Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

mercoledì 17 dicembre 2014

Pensieri nani 13



Benigni è un cialtrone e pure in malafede, secondo me. Se invece di fare lo pseudo francescano del cazzo, avesse avuto il coraggio di tentare una reale esegesi dei dieci comandamenti e dell'Antico Testamento in generale, con tutto il corollario di falsità, bubbole e massacri che esso comporta, gli avrebbero stroncato la carriera, ma almeno avrebbe potuto ergersi come uomo in mezzo a quel branco di scimmie in preda a allucinazione religiosa che è, in linea di massima, il popolo televisivo italiano.
Da vomitare.
Che ci si può aspettare da un paese che ascolta in massa un ridicolo guitto farneticare dei Dieci comandamenti? Nulla. È un paese morto, ormai. Passiamo, se volete, al dibattito.

Sempre in tema di celebrazioni del nulla, poco più di vent'anni fa, il 30 novembre 1994, si suicidava Guy Debord. Alcolista, personaggio inafferabile e in buona parte inafferrato, ha avuto il buon gusto di togliersi di mezzo prima di vedersi utilizzato da un sistema che aveva combattuto.

Debord malato di nostalgia della perduta Parigi della sua giovinezza. Il Situazionismo visto come lotta naif contro la burocratizzazione dell’ecumene. È giusto che sia così, in un certo senso. Man mano che si va avanti ogni cosa trova il suo posto. Ogni illusione si manifesta per quello che è, e la vita diventa più leggera. Sono ormai lontani i tempi in cui si poteva credere e sperare in un cambiamento sociale di tipo collettivo e utopico.
Chi ci ha creduto è nel regno dei morti, adesso.


Tutta la società umana è disfunzionale.
Ormai si vive di rimedi, non di strutture solide. Tutto è divenuto una folle corsa alla guarigione. Siamo una folla di incurabili.
Ormai ci consoliamo con i complotti. Non ci capacitiamo che tutto questo casino è frutto soltanto del caso e della stupidità.
Dobbiamo rinascere, come crisalidi. Il problema è che stiamo esaurendo le sostanze nutritive contenute nel bozzolo. Rischiamo di morire prima di uscirne fuori.
Cosa saremo?

Rivisto Enter the Void di Gaspar Noe. Geniale.
Mi erano piaciuti tantissimo anche Carne e Seul contre tous. Mi piace l’assoluta, voluta, divertita esagerazione con la quale Noe scardina tutto il comune sentire. Dalla pedofilia alla pornografia, tutto è vivibile sullo stesso piano, poiché tutto è inganno.
Mi piace questo regista, mi piace il fatto che se ne sbatta i coglioni di tutto e faccia esattamente quello che vuole, ridendosene delle critiche negative. Addirittura stupendosi allegramente se nessuno fischia alle sue prime.
Capolavoro assoluto di visione, Enter the Void è stupore glaciale e solitudine esistenziale. La vita e la morte secondo il Bardo Thodol negli anni Duemila. La vita è diventata dimensione irraggiungibile. Unica salvezza reincarnarsi nel grembo della propria madre. Illusione o verità, non contano. Nell’apparenza della vita, conta solo la carne, una carne qualsiasi.

Si dice che gli uomini sognino di tornare nell’utero materno a coronamento dei propri desideri di nirvana amniotico. Io non credo di desiderarlo, io voglio scappare a gambe levate dall’utero e essere fino in fondo un ragazzaccio bastardo che sfida a sputi gli dei.

 Il mondo è pieno di gente che la sa lunga. Io non voglio mai saperla lunga. Amo stupirmi.
Amo accogliere in me le visioni.

È sempre e solo il corpo che trionfa, anche nella sua disfatta.

 Una volta di più mi convinco che le opinioni avvelenano l’anima. Se si riesce a innalzarsi sopra di tutte le opinioni, si incontra la poesia.

 Tutto è Piacere e Dolore, Amore e Morte, fino all’ultimo tempo del film. Poi c’è il nero dello schermo. Quello che avviene dopo è un lungo dibattito sull’oblio e relative ricette.

 L’incredibile somma di tutti gli anni in cui non c’eravamo e quelli in cui non ci saremo più, fa scattare una strana forma di sgomento. L’aria intorno si mette persino a vibrare.
Non può essere, ti dici. È proprio così, infatti: non può essere.

 Ci può essere una terza via oltre la cretina affermazione di sé e il totale assorbimento dell’io nell’alveo dell’essere? C’è una alternativa tra il nirvana e il vitalismo osceno?
In altre parole, in che modo proseguire il cammino dopo la morte di Dio, senza doverne per forza resuscitare dei simulacri?

In fondo sono tutte questioni poco interessanti. È molto più interessante il culo di quella ragazza che è passata poco fa davanti a queste vetrate. Forse in questo c’è contenuta la risposta. Sì, vogliamo l’eternità, no, non la vogliamo.
 
Il vero cambiamento è accorgersi che si può essere felici solo sull’orlo di un burrone e che non c’è niente di tragico in questo.

venerdì 5 dicembre 2014

L'essenza del desiderio





Godard definiva questa inquadratura "la più triste di tutta la storia del cinema".
Io in verità non ci trovo tristezza. Ci trovo il più erotico e seducente sguardo mai dato a un povero spettatore dell'esistenza. Essere guardato così, come si guarda chi ti vuole trovare. E nel trovarti vuole che tu ti perda, senza più io né tu. Smarrito ogni confine. Essere guardato così, come celebrare un appuntamento con l'essenza del desiderio.
Essere guardato così, è il senso della vita.

giovedì 20 novembre 2014

Pensieri nani 12



Oggi uscivo dalla metropolitana in preda ai miei soliti malesseri quando mi ha affiancato un barbone o comunque uno dei tanti reduci da qualche reparto psichiatrico post Basaglia che guardandomi mi ha sussurrato due o tre volte “Siamo quasi arrivati”.  L’ho ringraziato per la solidarietà e ho sentito un brivido lungo la schiena.

 La teodicea è una forma di autismo.

 L’idea dell’aldilà mi sembra addirittura un eccesso di zelo nei confronti delle nostre abitudini. Non possiamo fare a meno di considerarci indispensabili.

 Oggi pensavo al concetto di pompino. Ho visto con gli occhi della mente una donna che si adoperava a succhiarmi quell’appendice così importante per la struttura psichica del maschio e ho pensato che era veramente una cosa ridicola, come pure ridicolo è tutto l’atto sessuale, con le nostre appendici e i nostri buchi e tutto questo fremere che sembra così decisivo ma non è nulla di più di qualche scarica elettrica. Siamo l’ottativo dei girini che si agitano in uno stagno.

 Vorrei solo …

 Sono stupefatto da questa esistenza. Da come si è svolta. Di cosa consiste. Bisogna agire alla luce del sole. La luce del sole è tutto: ma senza esagerazioni.

 Il romanzo nasce dall’impossibilità di smettere di (non) rispondere alla domanda: che cosa significa vivere la vita di un essere umano?

Le piogge continue hanno sputtanato la centrale del teleriscaldamento A2A della mia zona. Risultato: tre giorni senza riscaldamento, né tele, né altro. In più, la doccia non manda acqua calda. Idraulico che va e viene. Diagnosi e prognosi incerte.
Benvenuti negli anni Dieci.

 Polemiche. B. sta sulle palle a  C. perché non è abbastanza simile ad A. che però nelle sue motivazioni tende sempre a dimenticare le ragioni di D. che è così vicino alle ragioni di E., cui gli interessi in comune con A. non posso certo essere dimenticati. Il passato di F. getta cattiva luce sulle sue connivenze con C. che si difende puntando il dito su D. e le marchette fatte quando lavorava per conto di E. In tutto questo B. cerca di districarsi lasciando scontenti tutti, in primo luogo E. che non dimentica i favori ricevuti quando A. era al potere. F. a questo punto passa all’attacco provocando perfino le ire di H. fino a quel momento tenutosi fuori da ogni disputa. A. si infuria rivangando le antiche connivenze di H. con B., C., D. e perfino E.  F. si incazza perché si sente escluso. Giunti al culmine della contesa interviene Z. cui tutti si inchinano, anche B., pur con qualche pacato distinguo.
C. invita B. a prendere un caffè. Ci sarà anche F. Parleranno male, sottovoce, di Z.

 Umberto Veronesi ha affermato che il cancro e Auschwitz sono, secondo lui, la prova che Dio non esiste. Il pensiero in sé non è eccessivamente originale (qualcosa del genere l’aveva detta Primo Levi negli anni 70) ma ha scatenato polemiche a non finire sui giornali on line. Male incolse il Veronesi che si è dovuto buscare una contro risposta da quell’ineffabile genio di Zichichi. E va bene, ci sta pure che il testimonial della Teiera Volante e dello Spaghetto del supermondo difenda il suo sponsor.
Quello che fa tristezza è la valanga di commenti insultanti indirizzati a Veronesi da parte del popolo del web, sui vari giornali on line. Su centinaia di commenti un buon 70 % erano di insulti al vecchio professore che si era permesso di negare l’esistenza del Buon Dio che manda il cancro ai bambini.
Il livello dei commenti era da licenza media scarsa. Gli argomenti addotti per confutare il povero Veronesi andavano dal “sentito dire” a citazioni a cazzo di cane della Bibbia.
Insomma, una vera e propria giungla di idiozie nelle quali si rischiava di impantanarsi per non riprendersi più.
Se il prof Veronesi avesse fatto queste dichiarazioni in Gran Bretagna, se ne sarebbero fregati. Se le avesse fatte in Francia, ancora di più. Negli Usa avrebbe rischiato il linciaggio mediatico. In Iran l’avrebbero forse imprigionato. In Arabia Saudita impiccato. In qualunque paese del Sudamerica avrebbero fatto come in Italia, dove è stato ricoperto di merda.
Questo la dice lunga sul nostro livello. A livello culturale siamo poco sopra l’Iran e alla pari con il Sudamerica. Consoliamoci: nonostante il Vaticano in casa, tutto sommato siamo più tolleranti che negli Stati Uniti.
Prospetto una simpatica guerra di religione combattuta da imbecilli con lo smartphone, la mannaia o il crocifisso, che mentre uccidono gli sporchi atei mandano preghiere per i loro bambini malati, al Dio che da sempre continua a non ascoltarli, forse perché, come suggerisce Veronesi, è improbabile che ci sia. Ma non ditelo a Zichichi.

venerdì 14 novembre 2014

Un buco con la realtà intorno



Perché mi sto interessando al cosiddetto Realismo Speculativo?

Per farla un po’ finita con gli esistenzialismi, le fenomenologie, gli idealismi e le pippe mentali francesi. Perché, devo ammetterlo, mi affascina la tenebrosa atmosfera nordica, i cieli plumbei e le belle ragazze dalla pelle bianca. In altre parole, mi accosto al RS perché mi sarebbe piaciuto essere inglese o norvegese e comunque mi piacciono le nordiche.

Dal punto di vista filosofico (al di là degli scherzi), mi affascina poter pensare qualcosa che è aldilà del pensiero stesso, la realtà. Il vero aldilà esiste e non c’è bisogno di cercarlo dopo la morte. Esso è prima e dopo di essa. Esso è ciò che continua mentre i fenomeni appaiono e svaniscono e anzi, esso è l’infinito oltre che ci guarda da fuori.

Le filosofie monolitiche, dialettiche, sono noiose, antropocentriche. Dentro il nostro cosmo protetto, non facciamo che passare da uno specchio all’altro. Può darsi che non sia possibile sfuggire al perimetro della nostra mente ma sappiamo che qualcosa là fuori, esiste. Per sempre. E non è Dio. È la Realtà. Forse è la sessa cosa.

Kant era attratto da Swedenborg e ne temeva la deriva visionaria. Il filosofo di Kőnisberg subiva la malia della cosmogonia del profeta pazzo. Ha cercato si sottrarvisi con un libretto intitolato Sogni di un visionario. Era affascinato dalla netta divisione tra terra e cielo, con il cielo visto come ottativo più bello della vita reale, una divina duplicazione, vera e propria fantascienza. Kant ha relegato in seguito tutto ciò nel regno del noumeno, inavvicinabile dominio degli angeli che sono uomini e non lo sono allo stesso tempo.

Kant ha cambiato la sua vita attraverso Swedenborg. Per paura di perdere la ragione egli ha creato la sua cosmogonia ordinata, priva di pazzia quanto più possibile. La storia del pensiero occidentale è, dal tempo di Kant, una storia di rimozioni.

A partire da Kant la prima cosa che è stata rimossa è stata la realtà, da allora semplicemente definita cosa in sé.  La cosa in sé è la chiave della comprensione. È la cosa in sé il problema e il fatto che non si possa toccarla, sentirla, pensarla, se non attraverso noi stessi. Abbiamo unito soggetto e oggetto in una cosa sola, sempre e comunque convinti della superiorità del soggetto. Ma è l’oggetto la chiave di tutto. Noi emergiamo dalla realtà degli oggetti, oggetti a nostra volta, con una particolare forma di cecità. Siamo un buco nel tessuto del mondo, fatto di percezioni. Siamo il buco. Un buco con la Realtà intorno.

Rendersene conto è il primo passo.

lunedì 20 ottobre 2014

Il Giovane favoloso



Il giovane favoloso è un bel film. Non è un film perfetto, ma la bellezza non sempre coincide con la perfezione. Di Martone mi era piaciuto molto anche Morte di un matematico napoletano. Non ho visto Noi credevamo, per il semplice motivo che non sono attratto dalle vicende risorgimentali, ma il minimo che si possa dire di Martone è che è un regista onesto, preciso e robusto.

Fare un film niente meno che sulla vita di Leopardi è un’impresa rischiosissima, vuoi per la fama del recanatese, vuoi per gli infiniti pregiudizi ormai inestricabili da tanta figura storica, vuoi perché l’agiografia, il sentimentalismo o il patetismo sono sempre in agguato.

Invece Martone è riuscito a fare un film sanguigno, materico, splendidamente moderno, sulla figura più splendidamente moderna della nostra a tratti risibile storia culturale.

Elio Germano ha incarnato in modo struggente la corporeità sognante di Giacomo: questo giovane sofferente, lucidissimo, disperato e così bruciante di desiderio. Si potevano quasi sentire gli odori del bosco, lo stallatico delle vecchie piazze: passeggiavamo anche noi assieme a Leopardi per il natio borgo selvaggio al crepuscolo, in attesa di un buio totale, colmo di stelle, non ancora offeso dalla luce elettrica. Respiravano a fatica con lui. Bravissimo Elio Germano.

La natura possente, la meschina società degli uomini, i favolosi spasimi dell’amore, subito ricacciati nel dolore di non essere corrisposti, la schifosa deformità, la malattia: tutto riprende la camera di Martone, senza inutili preziosismi, senza esagerazioni, senza omissioni. Onestà e pulizia, sobrietà e nobiltà, totale oblio di sé nella materia della natura e dei corpi: l’impresa, a mio parere è riuscita. Regia e cast sono impeccabili.

Martone è riuscito a rendere, quasi magicamente, lo spirito anti romantico di Leopardi, saldamente ancorato alla ragione, al materialismo illuminista. Per questo non guastano, anche se sono un po’spiazzanti (il rischio di arruffianarsi i "contemporanei" è sempre dietro l'angolo), gli inserti di musica elettronica e la voce che canta in inglese,alternati un meraviglioso Rossini.

Leopardi era un uomo che trascendeva il suo tempo. Tutto aveva visto, tutto aveva sentito, questo ragazzo, tutto aveva compreso di sé e dei suoi simili, della natura e dell’arte, della posizione ridicola dell'uomo nell'universo.

I dialoghi del film sono tutti basati su scritti di Leopardi e dei contemporanei. Nella realtà non sono avvenuti se non per lettera, ma l’invenzione cinematografica, d’altronde necessaria, rende scorrevole il tutto. Ogni frase pronunciata proviene da leopardi, dal suo pensiero, dalle sue emozioni.

Non trovo utile soffermarmi sugli eterni vizi degli italiani: la pigrizia, il conformismo, il bigottismo, sono gli stessi dei tempi di Giacomo, tuttalpiù coadiuvati da qualche tecnologia. Oggi i “pulcinelli” e i “baroni fottuti”, viaggiano in auto e diteggiano sugli smartphone, ma sono gli stessi, che, cialtroni e puzzolenti, molestavano il giovane per le strade di Napoli.  Oggi gli addetti alla cultura fanno i promoter, come allora, di chi possa raccontare ancora belle favole non troppo crudeli e possibilmente con un bel finale.

Oggi, come allora, rane granchi e topi schiamazzano e farneticano di “progresso”, “ripresa dei consumi”, “diritto al lavoro”, “modelli sostenibili”: il tutto, in mezzo allo sfascio che avanza. Il giovane Giacomo ne sarebbe atterrito e divertito fino alle lacrime.

 Il film ritrae molto bene la diversità di Leopardi: diverso nel corpo, diverso nell’anima. La sofferenza gli ha permesso di vedere il volto spaventoso (orrendo e favoloso a un tempo) del reale. L’isolamento culturale in cui egli ha vissuto, è tipico, ancora adesso, in Italia, nei confronti di chi ha qualcosa di veramente nuovo da dire.

Qualcosa di simile (pur nella differenza totale del contesto e dei temperamenti) è quello che è accaduto a Pasolini. La sua diversità, non solo sessuale, la sua basica disperazione lucida, lo rendeva una figura magari stimatissima ma priva di seguito, un caso isolato: nessuno come lui prima, nessuno come lui dopo. In questo Leopardi e Pasolini sono simili.

Non si poteva chiedere a Martone più di quello che ha dato: uno scorcio realistico su una grande anima alla ricerca della impossibile felicità nella bella e indifferente Italia.

Martone getta luce anche sul desiderio immenso di amore e di vita del giovane favoloso. L’amicizia con Ranieri, i possibili risvolti omosessuali (ma non dimentichiamoci che il concetto di amicizia nell’ottocento era un po’ diverso da quello di “compagni di bisboccia” che c’è adesso), tutto viene esplorato con realismo e senza dargli un’enfasi non necessaria.

Leopardi, nella sua sofferente vita, ha avuto nell’amicizia quello che gli era stato negato nell’amore. E proprio a Napoli, sotto il duplice segno della natura matrigna e dell’amicizia fraterna, egli concepisce la Ginestra, il suo Manifesto programmatico, tanto citato a destra e manca, quanto poco ascoltato.

La sala dove ho visto il film era gremita di gente di ogni età.

I commenti, all’uscita erano i soliti: “è un po’ lento”, poveretto”, però l’attore è bravo”, sì, però lui era troppo disperato”, “bello, ma la filosofia è un po’ troppo negativa”.

Insomma il destino di Leopardi continua anche adesso: la gente ne è attratta e respinta allo stesso tempo, oggi come nel 1830.  È come se si avesse oscuramente bisogno di Giacomo, il fratello saggio e sofferente, perché ci dica qualcosa che non vogliamo ascoltare, che non ascolteremo, ma che sappiamo ci farà bene: l’amara medicina del vero, la possibilità spaventosa, finalmente, di essere liberi sotto il cielo.

lunedì 13 ottobre 2014

L'ultimo messia di P. W. Zapffe




Questo saggio è disponibile in rete soltanto in un farraginoso e antiquato inglese (tradotto a sua volta non si sa quanto bene dal norvegese). Da qui, oltre che da una mia certa imperizia, nasce la poca scorrevolezza di alcuni periodi. Credo però che il senso generale si comprenda benissimo e trovo questo testo del 1933 straordinariamente attuale. Peter Wessel Zapffe, filosofo norvegese, scalatore, non è l'ultimo di una serie di “pensatori” che hanno avuto il coraggio o la mancanza di capacità auto illusorie, di scartare ogni facile soluzione, in un secolo come il XX che di facili e mortali soluzioni ne trovò tante, troppe. Non voglio parteggiare per una certa corrente filosofica “pessimista”, in quanto credo che “pessimismo” sia un termine abusato e fuorviante. Si tratta più che altro di realismo. Il realismo sta conoscendo una costante ma inarrestabile rinascita dopo essere stato soffocato da secoli di idealismo e soluzioni salvifiche marxiste, cattoliche e quant’altro. Pur non condividendo in toto la visione nichilista di Zapffe (se c'è una cosa che non ha bisogno di motivazioni è proprio la vita, secondo me), c'è qualcosa di stranamente consolante in queste pagine. Allegria di naugragi, come si dice.
Cos’è la realtà fuori dall’oggetto, fuori dalla condanna del kantismo dell’inaccessibilità del noumeno? Cosa ci spinge, cosa ci parla dentro? Da cosa scappiamo?

Cercare il reale credo sia il primo passo verso la maturità individuale, come pure di specie. E Dio solo sa (se esiste, naturalmente) quanto bisogno abbia l’uomo di diventare finalmente maturo. E Dio solo sa quanto siamo ancora lontani dall’esserlo. Giochiamo con le leve del mondo e ci pasticciamo dentro e l’immenso meccanismo ci si sta rivolgendo contro. È sotto gli occhi di tutti, ormai.

 L’ultimo Messia

Peter Wessel Zapffe

 I.

Una notte di un tempo remotissimo, un uomo si svegliò e vide se stesso. Vide che era nudo nell’immensità, senza patria nel suo stesso corpo. Tutte le cose si dissolvevano nel suo pensiero: meraviglia dopo meraviglia, orrore dopo orrore, tutto si svelava alla sua mente.

Anche la donna si svegliò e disse che era tempo di uccidere. Ed egli prese il suo arco e la freccia, frutto del connubio di spirito e mano e uscì sotto le stelle.

Mentre le bestie arrivavano presso la pozza d’acqua dove era solito aspettarle, egli non sentì più il balzo della tigre nel suo sangue, ma un grande salmo di fratellanza nel dolore tra tutti i viventi.

Quel giorno non fece ritorno con la preda e quando lo ritrovarono, la luna seguente, era seduto, morto, presso la pozza d’acqua.
II.

 Cos’era successo? Una breccia nella profonda unità della vita, un paradosso biologico, un abominio, un’esagerazione di portata disastrosa. La vita aveva superato il suo obiettivo, staccandosi via dal resto.

Una specie troppo pesantemente armata di uno spirito possente, era divenuta una minaccia per la propria salvezza. La sua arma era una spada senza elsa, una lama a doppio taglio che scinde ogni cosa: colui che la brandisce deve afferrare la spada e rivolgere il suo taglio contro di sé.

 Nonostante i suoi nuovi occhi, l’uomo era ancora radicato nella materia, la sua anima imbastita di essa e subordinata alle sue cieche leggi. Eppure egli poteva vedere la materia come estranea, comparare se stesso a tutti i fenomeni e sentire i propri processi vitali.

Egli torna alla natura come un ospite non invitato, invano stendendo le mani per implorare una riconciliazione con la propria fattrice: la natura non risponde più. Essa ha realizzato un miracolo con l’uomo ma non lo riconosce più. Egli ha perso diritto di residenza nell’universo, ha mangiato il frutto dell’Albero della Conoscenza ed è stato espulso dal Paradiso. Egli ha potere sul mondo ma lo maledice, avendolo preso in cambio dell’armonia della propria anima, della propria innocenza, dell’intima pace nelle braccia della vita.

 Così l’uomo rimane con le sue visioni, tradito dall’universo, tra stupore e paura.
Anche le bestie conoscono la paura, nelle tempeste, nelle zanne del leone.
Ma l’uomo conosce la paura della vita stessa, perfino del suo stesso essere.
La vita è per la bestia potenza, calore e gioco e lotta e rabbia e piegare il capo sotto la legge del più forte. Nelle bestie la paura è limitata al presente, nell’uomo diventa paura del mondo e disperazione.
Non appena il bambino compare sul fiume della vita, il ruggito della cascata della morte sale alto nella valle, sempre più vicino, a strappargli ogni gioia.
L’uomo appartiene alla terra, la quale respira come un grande polmone. Ogni volta che espira, la vita sgorga da tutti i suoi pori e si slancia verso il sole. Quando inspira, invece, un lamento di dissoluzione passa tra le moltitudini, e i corpi cadono a terra come grandine.
Non solo il proprio destino l’uomo vede: i cimiteri si spalancano sotto il suo sguardo, le lamentazioni dei dissolti millenni salgono verso di lui da quelle orribili forme decomposte, i sogni delle madri tornati polvere.
La cortina del futuro si solleva per rivelare un incubo di ripetizioni infinite, l’insensata dissipazione di materiale organico. La sofferenza di miliardi di umani fa il suo ingresso dentro di lui attraverso la porta della compassione; da tutto ciò che vede, sorge una risata che si burla di ogni richiesta di giustizia, di ogni principio ordinatore. Vede se stesso uscire dal grembo della madre, tende la sua mano nell’aria ed essa ha cinque diramazioni.
Da dove viene questo diabolico numero cinque e che cosa ha a che fare con la mia anima?
Egli non è più ovvio per se stesso. Tocca il proprio corpo con assoluto orrore: questo sei tu e fin qui puoi estenderti e non oltre.
Porto del cibo con me che ieri era un animale che poteva ancora correre per conto suo.
Lo mastico e diventa parte di me: allora, dove finisco io e dove inizio?
Tutte le cose sono incatenate insieme in cause ed effetti e tutto ciò che cerca di afferrare si dissolve prima che il pensiero lo comprenda. Presto comincia a scorgere le meccaniche anche nel suo ambiente, nel sorriso della sua amata. Alla fine, le caratteristiche di ogni cosa sono le sue. Niente esiste senza di lui, tutte linee convergono verso di lui, il mondo non è altro che uno spettrale eco della sua voce. Salta in piedi urlando a squarciagola, vorrebbe vomitare se stesso sulla terra insieme al suo impuro pasto; sente incombere la pazzia e vorrebbe darsi la morte prima di perderne la capacità.
Ma mentre soppesa l’imminente morte, ne afferra anche la natura e le cosmiche implicazioni. La sua immaginazione creativa costruisce nuove spaventose prospettive dietro la cortina della morte e vede che anche lì non c’è salvezza.
Adesso può discernere i contorni dei propri termini biologico - cosmici: egli è il prigioniero senza speranza dell’universo, destinato a prospettive ignote
Da quel momento è in uno stato di panico senza fine.

mercoledì 24 settembre 2014

Ooops, I did it again!



Mio dio, l’ho fatto ancora. Sono qui a digitare insensatezze giusto per vedere come va a finire, come se non lo sapessi già: come se non avessi già assaggiato il fiele, come se il tempo non fosse stato sprecato, le lacrime non fossero cadute, la lanterna non fosse finita nel pozzo.
Cosa resta? Tutto e niente.
Nulla da fare. Tocca ricominciare.

Ecco, è lei. Esce dall’ascensore e non si può dire che non abbia un suo qual modo di procedere maestoso su quei tacchi: diciamo una maestosità barcollante come di chi aspetta che qualcuno l’attacchi a un muro, le sollevi la gonna e glielo sbatta dentro a coronamento di una dura giornata di lavoro. Non c’è da fidarsi. Anche stavolta procederà spedita fuori dalle porte e svanirà nel pomeriggio velato di sempre.

Pensierini, pensierini. Aspettiamo tutti il giudizio universale sotto queste piramidi di noia.

 Uno di questi secoli, scriverò un compendio filosofico ai film di 007. Analizzando quelli, si arriva comprendere quasi perfettamente il divenire storico, sociale, politico e antropologico degli ultimi 50 anni. Non servono Baudrillard e Fukuyama, basta Bond, James Bond. E si vede pure più gnocca.

Pensare, non ce la faccio più e continuare ad andare avanti: ostinazione o mancanza di fantasia?

 Quest’agosto a Napoli, ho capito (non che ci volesse chissà quale mente) che la luce è tutto. Se a Milano ci fosse la luce che c’è a Napoli, persino lei (Milano) sembrerebbe bella.

 Mangiare un babà a un baracchino in via Toledo e commuoversi. Il senso della vita rivelato in un attimo.

 A Napoli, tutti (e dico tutti) i motociclisti che ho visto avevano il casco: lo stesso a Sorrento, Meta, Vico Equense. Certo, non sono andato a Scampia, ma un giro per Forcella l’ho fatto. Viviamo di visioni eterodotte.

Una settimana fa ho perso il borsello con tutti i documenti sulla metro. Sono uscito in strada e mi sono accorto che il borsello era sparito. Ero in centro e non avevo nemmeno un centesimo in tasca. Ho dovuto farmela a piedi fino al lavoro (almeno quattro chilometri), riprendere la macchina, senza patente né libretto, persi anche quelli, e andare a fare tutte le denunce del caso.
Camminando per la città, ho provato per qualche ora il brivido sottile di non esistere. Basta poco. Niente documenti e niente soldi. Non hai scampo, a meno che non sei rom. No, quelli i soldi ce l’hanno. Una volta, in un supermercato ho visto una rom tirarsi fuori da sotto la gonna, un rotolo enorme di banconote, frutto di chissà quale abbondanza di elemosine o furti. Che c’entra, si dirà? Niente, forse. Se crollasse la civiltà loro (i rom) si salverebbero, noi ci metteremmo troppo a capire che è finita, l’identità ce la dobbiamo dare da soli: o fare senza, che è ancora più figo.
Tornare alla nudità dell’increato.
Passeggiare tra le rovine del Giardino senza un io, senza altro scopo che non sia quello di …

martedì 9 settembre 2014

Per noi figli della Rete



Sono fortunato a vivere nell’era di Internet. Negli ultimi quindici anni, ho potuto raccogliere informazioni e conoscenze, che mi sarebbe stato impossibile, o molto difficile, raggiungere, senza la rete. La mia gratitudine per questo mezzo è indiscutibile.

Il rovescio della medaglia è la perniciosa influenza, la subdola (almeno all’inizio: poi diventa evidentemente deleteria) dipendenza che dà la ricerca di continue informazioni, collegamenti, notizie, fonti, ecc.

Grazie a Internet puoi collegare tra loro cose distanti e trovarne i nessi sottili, puoi ampliare le tue percezioni della cosiddetta realtà, fino a pensare di esserti avvicinato ai bordi dello scibile umano. Si può raggiungere una enorme enciclopedizzazione dell’ecumene e sentirsi spinti ad andare ancora avanti.

Internet non è solo un ricettacolo di cazzate cosmiche, ma anche un eccezionale strumento di conoscenza.

Tutto questo è fantastico. Sai di essere tra quelli che usano Internet nel modo “giusto”. Tu cerchi cose, cerchi di sapere. Non ti accontenti di youporn. Tu utilizzi a buon fine il mezzo. Solo che a un certo punto ti trovi inghiottito dal sistema, senza neanche sapere come ci sei finito. Ti ritrovi a passare ore e ore e ore e ore della tua vita mortale a scivolare da una cosa all’altra, affidandoti unicamente a sottili associazioni d’idee. Il tempo passa, inesorabile, interi pomeriggi inghiottiti davanti allo schermo a cercare di afferrare qualcosa che, a poco a poco, ti accorgi di non potere mai cogliere interamente.

La tecnologia straordinaria, l’approccio alla conoscenza globale, si rivela un labirinto di Borges dal quale non riesci più a districarti. Cominci a pensare che potresti passare il resto della vita a cercare questo e questo e quest’altro e non arrivare mai da nessuna parte. Cominci a non capire più dove stai andando e perché cerchi quello che cerchi e che utilità può mai avere cercare stupidamente di sapere tutto. Cominci ad accorgerti che quelle poche o tante persone con cui interagisci (quasi tutte rigorosamente anonime, cioè con nickname) sono solo fantasmi che non incontrerai mai di persona e nemmeno vorresti farlo. Cominci a pensare a quanti contatti giornalieri ha il tuo blog, avvilirti se ne ha pochi, esaltarti se ne ha tanti, cominci a pensare che tutti parlano insieme, tutti parlano troppo, sussurrano, gridano, proclamano cose giuste, sbagliate, idiote, intelligenti, fondamentali o superficiali ma che hai smesso da un pezzo di riuscire a digerire, ad assimilare. Tutto sta trasformandosi in un brusio indistinto: a livello digestivo, un pastone immangiabile.

La tua ricerca si trasforma poco a poco in un persistente rumorio mentale che fa da sottofondo alle tue giornate, sovrapponendosi gradualmente alla realtà (qualunque cosa significhi questa parola) fuori dallo schermo.

 Ti accorgi di essere così abituato a rivolgerti a Internet per chiedere conferme di qualunque natura, che il volgerti all’esterno di te (Internet è un immenso cervello globale: come tale, anche se è grande come il pianeta, è chiuso in sé stesso. È un grande solipsismo planetario) ti pare persino strano.

Apparentemente fai la vita di prima, lavori, interagisci con amici e familiari, ma quel sottofondo continuo persiste. Ti accorgi di pensare, devo cercare quella cosa o postare

quell’altra, verificare questo o confutare quest’altro. Vivi contemporaneamente nel virtuale e nel reale. Niente di nuovo , in queste affermazioni, mi rendo conto. Ecco, questo è un altro problema. Il diluvio (letteralmente) di opinioni che ti bombardano quotidianamente, ti impediscono di pensare, di abbeverarti, per così dire, alla fonte originaria di te stesso, quella che sola ti può dare sollievo. Ti accorgi che la ricerca continua di qualcosa di originale da dire o da scoprire, è un vero e proprio attentato alla tua esistenza.

Cominci a renderti conto che per arrivare alla sapienza (qualunque cosa sia, e se esiste), ti devi sbarazzare del desiderio di informarti, studiare, verificare. Lo scibile è talmente vasto che, anche se fosse possibile accoglierlo tutto nel proprio cervello, farebbe poca o nessuna differenza, di fronte alla vita per quello che è.

Non parlo dei social network, che io non frequento. Immagino però che il concetto sia identico, anche se l’obiettivo non è la conoscenza, ma la più vasta possibile interazione sociale, che è già in sé una contraddizione in termini. Quanta più gente conosci, tanto meno puoi interagirci veramente. Il risultato è solitudine e stupidità, esattamente come chi ricerca la conoscenza.

Parrebbe proprio che, siano i fini perseguiti nobili o idioti, il risultato di un eccessivo uso di Internet sia solitudine e/o stupidità.

L’obiezione che si può porre è semplice ed evidente: è un fatto puramente individuale arrivare a questi punti. Come in tutte le cose anche Internet è una questione di moderazione, di sale in zucca, per così dire. Se sei una persona tendente alle ossessioni, sarai ossessionato da qualunque cosa, Internet, l’Inter, la figa, qualche sostanza stupefacente, ecc. ecc.

Ma certo, nessun dubbio che sia così.

Ritengo difficile però, che una persona, anche la più avveduta e magari non più giovanissima, che posta quasi quotidianamente sul proprio blog o su altri, non sia vittima di questa illusione/delusione. I più ossessionati possono essere da ricovero, non c’è dubbio: gli altri, credono di vivere normalmente con quel brusio nel cervello.

È per questo che credo di dover ridurre la dose di Internet nella mia vita: non più di una volta alla settimana e al massimo un’ora, un’ora e mezza.

È altresì importante lasciare cadere il desiderio di sapere immediatamente una cosa o un’altra. In questo momento della mia vita, è molto più importante non sapere, piuttosto che sapere. Non è un elogio dell’ignoranza, che ho sempre trovato un modo ipocrita di ribadire la propria superiorità: no, è una strategia di pulizia mentale.

La nota parabola zen che spiega come se una tazza venga troppo colmata di tè, questo fuoriesca dal bordo e si disperde senza poter essere bevuto, è illuminante.

La coppa della saggezza deve essere prima svuotata, perché ne si possa attingere. Più la riempi, più perdi per strada l’essenziale. Con Internet riempiamo le nostre vite, le nostre menti , fino a farle scoppiare. Dopo non ci entra più niente.

Inoltre è evidente che le ossessioni perseguitano il cervello umano dall’alba dei tempi. In un certo senso la vita stessa è un’ossessione. È per questo che negli insegnamenti sapienziali è predicato il distacco.

Succedeva la stessa cosa a Faust: la sua dannazione era che la continua ricerca della sapienza lo aveva portato alla disperazione di un circolo vizioso. Solo il patto demoniaco dell’eterna giovinezza e dell’illusione di essere utile a qualcuno poteva riscattarlo. Ma alla fine viene salvato dall’Eterno Femminino. Finale mediocre, grande opera. Un pelo di figa tira più di una quadriglia di buoi.

Ci salva la pietas, ci salva la grande mamma cosmica, con il suo amore incondizionato. Ci salva niente, non c’è nulla da cui salvarsi. I miti sono meccanismi di sopravvivenza. Le ossessioni sono i loro binari morti. La vita è quello che è.

 

Ho nostalgia dei tempi prima di Internet. A ripensarci, non ricordo nemmeno come facevo a sapere le cose che sapevo. Libri che rimandavano a libri, probabilmente. Frequentazioni di biblioteche, meno roba quantitativamente da assimilare, che più facilmente ti entrava dentro a formare la tua carne, le tue ossa e i tuoi pensieri. Provo pena per chi era troppo piccolo o addirittura non era nato, prima di Internet. Quanti cieli aperti si sono persi.

mercoledì 30 luglio 2014

Divagazioni sulla fine dell'inconscio



Gli psicoanalisti, leggo, lamentano lo strapotere attuale delle terapie cognitivo comportamentali. Lamentano, a sentir loro, non tanto il fatto che gli stanno portando via una abbondante fetta di mercato, ma che le TCC siano il frutto di un adattamento a un’epoca (questa) alquanto disgraziata perché vede l’affermarsi del “discorso del capitalista” di Lacan.

Il buon vecchio strutturalista non – strutturalista, diceva che l’attuale evoluzione del capitalismo portava a una frattura tra desiderio e Legge - castrazione, di modo ché, il desiderio sganciato dal controllo, avrebbe reso gli umani ultra edonisti, favorendo l’insorgere di gravi patologie, prima tra le quali la mancanza di necessità di identificare qualcosa come “Inconscio”.

Le TCC, leggo, sono un tentativo di rimodellare sé stessi basato sulla realtà per quella che è. Senza voli pindarici, senza scomodare mamma e papà, pur non negando le nefaste influenze parentali, la TCC prova a basarsi sul qui e ora.

È un approccio in realtà antichissimo, già il buddismo si riferiva alla totale inutilità di capire da dove la freccia avvelenata era stata scoccata, di fronte alla priorità di togliersela ed evitare possibilmente di morire.

Di qui, dicono i TCC, l’inutilità del concetto di inconscio. Non che non esista l’inconscio, ma non appare più un linguaggio che ci abita, oppure il serbatoio delle pulsioni più atroci, cioè in sostanza qualcosa con cui i più bigotti benpensanti erano costretti a fare i conti sotto forma di nevrosi: ormai è un misero laghetto prosciugato, nella terra dove sono curati solo i sintomi, in modo prevalentemente farmacologico.

In sostanza l’uomo moderno starebbe diventando senza inconscio, cioè nel suo sottosuolo il desiderio è totalmente sganciato dal godimento. L’imperativo di quando c’era ancora l’inconscio era “come osi voler godere?” ( di mamma, di papà, della cameriera, del cameriere con la grossa patta, del buco del culo del cagnolino di Madame X, ecc, ecc.).

Adesso l’imperativo che il super Io lancia è “come osi non riuscire a godere?” (con tutte le offerte disponibili, ecc. ecc. ecc.), cosa che diventa paralizzante da un lato, mortifera dall’altro. Pare proprio che l’uomo per funzionare abbia bisogno di autolimitazioni, tolte le quali solo gli egotisti totali funzionano (Berlusconi, Renzi & co. docet), gli atri diventano obesi o depressi.

I  cosiddetti psicoanalisti, parrebbe, vedono nella pletora di disagi specifici di quest’epoca (bulimia, anoressia, obesità, depressione, disturbi di ansia e panico) qualcosa che ha a che fare con l’impossibilità di aderire al festino generale. Ma questa incapacità, mi sembra, di aderire all’istanza sociale del “festino generale” che cosa ha di diverso dal voler fuggire dalla rigidità che opprimeva il desiderio del “festino generale” nel periodo storico pre – spettacolare?

Solo, credo, il segno + al posto del segno - .

Se nell’ottocento e fino al 1950 era “di moda” l’isteria e ficcarsi candele di varie dimensioni nella vagina, oppure il tarantismo nel meridione, oppure sfogarsi con razzismi e sessismi vari, ora è ”di moda” baloccarsi con il reale che non si riesce a consumare. A ogni epoca la sua nevrosi o psicosi.

Ora abbiamo la psicosi collettiva del politicamente corretto. La cosa strana è che i cosiddetti psicoanalisti vedono nel proliferare di nuove nevrosi il godimento sganciato dal desiderio, senza affrontare la frustrazione che questo godimento apparentemente accessibile a tutti, in realtà è sottoposto a tutta una serie di limitazioni. Tutto viene codificato, classificato. Le sofferenze delle nuove (che poi nuove non sono) nevrosi provengono dal fatto che l’individuo è lasciato completamente solo con sé stesso, abbandonato da una società che è solo un involucro vuoto. Non esiste più una società borghese con la quale confrontarsi o scontrarsi.

La psicoanalisi si sente innocente di fronte al proliferare di queste nuove follie post e ipermoderne, come se nel passato, chissà quali passi da gigante avesse fatto nel rendere consapevoli gli individui dell’inculata che è vivere in una società di consumo di massa.

Freud e Marx, uniti insieme nelle mitologie anni Sessanta, tanto amate da chi adesso le critica, avrebbero provveduto, pensavano, a sganciare l’individuo dalla schiavitù del consumismo. In realtà questo non è mai avvenuto perché gli psicoanalisti sono stati i primi a mettersi come obbiettivo unico quello di “ripristinare” l’individuo e farlo funzionare meglio in un contesto sociale che adesso, perché le TCC stanno spopolando, criticano. Troppo facile, troppo ipocrita.

Dietro le loro valanghe di parole trovo solo un rifiuto ad accettare l’agonia meritata di una scuola  di pensiero dai connotati religiosi: una setta ormai condannata a minoranza. Una setta che si è dimostrata totalmente incapace di curare veramente le sofferenze degli uomini, perché troppo legata a mitologie ed esoterismi.

Gli psicoanalisti fanno fatica a integrare le neuroscienze. Pensano, romanticamente, che le neuroscienze siano limitative. Una pastiglia ti cura solo il sintomo, dicono. Giusto, ma bisogna vedere cosa c’è veramente dietro al sintomo. Forse non c’è la castrazione, forse c’è l’ignoranza di essere al mondo e non sapere perché: il disagio di essere immersi nei codici linguistici che traggono origine principalmente dai giochi di potere. Parlano di vuoto del senso, come se prima ci fosse stato un pieno. C’era l’illusione, ai tempi di Freud, di una società borghese che sembrava funzionare. C’era l’illusione, ai tempi di Marcuse, di una società borghese alla quale opporsi. Ora ci sono solo individui che brancolano nel vuoto, un vuoto che la psicoanalisi non ha fatto nulla per arginare.

In buona sostanza la crisi e il fallimento della psicoanalisi è responsabilità della psicoanalisi stessa, non della società che non ha mai desiderato veramente cambiare.

La TCC è adatta a quest’epoca di pronto intervento.

Ora, in quest’epoca c’è un grande vantaggio: tutte le illusioni sono cadute, oppure sono verificabili come illusioni, se si vuole. Puoi scegliere la tua illusione dallo scaffale che preferisci e indossarla. Solo la sofferenza è, in un certo senso, reale: l’unica cosa reale.

Essa trae origine dal fatto, semplicissimo, che siamo vivi come individui. I vari rimedi alla sofferenza possono definirsi, in un certo senso, storia dell’uomo. Nelle società primitive, nelle quali l'individuo è parte integrante della collettività, il carico di angoscia è minore. Torniamo alla collettività? Non so se ci resisterei, personalmente. Sono ormai troppo corrotto dal vizio del pensiero critico, dall'individualismo. Mi farebbero fuori subito.

L’inconscio è la grande creazione della coscienza borghese, sparita la quale, quello che rimane è il terzo millennio: cioè una riduzione all’osso delle priorità, camuffata da tecnologia. Ma anche questa fase non è destinata a rimanere eterna.

La fase attuale, il vero motivo per cui le TCC incontrano il “gusto” del pubblico, è che la nostra è un’epoca di orfani. Non ci sono più madri e padri. La nostra società non si può definire veramente maschilista, né ancora peggio patriarcale. È una società bisessuale, anzi, asessuale, nonostante tutta l’enfasi sul sesso praticato e consumato.

Gli orfani provano a cavarsela come possono, si sa. Se resistono, in genere, scoprono nuovi orizzonti. Buddha, Rousseau, erano orfani precoci.

Quella attuale è una società dominata da forze imperscrutabili, con cui è impossibile identificarsi e che è altrettanto impossibile combattere. Le multinazionali? La pubblicità?

Siamo orfani della Coca Cola, anche se continuiamo a berla.

Dio è morto nell’ottocento, nel duemila è morta la Coca Cola, anche se la vendono e la bevono. La promessa di felicità contenuta nella pubblicità è una dichiaratamente vuota e inutile ripetizione. Ormai non abbiamo più bisogno nemmeno della felicità vera, ma solo di qualcuno che si suppone abbia l’autorità di qualificarla. Abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci dica, ecco, questa è la felicità, per poter fingere di crederci. Di questo abbiamo bisogno, di un principio di autorità del godimento. Qualcuno che ci dica che laggiù troveremo posti meravigliosi, svaghi, riposo. Non ci crediamo veramente, ma è importante mantenere la finzione. È importante fare finta di credere alla Coca Cola, ne va del nostro funzionamento. Ciò che ci fa andare avanti è unicamente il tempo della routine, l’aspettativa che il domani sia ragionevolmente uguale all’oggi, senza infamia e senza lode. Dobbiamo fare finta di avere dei desideri, perché sarebbe asociale non averli. Dobbiamo fare finta di credere, anzi, dobbiamo impersonare colui che crede. Allora il meccanismo va avanti. Da qui nasce il planetario fenomeno della dipendenza.

Dobbiamo fare finta che quello che facciamo sia normale, anche la cosa più bizzarra rientra nella normalità di chi vive la vita come si deve viverla: cioè con ottimismo.

L’ottimismo dell’eterno presente. Ogni deviazione dalla linea è frutto, dicono di risentimento. Può essere.

Noi, quaggiù, viviamo già nell’eternità. Niente può più accadere, anche se poi tutto sembra succedere. Ciò contrasta stranamente con la frenesia che sembra prendere tutti, specialmente la mattina per le strade.

Un vero progresso sarebbe stare fermi, immobili, tutti, magari solo per cinque minuti: tutti, ma proprio tutti, in ogni parte del mondo. Allora qualcosa di straordinario succederebbe: l'affiorare magico del libero arbitrio.
 

martedì 22 luglio 2014

Lamentarsi è da stolti



www.youtube.com/watch?v=FuTsLJSMCsU

Ah, se si potesse sapere tutto, con chiarezza e proprietà di linguaggio per poterne riportare agli altri o perlomeno a se stessi, l’essenza: e poi andare avanti, lasciarsi alle spalle lo scibile umano e avventurarsi veramente nell’ignoto. Potersi permettere di scavalcare la conoscenza per attingere alla vera sapienza, oppure ridere della sua inesistenza: questo sarebbe, come dire, un epilogo da bramarsi devotamente.

Ah, se potessi capire tutto, provare tutto, amare tutto, fermare tutto, andare oltre e tornare; se ci fosse un punto d’arrivo a questo interminabile e informe viaggio: un punto che non sia la dissoluzione eterna o un livello di nulla intollerabile. Se potessi, in altre parole vivere per sempre al riparo dall’angoscia. Se solo potessi veramente vivere per sempre nella gloria di un giorno benedetto.

Se solo potessi afferrare questo punto imprendibile che è questa mia vita qui, adesso, in queste condizioni e caratteristiche; se potessi per un momento solo, non essere così limitato.

Questo mio piccolo cervello che pensa, questa mia piccola anima che desidera qualcosa di infinito e indefinito in questo mondo vasto e incomprensibile, questo prodigioso istante di esistenza che sorge e svanisce e non ci posso fare niente.

Questa solitudine, ma anche questa pienezza, questa dolcezza inafferrabile, questa mia vita: voglio tutto di essa, e non capisco nemmeno qual è questo tutto che voglio.

È il senso di desiderio d’infinito racchiuso in me, lo stesso impulso che fa espandere le galassie. Basta poco perché cessi e tutto ritorni nel solito trastullo da ebete incosciente.

In me, umile nessuno in mezzo a miliardi di miei simili, scorre il sangue dei miei progenitori nomadi. È un afflato romantico e come tale svalutato dalla storia, oppure tutto questo ha un senso?

Io non lo so.
 
Una volta il mondo mi sembrava diverso. Non che fosse semplice vivere, ma le persone sembravano un po’ diverse. Adesso, non le riconosco più. Non mi piace la gente di quest’epoca, non so quando hanno cominciato a cambiare, il cambiamento è avvenuto quando io ero troppo occupato a sopravvivere. Tutto mi è passato sopra e attraverso. Le persone di adesso non sono mie simili. Non so come fare.
So che questa è una illusione futile. Gli umani sono sempre gli stessi, fragili, esibizionisti, banali, egoisti, egocentrici, narcisisti, illusi, parziali nei giudizi e nei ragionamenti, violenti, ottusi, generosi per mettersi in mostra. Sono poche le persone degne di nota. Così poche.
Sono poche le persone che vale la pena di frequentare, forse nessuna. Io non sono certo una di queste. Non riesco nemmeno a comportarmi con sincerità. Se parlassi dal centro del mio essere, ogni volta, se non tentassi più di proteggermi, forse qualcosa cambierebbe.
L’uomo è un mistero. È un grande peccato che si avvilisca.
Appassisco dentro. Gioia, dove sei finita?
Come sono finito così, qui e ora? Mi sono perso. Forse lo sono sempre stato. Adesso ne ho semplicemente la consapevolezza.
Mi sono perso. Perso. Perso. Perso.
C’è una strada? Qualcuno me la può indicare?
No, meglio di no.
È pieno di gente che non vede l’ora di indicarti la strada: ne ho conosciute migliaia. Sanno quello che va bene per te. Sanno quello che tu dovresti fare, quello che dovresti dire, pensare, sperare, amare.
Certo che qualcuno ti può indicare la strada: gli umani non fanno altro, gli uni con gli altri, per tutti i giorni della propria vita.
Forse è proprio questo il problema. La società non si potrebbe reggere nemmeno per un secondo se tutti ammettessero candidamente “ragazzi, non sappiamo quello che facciamo, né dove stiamo andando, possiamo solo intuire quello che sta succedendo”.
È impossibile, crollerebbe tutto.
Se si comprendesse che siamo ciechi che guidano sordi e muti, andrebbe tutto a rotoli, più di quanto stia già succedendo.
E invece succede il contrario: il mondo si riempie di gente che crede di sapere, che ti indica la strada. È naturale che siano seguiti. È altrettanto naturale che i seguaci presto o tardi rimangano delusi.
È quello che è successo a me, dopotutto. Ho cercato di seguire, per sentendo che nessuno ha la risposta. Ho sperato, ho pregato, ho pianto, mi sono disperato, perché ero un seguace poco diligente. Alla fine ho dovuto ammettere che non c’era nessuno da seguire.
Nemmeno bisogna cadere nell’errore opposto: seguo me stesso.
Seguire se stessi, non significa nulla. Non c’è un “se stesso” da seguire.
Noi ci costruiamo man mano che la vita va avanti, a prezzo di sforzi e disillusioni.
Quello che ne risulta, spesso è patetico e amorfo, il risultato dello spezzarsi delle illusioni e del ricostituirsi delle stesse, più forti.
Allora crediamo tutto, facciamo tutto, ci muoviamo come burattini, ci facciamo percorrere dalla corrente elettrica dell’iperattività, finendo solo per sembrare animali morti che una scarica fa sobbalzare. Il movimento esasperato non è segno di vita.
Sono molto più vitali i gorilla che stanno ore accucciati nella giungla, sonnecchianti, come bonzi, senza muoversi.
Solo se non cediamo alla disperazione, o meglio, solo se ci lasciamo attraversare da essa senza crederla definitiva, come qualunque altra cosa, possiamo passarci in mezzo, andare oltre, verso una vita più piena (qualunque cosa sia). Allora, apparirà nel suo splendore, quello che abbiamo costruito, il tempio che si staglia nella nebbia che si dirada. E ci accorgeremo che siamo sempre stati dove volevamo andare.
Siamo viandanti perduti, tutti. Pellegrini in una terra sconosciuta.
 
MUT
Fliegt der Schnee mir ins Gesicht,
schüttl' ich ihn herunter.
Wenn mein Herz im Busen spricht,
sing' ich hell und munter.

Höre nicht, was es mir sagt,
habe keine Ohren;
fühle nicht, was es mir klagt,
klagen ist für Toren.
Lustig in die Welt hinein
gegen Wind und Wetter!
Will kein Gott auf Erden sein,
sind wir selber Götter!
 
CORAGGIO
Se la neve mi vola in faccia,
la scuoto via.
Se il cuore mi parla nel petto,
canto con voce chiara e allegra.

Non ascolto quel che mi dice,
non sento;
non avverto i suoi lamenti,
lamentarsi è da stolti.
Su con gioia per il mondo,
contro vento e intemperie!
Se non c'è nessun Dio sulla terra,
noi stessi siamo dei!
 
Eppure … rimane sempre lo stesso dubbio: e se da qualche parte ci fosse la risposta?
Anche se si sa che non c’è, il dubbio rimane e gioca e ride nella nostra vita e ci fa andare avanti ancora e sempre nei giorni di sole e pioggia.
Lamentarsi è da stolti.