Ebbi notizia di questo romanzo verso la fine degli anni settanta, ma lo lessi per la prima volta credo nel 1985. La storia dell’ultimo uomo sulla Terra non ha certo la pretesa di essere originale. Ci furono innumerevoli film (Occhi bianchi sul pianeta Terra, L’ultimo uomo sulla Terra, fino al recente Io sono leggenda) e innumerevoli romanzi a partire da L’ultimo uomo di Mary Shelley per passare dallo splendido Urania Vita con gli automi (Second Ending) di James White. Quest’ultimo fu una lettura adolescenziale per me rimasta indelebile.
Il tema, insomma, è stato ampiamente saccheggiato già dal XIX secolo (il romanzo della Shelley è del 1826) e in ogni testo veniva puntualmente messa in primo piano la figura prometeica, lacerata, di questo sopravvissuto, erede di una umanità di cui si assume sulle fragili spalle tutta la storia e la responsabilità. Ma l’antesignano per eccellenza dell’uomo solo (con tutte le debite differenze) è naturalmente Robinson Crusoe. Il selvaggio Venerdì non riesce a sconfiggere totalmente la solitudine di chi porta dentro di sé, nelle proprie strutture mentali, la società civile. L’individuo è un prodotto di questa società e la manifesta nei suoi più intimi pensieri. Solitudine è sempre solitudine sociale. Un uomo isolato, è pur sempre isolato da qualcosa che lo trascende e lo informa di sé allo stesso tempo.
Morselli riprende il tema del sopravvissuto e lo porta alle sue estreme conseguenze metafisiche, da quel grande e “alieno” scrittore che è. In questo romanzo Morselli esplora la solitudine definitiva, quella della separazione assoluta dell’Io dalla realtà. Il tema del realismo è molto presente nelle opere di Morselli. Nel suo Diario, in un appunto del 1968 intitolato “Falciola di Terra”, commenta la foto del pianeta Terra vista dalla capsula Apollo come una foto storica, che per qualche opera di rimozione mentale, non viene recepita per nella sua reale portata. Secondo Morselli, vedere il pianeta Terra dal “di fuori” significa che l’idealismo cade nel vuoto. Significa capire che la totalità non è un Concetto come quelli hegeliani, ma una Realtà e che è tutta distesa su questa piccola sfera. Significa capire che vedere il pianeta da fuori è come vedere se stessi, per la prima volta interi, noti e ignoti allo stesso tempo.
Significa capire che ciò che si supponeva reale, ha riscontro nella Realtà. I contorni dei continenti visibili dalla capsula Apollo sono esattamente quelli visualizzati dai cartografi secoli prima del volo spaziale. Abbiamo intuito la Terra ed essa è vera. È come è.
È illuminante. Ma l’uomo, dice Morselli, non sembra cogliere questo aspetto. Il nostro pianeta, così concreto, così reale, è ancora intrappolato in una rete di sogni globale.
Il realismo non è fatto per l’uomo, ma solo per pochi uomini. Così pensa Morselli.
Noi cerchiamo sempre la Realtà e non sappiamo distinguerla. Ma ce l’abbiamo sotto gli occhi.
Essa è esperienza della Terra vista tutta intera. Noi – siamo – quello.
Dissipatio H. G. è l’ultimo romanzo di Guido Morselli. Niente di ciò che ha scritto finora è stato pubblicato. Ha collezionato rifiuti da tutte le case editrici. In vita ha pubblicato, a pagamento, solo un breve saggio su Proust negli anni quaranta e qualche articolo su qualche rivista.
Sulla carta d’identità di Morselli, alla voce “professione” c’è scritto “Agricoltore”. È quello che fa per vivere: gestisce una tenuta di famiglia nei monti sopra Varese. Eppure è un uomo di profondissima e vastissima cultura. Ma sente che per lui non c’è posto da nessuna parte. È una esacerbazione dell’ego o è realtà? Non si sa, ma Morselli ha ormai sessant’anni di vita solitaria e rifiuti sentimentali e editoriali sulle spalle. All’ennesimo rifiuto editoriale, si toglie la vita con un colpo di pistola. È il 31 luglio del 1973. Dire che si è ucciso perché non riusciva a pubblicare, sarebbe ingiusto, sbagliato e riduttivo. Come per Pavese, probabilmente il destino stava nel carattere. Uomini come Morselli sono rari e destinati sempre alla marginalità di chi troppo vede e troppo capisce. Era nato troppo tardi e troppo presto. Dopo la morte comincia il suo successo come scrittore.
La storia del romanzo è semplice. Il protagonista di cui non sappiamo il nome (è solo un Io), raggiunto un livello inaccettabile di tedium vitae, decide di uccidersi alla vigilia del proprio quarantesimo compleanno, buttandosi nelle acque di un laghetto sotterraneo di montagna. Nessuno lo potrà salvare, nessuno lo potrà trovare. Sancisce così da subito la sua separazione dal resto del genere umano. Un banale incidente, una craniata imprevista contro la parete della caverna dove si trova, lo fa svenire per un attimo. Al risveglio perde ogni desiderio di uccidersi e riemerge dalla caverna pronto a ritornare alla sua insoddisfacente vita quotidiana. Poiché egli vive in un paesino isolato di alta montagna, non si rende conto subito che c’è qualcosa che non va. Passano infatti due o tre giorni prima che si renda conto che intorno a lui non è rimasto nessuno. I padroni della casa dove abita sembrano volatilizzati. Automobili e pullman sono abbandonati come se chi li guidava si fosse dissolto di colpo, lasciando il veicolo compiere il suo tragitto verso un muro o un fosso. L’elemento fantascientifico/realistico usato da Morselli è molto forte. È la realtà, quella che viene incontro al protagonista, e non un sogno strano.
Decide dunque di scendere in città, in quella Crisopoli in cui si adombra Zurigo, città dalla mille banche: infatti Crisopoli vuol dire “Città d’oro”. In città lo coglie uno spettacolo devastante. Tutto è abbandonato a se stesso. Le macchine sono vuote, gli alberghi vuoti, le case vuote, la Borsa è vuota, le telescriventi ancora si muovono, in automatico, ma nessuno trasmette e nessuno riceve. Il protagonista si aggira in questo mondo immobile, dove, con il passare dei giorni, gli animali prendono possesso delle cose che prima erano degli uomini.
Morselli trasmette il suo lacerante disincanto in queste pagine che sono uno dei più disperati e bellissimi addii che siano mai stati scritti. È un congedo lunghissimo dalle idee, dalle ideologie, dai sentimenti, dalla società umana. Il protagonista è in fondo Morselli stesso, “fobantropo per danno e fastidio”, colui che aveva paura degli uomini e dei rumori. Il romanzo è un congedo, si diceva. Morselli mentre lo scriveva, aveva già in animo che fosse l’ultimo. Ormai lui stesso era giunto alla “fine del mondo” e scrive appunto della fine del mondo conosciuto. Mai romanzo scritto all’ombra della morte, è così pieno di vita. Mai la solitudine umana è stata descritta con così tanta umana pietà, lucidità e la benché minima traccia di autocommiserazione. Ogni gioco è già fatto, il mondo è già alle nostre spalle, tutte è deciso. Quello che resta è purezza e bellezza dei mattini abbandonati a se stessi. Dissipatio H. G. è un capolavoro della estrema solitudine. E come tutti i capolavori, va letto e riletto. E dopo anni di frequentazione, una ulteriore rilettura porta con sé nuove cose: nuove prospettive sulla società, sugli uomini, sull’amore. È insomma, inesauribile, come tutte le vere opere d’arte.
Il protagonista vaga per la città e per le montagne in cerca di qualcuno, senza trovare anima umana viva. Comincia a cercare ipotesi per spiegarsi l’accaduto. Tra le varie ipotesi i “trascorsi eruditi” del protagonista lo portano a ripensare a un testo di Giamblico (III – IV secolo d. C) intitolato appunto Dissipatio Humani Generis dove “Dissipatio” stava per “evaporazione” o “nebulizzazione”. La fine della specie umana, secondo Giamblico sarebbe avvenuta per “un fatale fenomeno di questo tipo. Rispetto a altri profeti era meno catastrofico: niente diluvio, niente olocausto “solvens saeclum in favilla”, assimilabile oggi a un’ecatombe atomica. Gli esseri umani cambiati per prodigio improvviso in uno spray o gas impercettibile (e inoffensivo, probabilmente inodoro), senza combustione intermedia. Il che, se non glorioso, perlomeno è decoroso.”
Il protagonista, nella sua intoccabile solitudine, passa momenti di libertà totale e addirittura sollievo. È libero da questi molesti esseri che hanno costruito reami che descrive così: “Tre angeli neri, gli stessi a cui, in vita, si prostravano idolatri, e ognuno dei tre porta uno scudo, e su uno degli scudi si legge: Sociologismo, sull’altro, Storicismo, sul terzo Psicologismo. A piè del monte, due serpi loricate strisciano sibilando e buttando fuoco. E ognuna sulle scaglie ha una scritta, e su una si legge: Advertising, e sull’altra: Marketing.”
“La cultura porta in sé il solvente per ciò che la fa vivere e per ciò che la nega. Non ha consistenza, se non ne trova una produttivistica, ma in grazia della sua inconsistenza, checché avvenga di catastrofico, resiste.”
Ma poi subentra il panico atroce da cui non può fuggire. Gli viene il dubbio che il suo tentativo di suicidio sia andato a segno e che in realtà è lui a essere svanito e quello in cui si trova è un aldilà che è il risultato della sua colpa di volersi “eccettuare” dal resto del genere umano. Ma lo salva dal panico orrendo questo senso della realtà, il “realismo ingenuo” che lo contraddistingue. Osserva i mutamenti della città in assenza degli uomini, l’erba che comincia a farsi largo tra le spaccature del terreno e invade le strade. Cervi, caprioli, cani, gatti, mucche, attraversano le strade una volta trafficate. È allora che il protagonista decide di costruire quel suo strano monumento nella piazza della Borsa, fatto di auto e televisori, come ricordo di coloro che se ne sono andati e anche nella folle speranza che dall’alto, qualcuno veda e atterri e lo richiami alla vita umana, cioè sociale.
Comincia a scoprire anche i mutamenti nel suo corpo. Si lascia crescere la barba, indossa una gonna perché è più pratica dei pantaloni: ormai la distinzione di genere sessuale, essendo rimasto solo lui, non ha alcun senso. Comincia anche a nutrire un altro folle scopo: rivedere il suo vecchio medico, il dottor Karpinsky, l’unico essere umano con il quale, nella vita precedente ha creato un legame vero, di amicizia, durante la sua degenza in una clinica per esaurimento nervoso. Rivedere Karpinsky, per qualche motivo, è un idea che dà forza al protagonista di sopportare la sua ormai impossibile solitudine. Sa che da qualche parte c’è e arriverà a trovarlo e lo aspetta. Il punto è che Karpinsky è morto pugnalato, mentre cercava di sedare una lite tra infermieri e il protagonista lo sa benissimo. Ma il pensiero di rivederlo si fa strada lo stesso.
Un universo senza esseri umani, ha perduto ogni scopo che non sia perpetrare se stesso.
“Se c’è stata l’umanità e ora ci sono io, solo io, decido di assumermi i compiti che ‘loro’ hanno dovuto abbandonare. Che cosa facevano ‘loro’ in sostanza? Che cosa facevano? Beh, è abbastanza semplice: agivano in vista di utilità. Inoltre, ragionavano sulle cose che si vedevano intorno, o che credevano di vedersi dentro. Poi le rappresentavano, parole, segni, suoni. Altro non facevano, sarò un riduttivo (un semplificatore), ma ho idea di non avere tralasciato nulla.”
La figura di Karpinsky assume sempre più rilievo. Assurge al livello di fede, l’unica possibile, in questa desolazione. Fede in un gesto umano, che si è ricevuto nel passato e che si è perpetuato rendendo qualcosa del suo splendore anche nell’estrema solitudine della morte. Il protagonista ne sente la voce, il richiamo. Senta che il dottore gli sta dicendo che lo incontrerà quaggiù, su questa terra piena di vita e vuota di uomini, vuota di amicizia. E il protagonista decide di attendere.
L’ex – uomo, come si definisce, non più uomo né donna ( non avrebbe senso), attende il suo amico, fuori dal tempo, perché il tempo non può essere che umano. “Sto scoprendo che l’eterno, per me che lo guardo da un’orbita di parcheggio, è la permanenza del provvisorio. La dilatazione estrema dell’attimo, e in termini empirici questo vuol dire: stato di differibilità assoluta. Agisco ma non posso preventivare la durata dell’azione, so solo che è incalcolabile; sto caricando la pipa, ma quando sarò pronto per prendere un fiammifero e accenderla? E lo sarò mai?”
Ormai l’attesa di Karpinsky, ultimo Godot per un “ultimo uomo” è l’atto finale.
“Non parlerà. Inutile chiedergli, come gli chiedevo in clinica ‘Mi terrete qui ancora? Non sono guarito?’. Perché lui non viene per rispondere a dubbi, per fare annunci. È il piccolo, semplice uomo di allora. Viene, semplicemente, a cercarmi, e è già in cammino. La mia è una certezza, non propriamente un’attesa, e mi libera da ogni impazienza.
Me ne sto a guardare, dalla panchina di un viale, la vita che in questa strana eternità si prepara sotto i miei occhi. L’aria è lucida, di un’umidità compatta. Rivoli d’acqua piovana (saranno guasti gli scoli nella parte alta della città) confluiscono nel viale, e hanno steso sull’asfalto, giorno dopo giorno, uno strato leggero di terriccio. Poco più di un velo, eppure qualche cosa verdeggia e cresce, e non la solita erbetta municipale; sono piantine selvatiche. Il Mercato dei Mercati si cambierà in campagna. Con i ranuncoli, la cicoria in fiore.
In tasca tengo, per lui, un pacchetto di gauloises.”
Finisce così, con la “certezza” questo testamento sui generis. Certezza della vita o della morte? Non c’è più possibilità di distinguerle. Forse non c’è mai stata.
Ripensamenti sul realismo. La realtà non è semplicemente sperimentabile se non con la mediazione dell’Io e questo lo sapeva già Kant. Da allora non è cambiato molto. Noi non sappiamo altro che i contenuti della nostra coscienza, i quali si formano al contatto con il reale. Non si tratta dunque di non desumere che una realtà esistente fuori dalla coscienza non si dia: si tratta di comprendere che solo la coscienza può mediare la percezione di questa realtà e siccome nel mediarla la modifica, ecco che ciò che è reale è ciò che è contenuto nella coscienza. La cosa in sé rimane lo scandalo oltre il quale non si può andare.
La pretesa dei "nuovi realisti", con il corollario delle scoperte scientifiche, non approda da nessuna parte. Gli orrori cosmici alla Lovecraft si rivelano incubi della coscienza, come al solito.
Anche la pretesa del povero Morselli rimane tale. Certo che la “falciola di terra”, la visione del pianeta sul quale viviamo tutti, significa che qualcosa fuori di noi è, e rimane, fuori dal nostro controllo: ma nello stesso tempo, da noi stessi che contempliamo questo nostro pianeta da cui proveniamo, proviene la coscienza di contemplarlo. Tra esterno e interno c’è uno scambio continuo. Soggettivo e oggettivo si compenetrano a tal punto che non si possono “realmente” distinguere. Un sasso che mi colpisce sulla testa proviene da fuori di me, ma diviene un tutto con la mia coscienza. Dopotutto il sasso ha colpito me. Il sasso è in relazione con me. Senza di me, questo sasso non avrebbe avuto il significato che invece ha colpendomi. Nello stesso tempo, senza questo sasso la mia soggettività non sarebbe stata ulteriormente evidenziata.
Se l’uomo sparisse in una dissipatio morselliana, la “realtà” rimarrebbe un assunto indimostrabile. Ci sarebbe la realtà dei caprioli o degli insetti, o delle mucche o delle lucertole, esseri che la “falciola di terra” non potrebbero nemmeno vederla e se la vedessero, non ne comprenderebbero il significato. Dove c’è infatti un significato c’è determinazione e dove c’è determinazione c’è Io. Quindi pare proprio che dall’Io non se ne esca. L’idealismo continua a trionfare finché l’IO non si spezza. Allora ciò che rimane è l’Inconcepibile: il Reale senza soggetto. Cioè, presumo, Dio.
Non è un caso che ciò che Morselli voleva dimostrare nel suo ultimo disperato romanzo, e cioè il trionfo della cosa in sé in assenza dell’uomo, gli si tramuta tra le mani in un confronto glaciale tra un Io disperatamente solo e un mondo imperscrutabile: confronto, reso ancora più imperscrutabile proprio dall’assenza di un IO collettivo. Rimane solo l’Io individuale, destinato a dissolversi nel tutto, cioè a essere solipsisticamente Tutto. Ciò che voleva essere il trionfo del realismo è stato il trionfo della non dualità. Noi siamo il mondo che contempliamo e nello stesso tempo ciò attraverso il quale il mondo si contempla. Io, bisogna ricordare, non è (solo) individuale, ma è collettivo. Un uomo che guarda è tutti gli uomini. Un uomo che muore è tutti gli uomini. Un uomo che agisce è tutti gli uomini. Io sono tutti gli uomini e non solo il mio me stesso empirico, contingente. È sempre stato così. Da qui nasce la compassione, l’azione e il risveglio. Il sospetto è che Morselli, con tutta la sua aspirazione al realismo, lo avesse capito benissimo.