoci anche questo, il figlio trans non operato che ha un rapporto incestuoso con la sorella: it's cool, vediamo che cazzo succede."
PTA vuole però qualcosa di più. 
In questo ambizioso film egli vuole in primo luogo ritrarre due fallimenti del Grande Sogno Americano. Due fallimenti di segno opposto. 
Il film è ambientato nel 1950.
Il pazzo, allucinato, deforme, bestiale Freddie Quell (un assoluto Joaquin Phoenix), reduce della IIGM, cerca una improbabile salvezza e guida nel guru di una nuova psico setta, Lancaster Dodd (un altrettanto assoluto Philip Seymour Hoffman).
Dodd (ricalcato solo in parte su R. L. Hubbard) è un uomo curioso, un leader carismatico, una figura paterna per eccellenza, un mistificatore che cerca di credere a quello che fa, protettivo ma a sua volta protetto, guidato e quasi plagiato dalla dolcissima moglie, più invasata e dittatoriale di lui nella gestione della setta. Una coppia di potere come ce ne sono in ogni dramma che si rispetta, dove i ruoli evidenti non sono conformi ai ruoli reali. E' lei a governare sulla stanchezza del guru, è lei a suggerire quelle correzioni dottrinarie necessarie, cui Dodd si adegua, divorato dal senso di colpa di non essere realmente all'altezza del suo ruolo, agli occhi della moglie. E' sempre lei quella che nelle sedute pseudo ipnotiche, aiuta di più Quell.
Dodd trova in Freddie Quell una follia dionisiaca, selvaggia, senza rimorsi, senza ombre. Quell è un istintivo puro, un uomo che sente e non pensa, che non si conosce e che pure capisce: un fallito con pulsioni criminali su cui non ha controllo.
L'incontro tra i due si trasforma in una apparente relazione maestro e discepolo, nel quale segretamente il maestro invidia la libertà del discepolo.
Il film è un lungo dipanarsi attraverso quello che sembra il lento processo di guarigione di Quell, che orfano totale, orfano della vita da sempre, cerca un padre e una madre immaginari. La Grande Madre da amare incestuosamente, la donna fatta di sabbia da penetrare sulla spiaggia, l'algida irraggiungibilità della moglie di Dodd, incinta per quasi tutto il film. Chi è il bambino che porta in grembo? Nel'ultimo colloquio dei tre, alla fine del film, lei non sembra essere più incinta. Perché? Dopo quel colloquio Quell abbandonerà tutti e due e riprenderà la sua vita di pazzo vagabondo, ma qualcosa gli sarà rimasto dentro. 
Era Quell stesso, simbolicamente, il bambino?
L'abilità d PTA sta proprio nel non dare risposte. 
Nessuno vince, nel film. Il sogno americano è naufragato già negli anni cinquanta, pare dire PTA.
Perché naufraga? Perché nessuno vince e non c'è salvezza, e la felicità non è possibile se non, a tratti, nella vita pulsionale, mortifera di Quell. 
Tornare alle vite passate è un esercizio inutile, di fronte alla costante alienazione di noi stessi, da noi stessi. 
L'uomo non è, come pretende la dottrina di Dodd, un "essere originariamente perfetto". Anzi, viene il sospetto che il Master comprenda anche troppo bene che Quell, nella sua originaria follia pulsionale, è lui, l'essere "originariamente perfetto". Come tale non può guarire. Dalla vita non si guarisce.
E' quello che dice la moglie di Dodd nell'ultimo colloquio (significativamente l'unica scena dove i tre protagonisti vengono inquadrati insieme): "Lui non guarirà mai."
L'attrazione fatale, omoerotica e filiale, tra Dodd e Quell viene interrotta dalla rivendicazione di libertà dell'asociale, inutile Quell. 
Quell è l'uomo che, non resistendo a nessuna tentazione, vince sulla tentazione di avere qualcuno che lo guidi.
Lui è natura, incarna le forze basse, ma potenti della natura. 
Tutto quello avrebbe desiderato è un padre e una madre che avessero potuto renderlo umano. Questo è anche il suo sogno, raccontato all'inizio del film allo psichiatra dell'esercito: il semplice sogno di lui, suo padre e sua madre insieme, a tavola, che bevono e ridono.
Quando la ricerca della Famiglia Originaria in casa Dodd si rivela infruttuosa, Quell ritorna nel grembo della natura, nel grembo della Grande Madre - donna di sabbia, nei grembi di donne conosciute per caso. E questa è la rivincita di Quell su Dodd e contemporaneamente il suo fallimento come umano.
Il titolo del film rimanda a Dodd. E' su di lui, il Maestro, il Padrone,
il maschio che non può che fallire, che verte il tutto: il suo ruolo di guida non può essere che fasullo.
Come indicano le numerose inquadrature di navigazioni, flutti, orizzonti marini, oppure deserti sterminati di sabbia e sassi, siamo tutti in cammino, siamo tutti soli, a caccia di qualcosa, che nessun maestro ci può dare.
Il maestro è pure lui alla ricerca. Il maestro non può fare nulla per te. Il Padrone non può che dominarti ed essere dominato lui stesso.
Molto ci sarebbe da dire anche sulla colonna sonora, strepitosa. liquida, informe, suggestiva, basata su dissonanze che sfociano in accordi solenni, come galleggianti sull'acqua. Pare provenire da dietro il mondo.
Non so se il film è un capolavoro, solo il tempo lo dirà. Di sicuro, è un film che partendo da un tipo di cinema molto americano, forse troppo intellettuale, arriva al cuore delle domande essenziali che si pone l'uomo da sempre, arriva al cuore della condizione umana, sfiora la poesia con distacco, guarda da lontano arrivare e ripartire la Nave dei Folli, sulla quale siamo imbarcati tutti.
Emergiamo dalla natura e pretendiamo di conoscerla, ma ogni pretesa oggettiva, naufraga - è il caso di dirlo - contro il fatto che noi, lungi dall'essere "originariamente perfetti", siamo natura. Coscienti e incoscienti allo stesso tempo. Scaturiti da una guerra continua e sempre in mare aperto, a navigare, in cerca di piacere e amore. In attesa del prossimo Maestro da cui farci ingannare.

venerdì 4 gennaio 2013

Sempre fuori tempo massimo




La mia vita è monotona, mediocre, ripetitiva, stancante. Ne ho passate talmente tante che che mi va bene così, ormai. Una vita diversa, come la vorrei, non è probabile, almeno a livello lavorativo. Però chi sa. Uno spiraglio lo tengo sempre aperto.
Ho due lavori, il che, in un momento di crisi è buona cosa, ma insieme mi fanno poco più di uno stipendio medio, qui al nord: 1500 euro mensili per capirci. Il mio lavoro principale, mi consente di avere il tempo di leggere e scrivere. Senza questa possibilità, sarei perduto.
Ho dunque, nella mediocrità, un certa fortuna. Ben meritata, se penso che  sono stato precario e ridotto a lavori di merda, dai 40 ai 45 anni. Proprio nell'età in cui avrei dovuto, come si dice, cominciare a godere dei frutti, ho perso tutto quel poco che avevo. Quello che sta succedendo a molti adesso, a me è successo 10 anni fa. Sempre fuori sincrono. 
All'epoca non potevo neanche godere del mal comune, che come si dice ... 
Se penso che ho vissuto momenti in cui non avevo neanche i soldi per mangiare, quello che ho adesso, con tutta la sua mediocrità, ripetitività e stanchezza, mi va bene. 
Da un paio di anni, però il mio corpo si ribella. Soffro di attacchi di panico. Mi è precluso prendere un aereo. Non riesco a guidare in autostrada o nelle tangenziali. Sto bene in pratica, solo se non sono costretto a uscire di città. Siccome non mi è possibile (grazie alle amorose e direi incalzanti insistenze della mia compagna) seguire questa inclinazione, ogni vacanza per me è un dramma. 
La mia compagna, già. Vivo da quasi otto anni con questa donna a cui voglio molto bene e che amo, ma con la quale ho un rapporto conflittuale e spesso frustrante. Su questo di più non voglio dire, per rispetto e pudore
La realtà della mia vita è questa. Questa.
Non ci sono cieli nuovi e mondi nuovi, per me.
Sono un grigio ometto del XXI secolo, un topo di città, pieno di problemi. Non voglio finzioni. Nulla al ver detraendo, diceva il Leopardi. Non voglio edulcorare nulla. 
Non ho mai voluto aderire ai “valori” della società in cui vivo. 
Ho sempre provato repulsione per le cose che sembravano, chissà perché, interessare ai più. E quindi ho coltivato la mia diversità, senza ritegno, né intelligenza: il mio mondo interiore, le mie mitologie. 
Ho fatto il bohémien senza averne la vocazione. Sono sempre contro tendenza, anche contro me stesso.
Non per questo mi sento libero, perché il mondo intorno mi schiaccia. Avrei voluto essere accettato, un tempo, ma era una pretesa puerile, essere accettati senza accettare le regole del gioco. Adesso "accetto" il mio isolamento. Non sono un outsider, ma un insider scontento.
Certi giorni mi sento ancora sul punto di decollare, finalmente, ma la realtà è che sono sicuramente più vicino all'atterraggio che al decollo. 
Quanto tempo ho perso, che non mi verrà mai restituito, correndo dietro a sogni e incertezze. Io solo ne sono responsabile, anche se non c’è nulla di quello che ho fatto e vissuto nella mia vita, che avrei potuto o saputo fare diversamente, nel momento in cui l’ho fatto.
È sempre stato tutto così strambo, per me, tutto sempre fuori tempo massimo.
Non ho mai fatto parte di niente, veramente. 
In questo mondo, sono come uno che è salito sull’autobus sbagliato e ha mancato un appuntamento importante, perdendosi per giorni interi dall'altra parte della città.
Sono come uno che non ha mai accettato le regole del gioco, pur facendo finta di capirle e accettarle. 
Sono come uno che tutti pensano in un modo, invece è in un altro e viceversa.
Sono come uno che non vuole starci, non ha mai voluto starci, in mezzo a quegli ipocriti, ma che soffre di solitudine e, a volte, quegli ipocriti mancano.
Sono come uno che ha preso solo cavalli sbagliati.
Sono come uno che arriva a una festa dove non conosce nessuno e nessuno bada a lui ma non ha la forza di inserirsi sfacciatamente, anche a costo di farsi insultare e se ne torna a casa, solo come sempre.
Sono come quello che ai colloqui viene sempre scartato, perché non appare sufficientemente motivato.
Sono come una comparsa di un film muto.
Sono l'orfanello arrabbiato, il bullo pentito, la debole vittima del cattivo di turno.
Sono come quell’indiano che viene ammazzato nei film western e cade da cavallo ai margini dello schermo, mentre l’azione e gli eroi sono al centro. Nessuno quasi lo nota cadere. Io invece, fin da piccolo, guardavo proprio quelli che morivano al margine dello schermo, invisibili a tutti e li sentivo fratelli.
Sono come uno che arriva sempre ultimo e che quando arriva penultimo, si dispiace per l’ultimo.
Sono la pietra scartata dal costruttore, la partita di merce da cambiare, il prodotto che non si vende, la seconda o terza scelta.
Sono il bambino che gioca solo.
Sono quell’uomo laggiù, seduto solo in un bar.
Sono l’ambulante sotto la pioggia cui nessuno compra nulla.
Sono come il Vagabondo di Charlot, senza le capacità acrobatiche.
Sono l'uomo nudo alla festa, ma con la faccia coperta.
Sono il patetico orfanello.
Sono la persona sbagliata al momento giusto.
Sono quello che fa fatica, ogni giorno, ogni settimana, senza scopo, senza calcolo, solo perché non sa che altro fare.
Sono quello che cammina senza meta.
Sono quello che piange per una parola d’amore, ma se ne vergogna.
Sono quello che non capisce mai bene quello che gli viene detto.
Sono quello che va avanti, come un mulo, perché ha paura di fermarsi.
Sono quello maldestro, a cui sfuggono tazzine e piatti e fili e pinze e non vede nulla intorno a sé.
Sono quello che sorride imbarazzato.
Sono quello che quando si arrabbia, balbetta.
Sono quello che alle feste cui viene trascinato, fa finta di divertirsi.
Sono come quell’uomo strano, che la gente evita.
Sono quello che da una montagna fa partorire un topolino. E viceversa.
Sono quello che vedi ogni sera quando entro dalla porta, con il mio sacchetto di libri in mano.
Sono quello con l’occhio miope proiettato verso il futuro.
Sono quello che sente il furore delle cose intorno a sé e che nessuno ascolta.
Sono quello che cerca di sollevare quella ruota staccata dal carro e piove e nessuno lo aspetta. Arriverà a casa fradicio e gli chiederanno “dove cazzo eri finito?”
Sono un uomo così.

giovedì 3 gennaio 2013

Italia culinaria, o della difficoltà di approntare nuovi paradigmi della conoscenza




Dopo avere letto e riletto migliaia di libri, mi sento ignorantissimo. Non ricordo un granché, confondo la madeleine di Proust con la bagnacauda di Peppino.
La complessità nel pensiero di Morin mi affligge più della sciatica.
La teoria degli insiemi mi fa andare insieme la vista.
Il balzo quantico mi sembra più un salto quandico. Un capitombolo dovico.
La Montalcini mi sembrava la testimonial per protesi dentarie mobili per centenari. Poi ho scoperto che la Montalcini è morta, per cui non ne posso pensare nulla che sia meno che rispettoso.
Nietzsche ormai per me è solo quello del cavallo. Abbracciava il cavallo di Troia per le vie di Torino insieme a Primo Levi. O era Jung?
L’Anti – Edipo è una crema per combattere la cellulite.
L’uomo a una dimensione, senza acca.
L’uomo deve accontentarsi della dimensioni che (h)a.
La cultura, la cultura, cosa è la cultura?
Non se ne vede la fine.
È un viaggio lunghissimo in compagnia di una folla di gente che parla tutta insieme.
La gente che parla tutta insieme mi spaventa. Già faccio fatica a capire quando mi parla una persona sola, ma quando sono migliaia e migliaia e dicono tutte cose così interessanti, mi sento perduto. Sono così intelligenti, tutti. Io sono affascinato dall’intelligenza.  
Intelligenza, intelligenze, che meraviglia possederne. Ancora meglio, esserne posseduti.
Io vengo posseduto dall’intelligenza. Non la mia, magari. La loro.
Diventa difficilissimo tirare le somme.
Camus è quello che faceva rotolare massi su e giù per le colline e si divertiva.
Michel Onfray, lo invidio, è filosofo ed è bello. Capisce un sacco di cose, è figlio di gente umile e adesso fa i dibattiti televisivi in Francia e sputtana tutti quei zebedei parrucconi che credono di avere capito qualcosa.
Onfray è il mio eroe. Davvero.
Peccato che batta un po’ troppo il tasto sull’edonismo, che francamente mi mette un po’ tristezza. Se mi dicono “goditi la vita, perdio!” rimango perplesso. Cerco di capire cosa fare, poi mi viene immancabilmente sonno.
Comunque, dicevo, in Francia c’è Onfray, giovane e bello. Mi piace la Francia, è un paese dove mi trovo bene. I filosofi francesi, gli intellettuali francesi, sono pazzescamente fighi.
Anche qui in Italia abbiano un sacco di intelligenze, come Severino, bello ma non giovane.
Severino dice che tutto è eterno e che gli enti entrano ed escono non ricordo da dove, però nessun problema, perché tanto tutto è eterno. Dunque anche Berlusconi. Ma quello già lo sapevamo.
Severino però è un filosofo, nel senso che ha creato una filosofia tutta sua, più o meno parmenidea.
Per il resto in Italia abbiamo dei gran professori. 
Come Monti Mario. Come Celentano.
Gente che spiega, di solito da Fazio, che è così contento di farsi spiegare. Da casa la gente è contenta di non capire.
Ma poi in Italia abbiamo anche dei gran scienziati. La Hack, Zichichi, Piero Angela. 
Gente che spiega.
Siamo pieni di gente che spiega. Sarà per via di tutta questa gente che spiega che il popolo italiano è notoriamente tra i più istruiti d’Europa, se non del mondo. Gente a cui non la si fa. Eccellenze, eccellenze.
Io però continuo a sentirmi ignorantissimo. Tutta questa cultura mi affatica. Mi spiegano, ma non riesco a seguire.
Se va avanti così, tra un po’ non saprò più leggere.
Vorrei tanto arrivare a capo di qualcosa, che so, smettere di avere questa confusione in testa. Almeno ricordassi la ricetta della bagnacauda.
Ecco, la cucina: l’arte culinaria è la prima vera cultura italiana. L’Italia è tutta protesa in questa gloriosa battaglia nell'eccellenza culinaria.
In culinaria nessuno ci batterà mai. Noi siamo nati culinaria.
Anche nel 2013 tutti culo in aria, pronti per le prossime elezioni.
A pranzo, i menù di Benedetta.