Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

venerdì 30 agosto 2013

Battisti Panella La Sposa Occidentale: sai che non si è mai la propria vita



Con l’ormai consueta cadenza biennale, nell’ottobre 1990 uscì il terzo album della “strana coppia”. Copertina bianca, come sempre, con una specie di indecifrabile ritratto dentro a un quadro. Registrato a Londra, come gli altri, si avvale della collaborazione di un arrangiatore d’eccezione come Greg Walsh, collaboratore, tra gli altri, dei Pink Floyd e di Battisti stesso in Una donna per amico.
Questa volta Battisti optò per l’eliminazione totale di strumenti che non fossero elettronici, come già aveva fatto per l’album E già.
Mentre sia in Don Giovanni che ne L’Apparenza vengono ancora utilizzati archi, pianoforti, chitarre e bassi veri, dalla Sposa Occidentale il paesaggio diviene totalmente scevro dalla presenza di mano umana: solo freddi apparecchi digitali e la sua voce, masterizzata in modo da non spiccare eccessivamente. È una voce distaccata, didascalica, con una sorta di fredda ironia appena percepibile, che vira facilmente sui toni in falsetto.
È come se dicesse che qui ormai niente è più serio e, nello stesso tempo, il gioco è ormai diventato serissimo: l’ossessione di mimesi e sparizione assume proporzioni colossali.
E tuttavia anche questo album ebbe un discreto successo, vuoi per il gradevole e apparentemente buffo pezzo che dà il titolo all’album, vuoi perché il nome Battisti era una calamita sufficiente per garantire la vendita di almeno qualche centinaio di migliaia di copie, nelle prime settimane, seguito dall’inevitabile caduta verticale una volta che il prodotto si era rivelato inascoltabile ai più. Le radio difficilmente si arrischiavano a far passare pezzi dell’album, tranne giusto il brano  - titolo.
Battisti ormai faceva un mondo a sé, difficile da penetrare. Il suo apparente solipsismo presenta molte “falle, falle rudimentali, aperte come portali, per i tuoi molto puntuali appuntamenti molto occasionali”.
In questo mondo rarefatto si può però entrare e si può godere.
Ci si accorge, in mezzo a questi cristalli di canzone, che c’è una gioia di correre, soli e tutti goduti, in mezzo alla strada. Pezzi da mettere quando si corre: c’è una sensazione di danza, movimento giocoso, spensierato, che i testi di Panella sottolineano.
O forse si dovrebbe dire che i testi rarefatti e giocosi di Panella trovano perfetta corrispondenza in una musica giocosa e rarefatta.

sabato 24 agosto 2013

Battisti Panella L'apparenza: tutto è dimostrabile, soprattutto il contrario



Don Giovanni fu un buon successo, nonostante la diversità da tutto quello che Battisti aveva prodotto in precedenza. Fu il terzo album per vendite nel 1986 e in classifica rimase a lungo al secondo posto.
Il pubblico era ancora troppo abituato e affezionato al cantautore, per non accoglierne anche le più spigolose novità. Oltre tutto, anche ai puristi della canzonetta “normale” non poteva sfuggire che, nonostante i testi ostici, le canzoni dell’album erano, semplicemente, belle. Entravano dentro, nell’anima e ci rimanevano a covare emozioni come sempre indefinibili.
L’Apparenza uscì nell’ottobre del 1988 e fu, se possibile, ancora più spiazzante dell’album precedente. Stavolta Battisti non voleva lasciare dubbi: la nuova strada che aveva intrapreso con Don Giovanni era avanti tutta e senza ritorno.
Se nell’album precedente il procedimento compositivo nasceva dalla musica alle quali Panella sovrapponeva i suoi bellettristici  versi, ora i due avevano deciso di agire al contrario. Doveva essere Panella a sottoporre a Battisti i suoi componimenti, a metrica libera, concernenti qualunque cosa volesse.
La musica doveva scaturire dal verso, così com’era.
Era una sfida alla quale i due si applicarono senza risparmiarsi. Panella non si pose limiti.
Battisti nemmeno.    
Gli arrangiamenti, i testi, la struttura dei brani: ogni aspetto de L’Apparenza è uno schiaffo in faccia a chi è ancora legato al ricordo del vecchio Battisti.
La copertina è bianca, spoglia, con una credenza stilizzata disegnata da Battisti stesso.
Resta solo la sua voce, inconfondibile, acuta, mimetica, fredda, esplicativa, a segnalare che Lucio c’è ancora, da qualche parte, nascosto: c’è e ha deciso di parlarci.
Noi possiamo solo ascoltare, fuggire, ignorare, o amare.


lunedì 12 agosto 2013

Battisti Panella. Don Giovanni: L'artista non sono io, sono il suo fumista



Prima di cominciare, bisogna dire che porsi l’obiettivo di analizzare i 40 brani è da un lato un compito ingrato e, da un altro lato, completamente inutile.
Indagare sull’astrattismo ha sempre in sé una sfumatura di ridicolo che aumenta man mano che l’indagine prosegue. Non si troverà l’assassino, alla fine del giallo, ma solo il cadavere consunto di noia dell’investigatore.
Non ci sono interpretazioni dei significati dei testi, o meglio, ce ne sono migliaia e tutte potenzialmente valide. Molti ci hanno provato e anche con risultati interessanti (in Rete c’è una pletora di interpretazioni: psicanalitiche, filosofiche, matematiche, logiche). C’è chi trova nei bianchi citazioni del Petrarca, chi i numeri di Fibonacci, chi informazioni criptate sulla vita quotidiana del cantante … la sensazione che se ne trae è quella inquietante che tutte queste interpretazioni potrebbero essere vere e false a un tempo.
Panella disse a suo tempo che le parole hanno significati molteplici e che il suo “gioco è proprio trascorrere e percorrere la parole e i sensi. Invito al ritrovamento di un tesoro che nessuno vuole trovare. E soprattutto sfuggo il senso unico, o meglio l’unico senso.”
L’impronta che si ricava dalle parole di Panella è quella dell’avanguardista stanco di se stesso: un avanguardista che non ha più bisogno di essere tale. Tutte le retroguardie sono rientrate, ormai, e la guerra, mai vinta e mai combattuta, è finita laggiù, da qualche parte degli ultimi anni del novecento, prima di cominciare. Panella pare sempre parlare da dietro un sbadiglio di noia, vezzo che si concedono molti pseudo artisti: a lui glielo si può anche perdonare. Battisti invece era un entusiasta del lavoro, un perfezionista. La produzione BP riflette questo strano connubio di noia partecipata: lo sforzo di tenere insieme due mondi distanti che per otto anni ha funzionato.
I cinque album parlano direttamente dal fondo opaco in cui le cose e le parole si confondono. Parlano di cose oltre le cose, apparentemente riconoscibili (L’Apparenza è un'altra parola chiave) in realtà inconoscibili e sconosciute.
Tutto quello che si può fare è giocare con la percezione che questi brani producono e perdersi completamente.

Il primo dei cinque bianchi non è bianco, in realtà, ma di un marroncino beige chiarissimo.
In copertina un attaccapanni alquanto stilizzato da cui pende una sciarpa d’artista, di quelle lunghissime alla Fellini, per intenderci, lascia ben poche indicazioni sul contenuto del disco.
Nel 1986, in pieno decennio pop elettronico, testi intellettualoidi, densi di richiami alle tradizioni del novecento, alla letteratura, alla psicanalisi, mescolate a melodie accattivanti, dopo l’enorme successo di Battiato, non sono più una novità per gli ascoltatori.
A Drive In, trasmissione esemplare del decennio, si prendono in giro le pretese intellettuali di Sting, che fa canzoni basandosi sulla psicanalisi di Jung.
Perfino i Matia Bazar cominciano a fare testi ermetici e minimalisti, con canzoni tipo Aristocratica o Vacanze romane.
Insomma, il pubblico è diventato onnivoro: difficile disorientarlo. La cultura ufficiale stessa viene presa e frullata nel calderone di superficialità commerciale di quegli  anni di cosiddetto riflusso.
Tuttavia anche nei rifluenti anni Ottanta il nuovo album di Battisti, lascia sbalorditi pubblico e addetti ai lavori.
Dopo quattro anni dallo sperimentale e non del tutto riuscito Eh già, con testi della moglie (o forse di Battisti stesso? Mistero mai svelato), per di più un nuovo album senza Mogol, è un evento che non può lasciare indifferenti.
Battisti aveva già abituato i suoi fan a sorprese inaspettate.
Da Anima Latina in poi (del 1974: album tra i più ricercati, raffinati e profondi della discografia non solo di Battisti, ma della musica leggera italiana) la coppia Battisti – Mogol esplora tutti i ritmi e i riti della cultura popolare.
Ecologisti, terzomondisti, ribelli, anti consumisti in un’epoca in cui era di moda esserlo, i testi di Mogol sembrano compendiare a tratti Eros e Civiltà di Marcuse: portavoce di un’epoca in cui l’immagine dell’intellettuale anti borghese aveva ancora un suo senso.
Nonostante i belli ma “furbi” testi di Mogol la curiosa e inarrivabile capacità di Battisti di creare canzoni che echeggiano l’epoca nella quale sono state composte e nello stesso tempo la trascendono, sembra crescere sempre più.
Marciare insieme al tempo e esserne al di fuori: questo è il segreto di Battisti.
Gli anni Ottanta iniziano con la fine del sodalizio con Mogol.
Sui motivi di questo distacco tutto è stato detto ed è inutile aggiungersi ai cori di deprecazione o felicitazione.
Gli ultimi due album fatti con Mogol hanno un gran successo, ma qualcosa già si nota che stona. Una donna per amico (1979) e Una giornata uggiosa (1980) sono due perfetti successi commerciali.
Chiunque si potrebbe accontentare. I tempi sono quelli che sono. Finita la deriva ecologista i testi di Mogol accennano a un proto femminismo, a una incipiente stanchezza delle ideologie. Anche la musica di Battisti sembra in qualche modo appiattirsi nella facile melodia, nella giustificazione delle cose come stanno, sia in senso letterale che in quello musicale.
Su questa china a breve si può solo arrivare alla ripetizione e alla stanchezza, la macchietta di sé stessi, la stessa irrinunciabile canzonetta di successo ripetuta ogni anno.
Ma Battisti non si accontenta del successo. Battisti non può e non vuole tutto questo.
Non vuole più, forse non lo ha mai voluto.
Lui è diverso e lo sa. Lui è veramente diverso. È disposto a tutto.
Quello che Battisti vuole è andare avanti, ricercare, trasformarsi, perdersi e ritrovarsi.
Ricordiamo sempre i due aspetti fondamentali della psicologia artistica di Battisti: volontà mimetica e desiderio di trascendersi, non essere mai dove si è, un modo per riconfermarsi sempre numero uno.
Patologia e immenso valore artistico, sempre in bilico.
Volontà di autodistruzione e desiderio feroce di perdersi dentro la propria opera, unito a un altrettanto feroce sentimento del proprio valore.
Come un Proust che si seppellisce in casa per completare la Recherche e rinnega sé stesso a favore dell’opera, così Battisti rinnega la propria immagine pubblica, azzera sé stesso definitivamente per diventare autore totale.
Ha già smesso da qualche anno di apparire in pubblico. Ora cesserà totalmente di cercare di favorirlo. Non concederà più interviste. L’ultima è del 1980, per la TV svizzera.
Chi potrà mai prendere il posto di Mogol?
Pasquale Panella, classe 1950, incontra sulla sua strada Battisti grazie ad Adriano Pappalardo. Tra Pappalardo e Battisti c’è una amicizia di lunga data.
I due condividono la passione per le immersioni e Pappalardo è stato una promessa nella scuderia della Numero Uno, la casa discografica fondata da Mogol e Battisti. Insomma, si gioca in famiglia, si può dire.
Panella sta scrivendo i testi per l’album di Pappalardo Oh, Era ora. Battisti ne sta curando gli arrangiamenti. È un disco stranissimo, inconsueto, e non stupisce che non avrà riscontro. In quell’inizio anni Ottanta pare proprio che Battisti e suoi collaboratori si mettano di impegno per remare contro qualunque probabilità di successo.
Battisti rimane colpito dai testi di Panella, che usa lo pseudonimo Vanera.
Panella ha scritto per il teatro, è un giocoliere della parola, conosce le sfumature, dosa sentimenti e ridicolo con maestria incredibile. È, in una parola, un poeta, un vero poeta, uno che sa. Questo basta per Battisti.
È il 1983. Battisti vuole che Panella faccia i testi del suo prossimo disco. Lui farà le musiche e per i testi lascia assoluta carta bianca al poeta.
È fatta. Inizia il viaggio.

giovedì 1 agosto 2013

Battisti Panella: piccolo preambolo ai cinque bianchi



Facendo un giro per la Rete (frase orrenda che lascia intravedere significati altrettanto orrendi) si possono leggere un gran numero di commenti, alcuni assai articolati e interessanti, sull’intera vicenda Battisti – Panella.
Chiunque si prenda la briga di scriverne lo fa per lodare quella che per lui o lei è stata in ogni caso un’esperienza fortemente vitale di fruizione artistica.
Si potrebbe dire che i 40 pezzi dei 5 album B - P, hanno avuto nella musica leggera, qualcosa della forza di impatto che poté avere l’Ulisse di Joyce nella storia della letteratura: qualcosa di imprescindibile, ma che pochi hanno voglia veramente di affrontare.
È musica che non può e presumibilmente non vuole, avere accesso alle masse, però trasfigura la musica di massa, così come l’Ulisse trasfigurò il romanzo borghese.
L’accostamento romanzo – canzone popolare è meno strano di quello che sembra. Per le moltitudini umane, l’unico accesso alle cosiddette narrazioni, è sempre avvenuto attraverso le canzoni. Ogni canzone è un frammento del grande monotono o imprevedibile romanzo del mondo: un manuale di istruzioni per l’uso poetico della vita, parafrasando Perec.
I cinque album hanno avuto dalla loro l’inconfondibile voce acuta di Battisti, negroide, rassicurante: è sempre lui, quello di Acqua azzurra, acqua chiara, lasciamoci guidare, vediamo dove ci porta.
E dove portava questa voce acuta, inconfondibile? … e ripeschiamo l'oh dello stupore col quale incorniciamo il fragile leggero di quel che non diciamo / e poi di che parliamo?
Dal 1986 al 1994, ogni due anni, questa follia a due si ripeteva tra le aspettative deluse da chi si aspettava un ritorno alla tradizione e crollo verticale delle vendite.
Battisti non c’è più. È un’icona impazzita. Lo fa apposta. È un furbo. Chi si crede di essere.
Poi Battisti, nel 1998, muore. Sparisce per sempre, davvero.
Per moltissima gente è un colpo inaspettato, come la scomparsa di un parente, un amico.
Tutti gli devono qualcosa, anche chi non lo ha amato. Solo che Battisti è Battisti – Mogol. Che altro?
I cinque bianchi rimangono come sfingi, con i loro enigmi. E non solo, costituiscono la fase finale della sua produzione.  Lucio Battisti non è andato oltre Hegel. Queste cinque bizzarrie discografiche sono, volenti o nolenti, il suo testamento
Tutta quella musica.