Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

giovedì 20 marzo 2014

Tre haiku primaverili

Jack Vettriano: The shape of things to come


Ad ogni cancello
la primavera comincia
dal fango sui sandali


In questo mondo
sopra all'inferno
contempliamo i fiori

Dove ci sono uomini
troverai mosche
e Buddha


Kobayashi Issa (1763 - 1828)

lunedì 3 marzo 2014

La (grande) promessa di (grande) bellezza denaturata


 

 
È avvilente, ogni volta che capita un avvenimento cosiddetto culturale, darsi da fare per cercare le ragioni del “mi piace”, “non mi piace”, “mi fa cagare”, “è la cosa più bella completa e meravigliosa cui ho assistito”, e tutte le infinite sfumature intermedie.

Quando poi si tratta di un film di Paolo Sorrentino, regista che da subito si è situato naturalmente e nettamente sopra dell’asfittica media nazionale dei Virzì, Veronesi e compagnia cantando, il rischio è sempre quello di mancare l’obiettivo: cioè dire troppo o troppo poco e nella direzione sbagliata.

La premessa di base è semplice: Sorrentino è talmente bravo che un film “brutto” non gli viene nemmeno per sbaglio. Tutto è giocato nello spettro che va da “paraculo” a “capolavoro”. Lo spettrometro oscilla terribilmente in questo film e non arriva a fermarsi quasi da nessuna parte. La tendenza verso la vibrazione “paraculo” è fortissima, in ogni caso.

 Quest’Oscar pare aver messo d’accordo tutti. La Grande Bellezza è acclamato ormai come un capolavoro indiscutibile dal circuito mainstream. Sollevare dubbi, anche piccoli, su una cosa stabilita universalmente significa diventare nemici della patria.

Abbiamo così poche cose in Italia di cui essere fieri in questo periodo, almeno nel cinema siamo tornati a essere “eccellenze”.  Non vorrete mica guastarci la festa? E poi, chi cazzo vi credete di essere, anche solo per segnalare i non pochi momenti di noia, le cadute di tono, le scene improbabili, gli ammiccamenti snob e paraculi di un Servillo che pare ormai regolato in automatico sul personaggio del meridionale snob di buone letture e disincanto al pomodoro e basilico con smorfia di superiorità incorporata?

Non saremo certo noi a farlo (il pluralis maiestatis, è imperdonabile, lo so, ma per una volta me lo voglio gustare, come il gelato al pistacchio o la cassata siciliana, o il babà al rhum). O sì?

La visione del film per me, rimane associata a una vescica in procinto di esplodere verso la lunghissima fine del film e una poltroncina scomoda al cinema Colosseo, mentre una scena si susseguiva a un’altra, che ogni volta sembrava conclusiva, ma non lo era.

Il film sembrava sempre sul punto di terminare, ma poi iniziava una nuova ripresa con il dolly dall’alto verso il basso e poi ancora verso l’alto, oppure un primissimo piano su una faccia grottesca che urlava con una smorfia atroce e poi carrellata all’indietro fino a inquadrare qualche festa surreale. La vescica si tendeva fino a esplodere e ogni volta pensavo, adesso finisce, adesso finisce, e che cazzo deve succedere più, è successo di tutto, anzi non è successo niente, insomma l’abbiamo capito che Roma è una citta corrotta sotto i cui strati di fatalità storica e marciume giacciono continenti interi di pura bellezza, ho capito che Sorrentino ha una prodigiosa capacità di mostrarcela, questa bellezza, questa “grande bellezza”.

Trovo inutile cercare sottili analisi sociologiche sui coatti d’inizio millennio, sui tatuaggi, sulle imbarazzanti onnipresenti inquadrature da spot degli sponsor, Banca Popolare di Vicenza e Audi e forse la Samsung. Insomma quel gusto tardo capitalista che lascia un po’ l’amaro in bocca, ma di cui, negli anni Dieci, non si può proprio fare a meno.

L’onnipresente condizione umana, dopo un po’ sparisce, sotterrata da troppa bellezza, troppe Audi e Samsung e Banche popolari di Vicenza.

I personaggi di Sorrentino sono tutti esattamente come ti aspetti che siano. Anzi, non sono personaggi, sono citazioni letterarie, apparizioni che servono a completare il quadretto che ha in testa il protagonista, che poi è sempre lo stesso, un’anima maschile disincantata, perdente, sottilmente “paracula”. Non è necessariamente un difetto: comincia a esserlo se la vescica ti si comincia a riempire inopinatamente.

Dopo la prima ora e mezza di esposizione di caratteri dimenticabili, ma tutti senza eccezione simbolici ed espressivi, dopo dolly su dolly di cinismo nostrano, mostri felliniani, avanguardie giustamente ridicolizzate, cantanti inglesi ormai anziani e imbarazzanti camei di Fanny Ardant e Venditti, dopo il gusto proustiano di cercare di farci “vedere” i profumi dei ricordi, dopo dolly su dolly (ancora) per i cieli della Città Eterna, dopo la commovente storia della povera spogliarellista di mezz’età malata e moribonda (Ferilli) che sembra coatta, anzi lo è, ma che sembra (ma non lo è) l’unico personaggio umano di un film disumano, quando tutti nella platea eravamo sopraffatti dalle immagini, la storia (?) pareva conclusa e il capolavoro intravisto.

Ma poi tutto si è rimesso in gioco, ecco subentrare altri pagliacci, nani, ballerine, e altrettanta “grande bellezza” che pioggia addosso allo spettatore, dolly su dolly (ora e sempre), riprese storte, piani americani, piani sequenza. A questo punto arriva la Santa, la necessaria tentazione, più che della fede, dell’umiltà.

Tra tanta corruzione, disperazione e cinismo, Audi e Samsung, tablet, tatuaggi, suore, turisti e banche popolari, l’ultraterreno occhieggia dal cielo meraviglioso della Capitale. Allora abbiamo miracoli con fenicotteri creati con il computer su albe improbabili.

Mi chiedo perché il regista non abbia scelto di fare scoreggiare la Santa rumorosamente (magari l’ha fatto e non me ne sono accorto). Allora sì, che ci sarebbe stato un grandioso passo verso la “liberazione”: un bello sberleffo finale.

Purtroppo a quel punto, io ero alle prese con la greve materialità della mia vescica e con la perfidia di Sorrentino che si divertiva a far seguire una scena all’altra senza che si arrivasse al dunque.

Al dunque poi ci si arriva, in ogni caso. La grande bellezza, quella che ogni artista vorrebbe cogliere, quel “nulla” leggero, flaubertiano, di cui il disincantato scrittore protagonista è a caccia, è la gioventù, quell’istante magico dove il primo amore della tua vita (rassegnatevi donne: è un film inevitabilmente virato al maschile) si apre la vestina per farti vedere il seno.

Tutto qui? Tutto qui. Vi sembra poco?

Non ho potuto fare a meno di pensare, a vescica implorante, che almeno Sorrentino poteva far vedere una tipa con delle tette più belle. C’era la Ferilli a disposizione.

Che dire? Fortuna che ancora la prostata mi tiene.

 Sorrentino ha raggiunto l’obiettivo prefissatosi (se è quello che si è prefissato): dipingere con maestria irreprensibile, con tutte le risorse che il mezzo cinematografico ha a disposizione, il nulla. Ha fatto quello che voleva Flaubert, d’altronde citato durante il film. Sorrentino è un regista letterario. I suoi film sono, in fin dei conti, romanzi più o meno riusciti.

Una menzione a parte merita la splendida colonna sonora composta da Zbigniew Preisner, autore delle musiche di molti film di Kieslowski.

La magia della sequenza iniziale fa parte della Grande Promessa di Grande Bellezza, non sempre mantenuta nel film.

In ogni caso Oscar meritato, per quello che questo premio ormai rappresenta.