Arrivati quasi alla
fine del viaggio nei cinque bianchi, la fatica si sente. Tali e tanti i
paesaggi sonori e linguistici visitati, tanti e tali le sfaccettature degli
album precedenti, tali e tante le acrobazie del duo, che la possibilità di una
caduta all’ultimo gradino è probabile e anzi certa. È come trovarsi in un sogno
che non vuole finire, di cui ormai il fondale di cartapesta è sfondato e
tuttavia si va avanti ad assistere a scenari vuoti senza potersi svegliare.
Con
Hegel
ci si trova davanti un’opera che è difficile definire del tutto riuscita. Non
che manchino momenti belli all’interno dell’album, non che manchi la poesia e sprazzi di genialità, ma si avverte una mancanza di urgenza nel comporre che invece era presente negli altri album.
Panella in più di
una intervista aveva fatto intendere che il giochino lo stava stancando.
Battisti invece avrebbe potuto continuare all’infinito a musicare versi
improbabili, pareva averci preso gusto all’appuntamento biennale. Panella
racconta di aver voluto, quasi, sabotare l’ultimo album fornendo testi sempre
più metricamente complicati, fregandosene del senso e della musicalità. Inserisce a piene mani concetti filosofici e voli pindarici e Battisti riesce
lo stesso, magistralmente, a musicarli, come se nulla fosse: ma il risultato,
secondo me, è inferiore alle aspettative.
Gli otto pezzi di Hegel sono, ancora più che nel
precedente CSAR, in bilico tra l'essere malriuscite ripetizioni di un gioco che
ormai mostra la corda e gli ultimi veri esperimenti di avanguardia novecentesca. In certi momenti è
veramente difficile capire se sia vera una cosa o l’altra.
Prendiamo ad esempio
il primo brano.
Pavimenti a
scacchiera illuminati da sotto, luci strobo, teste e arti oscillanti in varie
direzioni, tutte rigorosamente senza toccarsi, percussione alienante: così, con
una pista di discoteca anni Novanta comincia Almeno l’inizio.
Ci si immagina
facilmente ragazzi e ragazze post moderni intenti a sbaciucchiarsi nei
divanetti negli angoli e altri intenti ad agitarsi come statiche scimmie
urlatrici, mentre l’inconfondibile melodia battistiana, il sapore mediterraneo,
antico, fa ancora capolino sopra la techno, cantando cose assurde e facendo
vacillare le strutture di pensiero.
Il testo di Panella
si inarca selvaggio come non mai sopra la base. Battisti a tratti sembra fare
fatica a stargli dietro. Fatica, è quello che viene in mente ascoltando il
pezzo.
Almeno l’inizio dell’album, si potrebbe dire,
rimanda in parte ai quattro precedenti.
C’è ancora la
Ragazza, pronta a giocare. Qui tutto si confonde, ogni verso ha ormai troppi significati per poter comunicare qualcosa. La
Ragazza si ritrova in “un bel posto” dove può rimirarsi tutta, assistere a sé
stessa che assiste a se stessa in gioco narcisista di auto contemplazioni.
Alla
fine ti trovasti in un bel posto
e lì
capisti perché t’erano stati chiesti gli occhi in prestito
per
il loro particolare colore,
fai
tu quale, che ora è l'iride delle finestre.
Alla
fine ti fu chiaro perché quel gran parlare
della
tua bella conchiglia auricolare e quel solleticare.
Eccoli
i padiglioni i disimpegni, la chiocciola , i vestiboli, ecco la stanza.
E tu
entrasti perché c'era tutto
e
tutto a oltranza i tuoi comportamenti e le reazioni
le
tue belle presenze e gli abbandoni,
le
carezze in cambio delle tue carezze
e le
scontrosità, le irritazioni.
C'era
anche qualcuno che ti diceva “è tardi
dobbiamo
andare”.
E tu
dicevi. “No io voglio ancora,
ancora
io mi voglio, mi voglio rivedere,
e se
non tutta almeno l'inizio”.
Che
cosa avresti fatto per sentirti un po' più sola,
e per
dolcemente navigare sul dorso, sul tuo petto
e
fare una capriola che ribaltasse il cielo.
Lì
c'eran tutti predisposti i baci asciutti
e
meno e tutti i desideri
e le
istintive applicazioni di te
erano
montate ad arte accanto al tuo profilo
vicino
a ogni tua parte.
E tu
dicevi ancora un altro poco
e se
non tutto almeno un po' d'inizio.
Fare
si può fare ed anche disfare ma è un'impalcatura.
Dipende
da chi sopra ci sale. E tu dicevi ancora un poco
e se
non tutto e se non tutto almeno l'inizio.
E tu
una volta su, osservi la tua stanza.
Tu la
tua nella quale oltre il disfare e il fare
si
delineano cose appena, appena verosimili.
Più volte
nell’album verranno nominate le “stanze”, la “stanza”: figura principe del
discorso poetico. Il testo, tra le altre interpretazioni, potrebbe anche
raffigurare la Poesia che discute di sé stessa. La metafora del discorso
poetico come Ragazza che si vuole divertire a oltranza che vuole ancora e
ancora e ancora come in un amplesso, vuole tutto dall’inizio, capriccio
infantile e ostinata follia. Una glaciale ninfomania percorre il pezzo.
La title track, Hegel, ha una struttura più lineare. La
musica è bene amalgamata con un testo
che unisce mirabilmente i ricordi di un amore dei tempi universitari con alcuni
concetti della filosofia hegeliana. La coscienza di sé nasce riflettendosi
nello sguardo dell’altro. La dialettica delle relazioni stabilisce chi è servo
e chi è padrone, entrambi marmorizzati, codificati per sempre quando i ruoli
diventano fissi.
L’amore è lotta che
sancisce un noi dove c’erano io e tu, fino alla prossima separazione.
Chi
di noi il governato e chi il governatore.
Son
fatti che attengono alla storia
chi
fosse la provincia e chi l'impero
non è
il punto.
Il
punto era l'incendio.
Erano
gli esercizi obbligatori estetici
le
occhiate di traverso e tu guardavi indietro
c'eravamo
capiti, capiti all'inverso.
Ci
diventammo leciti per questo.
D'altronde
d'altro canto,
a
volte essere nemici facilita.
Piacersi
è così inutile.
Un
bacio dai bei modi grossolani
sfuggì
come uno schiaffo senza mani.
Talmente
precisi ci si rese conto
d’essere
un allegoria soltanto quando
ci
capitò di dire indicando il soffitto col naso
di
dire "noi due" e ci marmorizzammo.
La
corda tesa a mo’ d'arco e la tempesta, la schiuma.
Il
cuore amò se stesso ma noi non divagammo.
L'animo
umano è nulla se non è
una
pietra da scalfire ricavando
i
capelli e il suo bel piede.
Era
la collisione, il primo scontro epico
perché
non scritto ma cavalcato a pelo
ed
ognuno esigeva la terra dell'altro
le
mani, la terra, la carne e il terreno.
Questo è uno dei
brani più belli di un album difficile ai limiti dell’aridità.
Tubinga è un altro pezzo dance sui generis. Qui
Battisti ritrova quella padronanza di testo e musica che sembrava avere perso nel
primo brano, lanciandosi in una ridda di metriche iperboliche perfettamente
incastrate nella melodia.
Tubinga è il luogo ideale dove il flusso
mortifero della merce non può raggiungere chi vuole essere risparmiato dall’ essere testimone antico e recente
delle
istruzioni lette attentamente.
Non
un tasto in comune, non un percorso
passando
per “B” e “C” dalla “A” alla “D”.
Non
un cablaggio, non una connessione.
Non
la contemplazione, nemmeno l'esperienza.
Ma
una delicata leggera confusione,
perché
mi sfugga come una stoltezza
l'invocazione
a te mio generale, mia generalessa.
I concetti ruotano velocissimi attorno ai
concetti. In pochi versi si descrive il dissolversi di ogni identità, “parlandoti di me, ti dirò egli”; il
concetto che al posto del carattere ci siano eventi esterni che plasmano
individui, ormai identificabili solo con deliri. Non c’è più io o tu, c’è
quello che consumiamo.
Il fulcro del brano viene sottolineato da
un cambio di tonalità: la musica si alza di un semitono quando viene rivelato
che “E al posto di cose ci sono le cose,
poniamo le cose, esaurite le stesse. E dopo le stesse mettiamo le cose se le
medesime vanno esaurendo”.
Il divenire eracliteo al tempo del
discount.
Ma al di sotto, la natura, tacita, segue il
suo corso.
Ahi!
c'è qualcosa che cade e una cosa sta su.
Ahi!
c'è del chiaro e del bruno c'è.
C'è
una cosa chiusa in sé, fa un rumore un po' tacito.
Sembrerebbe
il sussurro dell'acqua.
Ahi!
c'è qualcosa che odora, una, profumo non ha.
Ahi!
c'è del grande e del piccolo.
Una
c'è fintantoché ce n'è un'altra che mormora.
Sembrerebbe
il sussurro dell'acqua.
Ahi,
c'è qualcosa che chiude. Una schiude, una resta dov'è.
C'è
dell'asciutto e dell'umido nelle cose cosicché piatte l'une altre ripide.
Sembrerebbe
sussurro dell'acqua.
Fuori dal clamore, la vita ha il rumore
dell’acqua.
La bellezza riunita è un brano “apollineo” dopo
il turbinare “dionisiaco” di Almeno
l’inizio e Tubinga. Tutto l’album
potrebbe quasi dividersi in pezzi apollinei e pezzi dionisiaci. Hegel ricerca
le proporzioni nel non detto, le triadi perfette tesi antitesi sintesi. Ne La bellezza riunita musica e testo sono
contemplazione pura, con ritmi dance più lenti.
La bellezza, divenendo
consapevole di sé, si erge sopra la natura umana, increata: un omaggio alla
filosofia greca sotto forma di canzone quasi
d’amore.
Melodie battistiane
al servizio della Venere di Milo o di qualche Naiade,vestite ma rivelatrici.
Mi
apparisti vestita e più carpita da me, più che tu non lo fossi.
Misurarti
la vita mi pare proprio che sia tutto quello che posso.
La
bellezza riunita ha più difesa di sé mi dicesti "sospira".
Come
chi si ritrae con il dito chiedendo silenzio
la
totale pienezza di te.
Dal
mio braccio destro si disincagliava e calava nell'ansa
del
sinistro mista alle piegature e declinava.
Di
te, in te stessa l'attività assoluta.
Era
una lotta contro la natura che è dimessa al vento, succube alla furia.
Ma tu
non soccombevi eri impennata sulla tua forma finita e creata.
E la
tua finitezza superavi sapendo di te stessa
non
solo di convessa, di concava, di cava, umana pelle umana.
E la
realtà finiva e il vero cominciava.
Certo
imbruniva, ma imbruniva fuori.
All'interno
i colori erano luci spente umiliati dalla tua bocca ponente.
Dopo
un po' si vedeva, soltanto quello che può perdonare la vista.
E
scoprire le gambe, fu qui la tua miglioria per distinguere meglio.
Ogni
tuo gesto è compreso in tutto quello che sa di te stessa quel gesto.
La
moda nel respiro ha una struttura originale. Dopo una breve introduzione in minore,
quasi un preambolo che illustra efficacemente che chi teme la moda è immerso in essa comunque e d'essa intriso come un
cardo dal gambo reciso, passa a un misteriosissimo tema totalmente nuovo,
che dura per la maggior parte del pezzo. Questo nuovo pezzo nel pezzo, alterna
frasi normali e in falsetto e finisce con lo spalancarsi del minore in
maggiore, riproducendo un effetto già usato in A portata di mano.
E misterioso è
veramente tutto il brano, uno dei più affascinanti dell’album. Qui siamo oltre
il leopardiano dialogo tra la moda e la morte. Qui la moda non è semplicemente
l’immagine della caducità, ma riproduzione di qualcosa di già morto, una non –
vita che respira che si trascina di anno in anno, nel vestire, nel pensare, nel
non esserci. Freddo svolazzo apollineo.
Dici
la via di mezzo ecco la via, quella percorsa dai ragazzi alteri
che
vanno a divertirsi nei misteri, spiegabili perché non intralciati
dai
cupi sedimenti dei passati.
Mi
dici il mezzo giro, quello che va di moda dei tuoi fianchi,
gli
occhi totali, come elianti, la spossatezza semplice formale
ed un
rilassamento collegiale.
Come
se intorno a noi, in curvi corridoi i disciplinatori,
le
studentesse e gli studenti rapinatori del momento d'oro,
consumassero
un lusso di moine un rimandare sempre all'anno dopo
frenetici
in un ballo senza scopo.
Noi
nella stanza accanto, e la moda cambiava nel respiro,
il
nostro che cambiava ogni tanto.
Noi nella stanza
accanto: ecco ancora la stanza, il luogo più riposto, il luogo poetico, dove
giace l’autentico che varia poco rispetto alle mode. Fuori dalla stanza, tutti
ballano frenetici un ballo senza scopo.
Stanza, stanze è, come si è già notato,
vocabolo ricorrente in questo album. Qui la stanza c’è già nel titolo. Stanze come questa è una cavalcata
anacronistica e metaforica, dal ritmo incalzante fatto da una chitarra
sgangherata assorbita in mezzo all’elettronica: una fuga negli anni Sessanta
attraverso il buio degli anni Novanta. Potrebbe essere una canzone d’amore,
utilizzata con i detriti linguistici de I
ritorni. Ma qui è passato troppo tempo e ogni ritorno è impossibile. Qui si cavalca
sopra “carrozze anacronistiche” trainate dal cuore “roano”. Qui si trovano solo
“stanze come questa”, un posto al mondo dove non c’è fuga.
In compenso l’occhio del poeta oltrepassa
la curvatura del mondo: Ho visto la tua
nuca ad Alessandria e poi me lo racconti se ci sei mai stata, se ti senti, ti
sentivi osservata. E le frontiere sono “fatte di due righe.” La Ragazza si
perde per strada.
Un vero e proprio Finale di partita sotto forma di canzonetta. Pare di vedere
Battisti nei panni di Hamm e Panella nei panni di Clov, presi a creare “teneri
sofismi, cavilli di permessi, arzigogoli tropismi, nella nostra direzione”.
Il
posto è qui.
E'
qui quel lavorio dell'erba simile al pensiero
che
contiene nel vello quell'orma del tuo corpo
ed
uno stelo sconvolto.
Dal
tuo gomito che avrebbe dimenticato d'essere carnale
per
non dimenticarlo in generale.
Qui
si incavano senza corpi a pesare
le
nostre impronte a muoversi a sedere.
Vedi
là, vedi là.
E gli
occhi saltano come chiaro e pupilla capinere.
Ci sono
posti al mondo dai quali non c'è fuga.
Stanze
come questa nelle quali restano le nostre rappresentanze,
i
nostri uffici doganali.
Dove
noi veramente, ci impieghiamo
avviluppati
in teneri sofismi, cavilli di permessi,
arzigogoli
tropismi, nella nostra direzione.
Una
frontiera fatta di due righe.
E
bastavano le dita di una sola mano mandata avanti
in
viaggio all'altra le farà da testimone.
Si
può vedere tutto e fermamente se di due righe è fatta
facciamo
la frontiera, dove passa fauna e flora straniera.
Il testo di Estetica è struggente, fatto di
immagini sovrapposte che passano dall’onirico al ricordo di gioventù, dal
filosofico all’amorevole, senza soluzione di continuità. Il titolo pare fare effettivamente
riferimento alla filosofia di Hegel, nella quale l’arte viene gradualmente
soppiantata dal concetto e il Bello affoga nell’Assoluto manifestato. Lo scopo esplicito
di molta avanguardia è di arrivare a un’arte che dissolva finalmente l’arte
stessa. Non a caso il surrealista Breton, come pure Bataille, da un altro punto
di vista, si rifacevano ad Hegel. Qui Panella rivela se stesso come erede dei
surrealisti dicendo che l’arte in fondo non esiste, se non come soffio, come
vapore.
In questo senso Hegel, l’album, concepito alla fine del
XX secolo, chiude il cerchio aperto novant’anni prima.
Eppure, come capita
spesso quando si vuole rinnegare l’arte, essa fa capolino, bel cristallo apollineo. Il pezzo è uno dei più intensi dell’album, magnificamente strutturato da Battisti. Testo e musica sono
un tutt’uno come negli album bianchi precedenti. Basterebbe notare come
Battisti riesce a variare le apparizioni dei due che “ridono per l’aneddoto”.
Rimane anche, dopotutto, nel pezzo, il
ricordo di un amore di gioventù. C’è anche una stupendamente hegeliana descrizione
degli amanti addormentati che sono la
viva immagine di una distilleria abusiva che goccia a goccia secerne puro
spirito.
È un brano di puro raccoglimento, prima del
salto nel vuoto del brano successivo.
Noi
dietro una colonna ridevamo per l'aneddoto
e ci
contrastavamo amabilmente
su
aria, fiato e facoltà vitale, su brio d'intelligenza, sull'indole e sull'estro,
soffio,
refolo, vento e venticello. Sull'essenza e sulla soluzione,
sul
volatile e sulla proporzione, sul naturale e sul denaturato.
E poi
sulla fortuna. La fortuna non c'entra,
quando
una cosa per terra si posa.
E
vale sia per l'estetica che per l'allodola.
E lui
continuava a ritrattare. A ritrattare, quindi.
E la
reale e doppia fisionomia nostra
spariva
via, come una coppia annoiata di visitatori da una mostra.
Noi
dietro le sue spalle, ridevamo per l'aneddoto,
mimetico,
drammatico, faceto, ditirambico.
E ci
contrastavamo amabilmente, su verde, rosa e viola del pensiero,
su
mente giudicante, su lampo e riflessione
e sul
limpido e il cupo e il commovente,
su
coscienza e su allucinazione, sulla celebre cena e gli invitati.
Colori
che divorano colori.
Se lo
spirito s'eccita per caso esilarando
oppure
ardendo bruciando bruciando.
E chi
dei due, ha le parti fredde cercando le tue.
Eccoci alla fine
del viaggio. Dopo tante avventure, è il caso di dirlo, si arriva alla
folgorazione elettrica de La voce del
viso. Qui Battisti canta quasi completamente in falsetto, senza
praticamente respirare, una musica techno sparata fortissima, alternata a una
sezione che richiama una canzoncina infantile. È uno scherzo. Si arriva a
pensare che Battisti non può aver chiuso così la sua carriera e in un certo
senso la sua vita, e invece l’ha fatto. Come uno scherzo.
Battisti ha scelto
di musicare come un videogame uno dei testi più complicati e realmente
filosofici di tutta la produzione panelliana, per lo meno nei cinque bianchi.
Il perché di questa
scelta, naturalmente non avrà mai risposta. Si può solo intuire che questo
gioco portato all’estremo ha liberato la tensione infinita di andare oltre la
musica e il linguaggio, fino ad arrivare a quanto c’è di più vicino alla muta voce
del viso, cioè un vuoto gioco elettronico. La soluzione al mistero dei cinque
bianchi è dunque qualcosa di cui ridere, come si ride certe volte nei sogni,
per cose che nella realtà non provocherebbero la minima reazione. Alla fine di
tutto c’è il videogame, la sigla dei cartoni animati, lo sberleffo alla disco
anni Settanta e alla techno anni Novanta. Battisti si è incarnato in uno dei
Bee Gees per proclamare la fine della canzone italiana. Dopo La voce del viso, tutta l’infinita e
(in)famosa serie delle canzoncine pop è illuminata da una luce cruda e la si
vede per quello che è: una danza idiota di zombie, protratta anno dopo anno.
Battisti ha detto
la sua. La canzone ha esaurito il suo compito. Il gioco è finito.
Panella si sgancia
e se ne va per altri lidi, i cinque bianchi rimangono soli, dopo aver compiuto
la propria enorme parabola. Dopo il videogame, dopo la corsa elettronica forsennata
degli sparatutto che mirano al viso umano, sul quale ci si vede intraducibile l'estraneità al lavoro, può esserci solo il
silenzio.
Anche Battisti si
muove, non si sa se consapevolmente, verso la fine.
Panella proclama in
spirali vorticose di metafore che il viso umano è l’unica vera forma di
espressione dell’essere, al di là di ogni linguaggio e di ogni conoscenza.
Il
corpo contentando il senso della nutrizione
il
viso l'ascensione, l'assorbenza dell'inappetenza
perché
un bel volto è bello se lo si può guardare
è un
disimparare del mondo questo e quello.
Così
ci si innamora di un viso in cui l'estraneità lavora.
Il
corpo segue come un testimone casalingo e familiare
e di
questa apparizione in su la cima.
È una “orgetta e
leccornia” quella del viso che appare e scompare dalla memoria, unico frammento
parlante. I cinque bianchi sono iniziati con "le cose che pensano" e finiscono
con il viso umano, l'io nel quale è riflesso tutto ciò che è oltre il linguaggio stesso.
Quest'opera
sensibile il tuo volto che si manifesta ed è
oltre
all'ordine della natura, e come tutti i portenti tende a scomparire
più
cerchi di tenerlo a mente e nelle spire dei ritrovamenti portentosi.
E la
voce del viso allora nemmeno ricorre ai miracoli
non
un riso, un pianto non una smorfia, densa d'oracoli.
Ma dà
senso quella voce a un solo volto che sotto il mio
rotola
si ferma e freme alle mie mani preme
perché
lo riporti in cima, in vetta al suo sistema dei piaceri.
Secondo
un canone, un precetto ed una disciplina
che
inumidisce i capelli e per discrezione stende un velo di malore sulla pelle.
Ti
spadroneggia allora il tuo godìo disincantato in quanto più è restìo
al
racconto lenitivo, al riassunto giulivo.
E non
è riso appunto.
E non
è pianto il tuo perché racconto è il riso e pianto il suo riassunto.
Sul
viso la sintassi non ha imperio, non ha nessun comando.
Le cose pensano, il
viso parla, tutto il linguaggio svanisce in un bianco nulla.
Allora, premesso che scrivi bene e complimenti etc. etc.
RispondiEliminaGRAZIE per avermi fatto da Lonely Planet (vabbé, odi (in ambo i sensi) il consumismo come me, però ogni tanto te piace) su questi 5 bianconi... stavo finalmente sistemando la discografia "all digital" di Battisti (tutto su HD in FLAC ove possibile) e confesso avrei ignorato il periodo Panella... anche perché il disco di mezzo ("E già") lo trovo alquanto indigesto se non per un paio di tracks... ma era come dire una "prova generale" secondo me. Infatti poi metto "Le cose che pensano" giusto per sentire la qualità audio... e.... "ma questo è Minghi!" (anticipato di 20 anni of course). Poi metto altri brani e... ogni volta mi accorgevo che più di qualcuno ha scopiazzato dai bistrattati bianconi! Allora Googlo Panella/Battisti ed eccomi qua.
Un suggerimento: sarebbe bella un'aggiunta critica su almeno un paio di inediti, tra cui la splendida "Il Gabbianone" (x Don Giovanni) che ha una musicalità da paura! Così come "Il bell'addio" e "La pace" (x L'apparenza).
Spero accoglierai questi suggerimenti, comunque grazie ancora! (Io farei anche un PDF di tutta la tua analisi critica e lo metterei downloadabile, perché merita un "capitolo a parte", veramente!)
Ciao,
bruno
Ottimo articolo, per un grande uomo. Comunque è "madore", non "malore". :-)
RispondiElimina
RispondiEliminai couldn't believe that i would ever be re-unite with my ex-lover, i was so traumatize staying all alone with no body to stay by me and to be with me, but i was so lucky one certain day to meet this powerful spell caster Dr Akhere,after telling him about my situation he did everything humanly possible to see that my lover come back to me,indeed after casting the spell my ex-lover came back to me less than 48 hours,my ex-lover came back begging me that he will never leave me again,3 months later we got engaged and married,if you are having this same situation just contact Dr Akhere on his email: AKHERETEMPLE@gmail.com thanks very much sir for restoring my ex-lover back to me,his email: AKHERETEMPLE@gmail.com or call/whatsapp:+2349057261346
i couldn't believe that i would ever be re-unite with my ex-lover, i was so traumatize staying all alone with no body to stay by me and to be with me, but i was so lucky one certain day to meet this powerful spell caster Dr Akhere,after telling him about my situation he did everything humanly possible to see that my lover come back to me,indeed after casting the spell my ex-lover came back to me less than 48 hours,my ex-lover came back begging me that he will never leave me again,3 months later we got engaged and married,if you are having this same situation just contact Dr Akhere on his email: AKHERETEMPLE@gmail.com thanks very much sir for restoring my ex-lover back to me,his email: AKHERETEMPLE@gmail.com or call/whatsapp:+2349057261346
una montagna di scemenze. Almeno l'inizio e' un capolavoro geniale.. e la stanza e' un tipo di componimento rinascimentle, e sono in genere quattro nella cosidetta Ballata... insomma giudizi volgari che martorizzano la composizione di Panella...
RispondiElimina