Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

domenica 31 luglio 2011

Cavalca cow boy



Cercare un principio unificatore, che plachi l’ansia di vivere e nel costante e reiterato fallimento di non trovarlo, elaborare un percorso vitale assolutamente personale e quasi sempre stupido.
Il fatto è che nonostante ogni evidenza caotica dell’universo, noi siamo unificati in noi stessi. Nella mia vita ci sono solo io. Anche se non so cos’è io e cos’è vita.
Tutto parte dalle propriocezioni. Persino Kant, per non parlare di Hume, sono partiti da lì, pur condizionati inevitabilmente dalla favoletta cristiana.
Non resta, secondo alcuni, che cavalcare il divenire, che poi è un’altra stronzata ideologica. 
Cavalchi il divenire stipendiato da una università. 
Così sono capaci tutti di cavalcare il divenire, mezza sega e mezza checca che non sei altro. 
Cavalca il divenire su un barcone in mezzo all’Adriatico, con la pelle nera e insieme a altri 200 esseri umani disperati come te. Cavalca il divenire senza lavoro e senza prospettive, se sei capace. Cavalca il divenire con la pensione minima, testa di cazzo. 
Cavalca il divenire, uomo di merda, chiuso la sera in un bar con altre dieci anime perse come te e una moglie brutta e grassa che ti aspetta a casa per distruggerti ogni volta l’illusione di sembrare qualcosa di meglio di quello che sei. 
Cavalca il divenire, stronzo filosofo francese del cazzo, senza poterti muovere da dove sei. 
Deleuze, Guattari, Foucault, Derrida, ipocriti marchettari, alla fine non sono riusciti a fare altro che elaborare una specie di stoicismo postmoderno, a uso e consumo degli addetti ai lavori. 

Sublime limitazione


È molto comune l’esperienza di non trovare le parole per esprimere adeguatamente una sensazione, un ricordo, un concetto. Tuttavia, è proprio questa esperienza così comune che ci può dare la nozione precisa del fatto che l’uomo vive essenzialmente fuori dal linguaggio: che il linguaggio si aggira intorno alla vita cercando di coincidere con essa, senza riuscirci mai: che non è vero che i limiti del linguaggio sono i limiti del nostro mondo: il nostro mondo si espande oltre il nostro linguaggio e noi sediamo in mezzo ad esso come un pilota che non sa guidare, ma la strada è tuttavia davanti a lui: che il silenzio è il nostro destino ultimo: che si devono tuttavia scrivere migliaia di pagine per arrivare a questo silenzio: che solo la musica è riuscita a fare tutto quello che serve per descrivere la vita e nello stesso tempo esserla: che per i sordi questo non ha la minima importanza. Il  che rimanda al fatto che solo in questa zona dell’universo l’Adagio dal Trio in la minore op. 114 di Brahms, significa qualcosa. Ma questo qualcosa, inudibile per i sordi, è tutto per la mia conformazione psichica. 

sabato 30 luglio 2011

Petit illumination


Cultura. Quello che rimane quando sei in preda al terrore. Se rimane qualcosa, quella è cultura. Non è una garanzia di verità, è solo la tua cultura.

venerdì 29 luglio 2011

Obesità culturale


Il collezionismo, in genere, mi fa orrore. Lo associo invariabilmente alle cose morte. Il collezionismo culturale, poi, mi fa venire voglia, come e più di Goebbels, di mettere mano alla pistola e sparare fino a vuotare il caricatore. Basta. Non posso e NON VOGLIO leggere tutti i libri che certi stronzi si tirano dietro l’uno con l’altro. C’è un livello di saturazione in ogni cosa.
I libri formativi per la vita di un essere umano non sono poi molti, e, in genere, variano da persona a persona. Se lo scopo della letteratura e della cultura è iniettare nuova linfa nelle vene (paragone medico che sarebbe credo spiaciuto alla Sontag), di sicuro l’ipernutrizione rende obesi, sclerotici e incapaci di muoversi.

Teologia dei detriti


Solo chi non appartiene a niente, e non ha niente che gli appartenga, ha nostalgia e desiderio del Tutto. Solo il Grande Orfano può bramare così tanto la Grande Madre. Solo chi prova il più grande vuoto può provare la più grande e gioiosa pienezza. Questa cosa, in gergo cristiano si chiama “grazia”.

Il mondo ci condanna alla solitudine con la stessa prontezza con la quale ci rifugiamo in essa. È come l’onda e la marea, il corpo e l’ombra.

Ni droit, ni gauche

Né destra, né sinistra. Né Junger, né Benjamin, né Evola, né Adorno. Forse Céline. Di sicuro Kafka e il buddha Shakyamuni. Abbasso gli idioti che gridano alla bellezza della vita. La vita è pur bella, diceva Adorno, è sempre stato un detto di cartapesta. La vita è spaventosa, la morte è ancora più spaventosa. Abbasso chi dice che siamo tutti uguali e abbasso anche chi auspica l’avvento della meritocrazia. Abbasso, abbasso, abbasso gli snob di Radio Popolare e abbasso le carogne che scrivono per Libero e il Giornale.

mercoledì 27 luglio 2011

Un lirico naufragio

Nel 1892 Johannes Brahms ha cinquantanove anni e si sente vecchio.
Ha conquistato Vienna, l’Impero, il suo secolo. Benchè senta dentro di sé immeritato il paragone, siede, a detta di tutti, a fianco dei Grandi.
Ormai è la terza grande B della musica tedesca. La santa trinità Bach, Beethoven, Brahms splende nel cielo della musica occidentale.
Eppure Brahms si sente vecchio: una appagata malinconia, un rimettere i remi in barca al crepuscolo del giorno, sono il suo stato d’animo abituale. Del resto meno di cinque anni dopo morirà di cancro, a un’età che al giorno d’oggi suona prematura, ma che all’epoca era comunque un consistente traguardo.
La sua amica di tutta una vita, Clara Wieck Schumann, ha ben oltrepassato la settantina nel 1896, quando, come si diceva allora, reclina il capo nella morte. Sciolto quest’ultimo legame, la vita di Brahms non era destinata a durare: meno di un anno dopo, finisce.

Musica del crepuscolo, dunque. E certamente gli ultimi venti pezzi pianistici, quelli che vanno dall’op.116 all’op.119, possono ben definirsi un lirico naufragare dei propri spiriti, nel mare indistinto della memoria borghese.

Niente languore stucchevole, in Brahms, uomo quanto mai terreno e attaccato alle cose terrene. Nessuna tensione verso mondi metafisici, in lui, ma il girare e rigirare delle piccole cose quotidiane, le uniche che portano realmente, in sé, la vita.
Brahms, il capostipite degli ultimi romantici, non ha niente di retorico, nulla di ideologico.
È un uomo del suo tempo che interroga sé stesso e trova risposte paradossalmente universali. È l’opposto di Wagner, che interroga incessantemente gli universali, per fuggire da sé stesso.
L’Ottocento è stato teatro dello scontro tra questi “opposti estremismi”.
La riconciliazione tra minimalismo e massimalismo non ha tuttora avuto luogo.

Uomo dell’Ottocento, Brahms, senza alcun dubbio. La sua vita è interamente contenuta in quel secolo vitale, grande, individualista. Borghese.
E borghese è Brahms, e fiero di esserlo. Avventuroso all’estremo grado dentro i confini della forma tradizionale, come i colonizzatori dell’Africa nera che, in mezzo a paludi e mostri striscianti e orrendi, si tengono ancorati al decoro.
Sarebbe da analizzare, se mai avanzasse tempo e follia bastante, l’esistenza di un legame tra Conrad, romanziere moderno e tradizionale, e Brahms, musicista moderno e tradizionale.
Si potrebbero fare delle belle scoperte.

Torniamo al 1892, al Brahms cinquantanovenne che si sente vecchio, e che dà alla luce un florilegio di pezzi pianistici, tra i più belli, profondi, incredibilmente umani, che siano mai stati composti. Il costante ascolto e riascolto di questi brani (nel mio caso “riascolto” significa una frequentazione di almeno sette lustri) mi hanno suggerito, da subito e sempre, i più curiosi intrecci, come quello già sopra accennato a Conrad.

Una vena sotterranea li percorre: qui, il guizzo amaro della condizione umana, laggiù, la dolcezza sul limitare dell’ombra, da un’altra parte, la quiete profonda, qua, il desiderio che ribolle da pozze profonde di ricordi e riemerge selvaggio e inarrestabile, oltre le colline, la voluttà di una folle cavalcata donchisciottesca e, su tutto questo, il fatto semplice, eppure così consistente, che la vita è un viaggio irrimediabilmente diretto verso il naufragio.
Se si è vivi, si è vissuto.
Conrad e Brahms, sapevano le stesse cose: che un uomo deve fare tutto, sopportare tutto.
La più aspra conquista è la signoria sul dolore, la rinuncia.

martedì 26 luglio 2011

21st century schizoid man



Cat's foot iron claw
Neuro-surgeons scream for more
At paranoia's poison door.
Twenty first century schizoid man.

Blood rack barbed wire
Polititians' funeral pyre
Innocents raped with napalm fire
Twenty first century schizoid man.

Death seed blind man's greed
Poets' starving children bleed
Nothing he's got he really needs
Twenty first century schizoid man



Meno male che è un pazzo


Anders Breivik ha fatto in piccolo, e senza previa autorizzazione, quello che USA e paesi coalizzati fanno da tempo in Medio Oriente. Cioè, ha massacrato uomini donne e bambini che non la pensavano come lui. Nel nome delle stesse idee.
Oddio, ha sbagliato direzione geografica. E poi non si può fare tutto da soli. Che arroganza. Sputtanare così certi gioielli teorici, poi, è imperdonabile.
Insomma, tutta la faccenda suona così sospetta, che, se non ci fossero di mezzo una novantina di morti, rasenterebbe il ridicolo.
Solo che i padroni del mondo se ne fregano del ridicolo. Questo è più di un sospetto.
La solita domanda: a chi giova?
A che livello di gioco si trova questa mossa?
Prendete una Norvegia in forte odore antisionista e di accordo con la Russia di Putin.
Prendete un malloppone di 1500 pagine dove grosso modo sono riassunte le idee neocon e teocon che infestano il pianeta da una decina di anni.
Aggiungete la paranoia nazi.
Mescolate con un bel po' di nazionalismo.
Spruzzate quanto basta di dietrologia su tutta la superficie del composto.
Agitate e mescolate il tutto al ritmo di "Guardate cosa succede se finiamo nelle mani degli anti-imperialisti".
Il risultato è: dobbiamo lasciare stare certe brutte cose e anzi, vegliare perché i giovani virgulti della nazione non arrivino neanche a pensarle, certe brutte cose.
Il fatto è che certe brutte cose, sono l'essenza stessa dell'imperialismo contro il quale Breivik si scaglia.
Cortocircuito mentale. Schizofrenia.
L'anti-imperialismo USA combatte con le stesse armi dell'imperialismo USA.
Non si capisce più un cazzo.
Benvenuti nel XXI secolo.
Meno male che Anders Breivik è un pazzo.
I peones dormano sonni tranquilli.
Come sempre.

lunedì 25 luglio 2011

Il club dei 27


Niente di cui stupirsi. La ragazza era già partita da tempo e non pareva avere intenzione di fermarsi.
I media si sono buttati a pesce sulla funesta coincidenza dell'età: i 27 anni di Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Brian Jones ... poi hanno dovuto fermarsi perché avevano esaurito i ventisettenni VIP ridotti cadaveri dalle proprie intemperanze.
Ma si sa, i media si buttano a pesce dove c'è odore di mito, destini e coincidenze ... come adempiere, altrimenti, alla missione di riempire di scemenze il cervello dei peones?
Janis Joplin, a 27 anni era una donna perduta, Amy Winehouse, alla stessa età, era una bambina che fracassa le bambole nella sua cameretta. Una delle bambole era lei stessa.
In un mondo in cui diventare adulti è impossibile anche a 80 anni, l'autodistruzione infantile è una via di uscita.

Si preannunciano buoni guadagni per le major discografiche.
Forse stanno programmando di far crepare una rockstar ogni uno o due anni, per rimpolpare il mercato, saturo di merda e noia.
Noi quaggiù, abbiamo il bolso e spelacchiato Vasco Rossi, alfiere della vita spericolata ...
alla sua dipartita verrebbe proclamato lutto nazionale ... bandiere a mezz'asta per un orgoglio nazionale che se ne va ... ognuno ha gli orgogli nazionali che si merita.
L'idiozia, la perfidia, la pochezza ... fanno storia.

Jim Morrison e compagnia, cercavano una Più-che-vita, giocando con la vita e con la morte.
Forse erano ingenui.
Se fossero vissuti, si sarebbero totalmente imborghesiti: ma non sono vissuti, e non è un caso.
La povera Amy, figlia dei suoi miseri tempi, voleva solo uscire alla svelta da una non-vita intollerabile per chi ha ancora un'anima, da qualche parte. 
La terra ti sia lieve, Amy.

PS Un giorno, a un qualche cazzo di Award, interrompe il discorso ufficiale di Bono Vox degli U2 per dirgli: "Stai zitto, non ce ne fotte niente di quello che pensi".
Basta solo questo, per capire che aveva un'anima. Se hai un'anima non puoi campare.

4 parole


Dio non gioca a dadi con il mondo, dice Einstein.
Un cumulo di cazzate in una frasetta così breve e apparentemente così significativa, e in più pronunciata da un genio.
Dio non gioca a dadi con il mondo.
Dio? Gioca? Dadi? Mondo?
Quattro affermazioni idealistiche in una mezza riga di scrittura.

sabato 23 luglio 2011

Hanno tutti ragione


Fanculizzare il Novecento, o meglio, la faziosità di ogni Novecento. Ma non rimuovere, non reprimere, anzi, l’esatto contrario. Lasciati travolgere da ogni fermento, idea bislacca, desiderio accentratore o annientatore. Fatti intasare il cervello da colossali stronzi marxisti, strutturalisti, mondialisti, nazisti, socialisti, revisionisti, sionisti, antisionisti, complottisti, comunisti, nicciani, fascisti, liberisti e liberali. Hanno ragione, pensa solo questo, hanno ragione tutti e tutti per motivi opposti. Hanno fatto montagne di cadaveri, e quelli che non hanno fatto montagne di cadaveri hanno bensì macinato tonnellate di sofferenza, protervia, pregiudizi e stupidità, e tuttavia hanno ragione tutti. Avete ragione tutti, pensi mentre la marea di merda ti arriva alla bocca. Sento bene ormai l’odore e il sapore della vostra ragione. Usurai, bancarottieri e filantropisti, trafficanti d’armi, monopolisti, gandhiani, buddhisti, poundiani, neocon, neodem, neoteodem, revanscisti, futuristi, surrealisti, decostruzionisti, pasoliniani, freudiani, junghiani, dorotei, puristi, reichiani, esistenzialisti, adoratori dei chakra e della pietra filosofale, avete tutti ragione, oh, come la sento la vostra ragione salirmi su per il buco del culo. Religiosi settari di ogni Via, avete ragione, avete sempre avuto ragione voi, sublimi antichi maestri, avete ragione, pensi, e intanto la tua testa è sommersa da tutta quella merda e smetti di respirare, ecco, ma respirare è chiedere troppo. Come puoi osare pretendere di respirare al cospetto di tutta questa ragione? Eppure respirare tu devi, pover’uomo. Allora che fai? Allunghi la mano e tiri la catena. Lo tsunami di merda filosofale ti scaglia lontano da ogni purezza stellare. Trombe d’aria di merdosa ragione ti sconquassano. Non cercare di resistere. Fatti portare, tutta questa ragione lo saprà pure dove andare. Ma, dopo miriadi di giravolte, la marea sparisce nel gorgo fino all’ultimo puntino escrementizio e tu rimani lì come un allocco incatramato. Ovunque intorno chiazze di merda e saggezza. Avevano tutti ragione, pensi. Ma nessuno di loro ha finito di fare il proprio dovere: sterminare la razza umana. Essa sopravvive, più forte e stupida che mai.

venerdì 22 luglio 2011

L’eternità è una stanzetta spoglia



È orribile non avere voce. Ancora più orribile è l’illusione di averne una. Si raggiungono livelli di contorcimenti quadridimensionali in un vuoto perfetto. Bisogna, per sopravvivere, non accorgersi mai che la nostra voce è solo un’illusione: follia e solitudine attendono chi lo scopre. Il mondo vince sempre. Ma va sempre combattuto.

Siamo in bilico sull’orlo del nuovo, fatto con le macerie del vecchio, ma questo nuovo, finora, si sta rivelando  solo un buco. E stiamo per cascarci dentro tutti, apocalittici o integrati.
La Storia del XXI secolo è un buco che inghiotte tutto il passato restituendo solo documentari TV. I milioni di morti uccisi dalle utopie urlano il loro folklore dalle loro fosse ai quattro angoli del mondo. Carovane di fantasmi vittime di feroci illusioni, ci guardano dallo schermo con una feroce demenza. Stiamo per essere espulsi dal grande ano puzzolente del Mercato Globale, mentre beviamo le nostre birre, dopo essere stati regolarmente comprati e mangiati. Il nostro peccato, che non ci sarà mai rimesso, è che nessuno di noi ha mai patito veramente la fame durante la propria esistenza: è molto più di quanto la maggior parte dell’umanità in tutti i suoi secoli di storia ha potuto aspettarsi dalla vita.
Il passato ci odia per questo. Tutta questa morte patita per arrivare a questo spocchioso XXI secolo.

È altresì seccante fare il panegirico della Resistenza al Consumismo. Fanculo alla resistenza al Consumismo. Chi ha voglia di resistere? In nome di cosa? Nietzsche parlava di trasmutazione di valori. Questi valori oggi, sono stati ampiamente trasmutati e trasvalutati. Hanno fatto un giro di 360° e sono tornati al punto di partenza. Dal nichilismo, siamo tornati all’identità nazionale e religiosa, per ripiombare nel nichilismo e da lì,  ancora al nazionalismo fondamentalista e alla coscienza cattolica. Dal superamento delle ideologie, siamo arrivati alla epurazione delle ideologie e poi alla loro depurazione per finire a pubblicizzare la bontà di queste ideologie depurate, cioè spoglie, secondo le anime belle di ogni latitudine, di qualsivoglia violenza. Volemo cambia’ er monno, mica te volemo ammazza’! Ma si nun te stai bbono, te sfonnamo!
E dunque perché resistere al richiamo della cuccagna? Ogni pubblicità televisiva non è forse un rimando al paradiso perduto? E adesso, perdio, questo paradiso lo vogliamo: ci hanno troppo rotto le scatole con queste favole. Ormai si devono scoprire le carte: per tutto il resto c’è Mastercard.
L’umanità (qualunque cosa voglia dire questo concetto) si comporta come un criceto dentro la ruota, in una gabbia. Crede di seguire un’idea di progresso qualunque ma, in fondo, vuole solo sgranchirsi le zampette.
Perché preoccuparsi del futuro di questi idioti?
Evoluzione o distruzione, che cambia? Toh, ecco rispuntare il nichilismo. È una strada che porta dritto agli inginocchiatoi. Ai forni crematori. Alle pizzerie. A Montecitorio.
Non se ne esce.
Va bene, riproviamo da capo.
Dove vogliamo andare?
Ma è chiaro! Verso una società più giusta. È il desiderio di tutti.
Quali sono i presupposti di una società giusta?
Qui cominciano i problemi.
“Che nessuno debba patire la fame” è la delicata risposta di Adorno. È difficile aggiungere altro. “Che nessuno debba essere sfruttato”. Ma ogni sistema sociale è basato su forme esplicite o implicite di gerarchie e schiavitù. Chi ha capacità e possibilità, governa: gli altri, ciccia.

Comunismo: follia utopica che crea deliri, burocrazia e morti. Marx avrebbe provato un dolore immedicabile se avesse potuto visitare il XX secolo. E tuttavia necessario: era necessario provarci. Sarà per il futuro, chissà se prima o dopo la prossima catastrofe.

Liberalismo: sfruttamento sornione dell’uomo sull’uomo. Ti costringe alla libertà del consumo e all’illibertà di non potere consumare. Crea modelli stupidi e irraggiungibili dalle masse. Crudeltà atroce per le minoranze povere, mascherata da beneficenza.

Socialdemocrazia: il cerone applicato alla faccia del liberalismo.

Il dialettico processo di schiavitù-emancipazione ha creato la Storia degli ultimi due secoli.
Bella frasetta di hegeliano stile: significa in sostanza che negli ultimi duecento anni la borghesia si è data da fare per accaparrarsi manovalanza con metodi sempre più soft.
Il Capitalismo moderno rende, oggi come sempre, vana l’emancipazione, perché, grazie al totale controllo delle opinioni universali, mette il processo di liberazione delle masse oppresse nelle mani di chi le opprime. È evidente che non può che venirne una falsa liberazione.
Quella in cui viviamo è una società dove, dietro l’apparente democrazia, vige la dialettica servo padrone: cittadini alfa e cittadini beta, o gamma, o anche delta, fanno quello che possono.
L’autoemancipazione non può darsi, poiché mancano due fattori fondamentali:
1)      Un obiettivo condiviso di società globale radicalmente diversa da costruire
2)      Autoconsapevolezza delle cosiddette masse
E dunque:
       a)   La consapevolezza, dove c’è, sfocia nell’impotenza
       b)   L’impotenza si consola con dosi massicce di sogno
       c)    La liberazione non può più provenire dal basso, dalle masse oppresse, perché il Mercato globale crea identità di obiettivi tra ricchi e poveri. Solo che i poveri devono accontentarsi del sogno. E inoltre, queste masse, dove sono? All’Ikea.

La lotta di classe, benché mistificata, continua tuttora e la stanno vincendo i ceti più ricchi.
La società non è altro che il modo in cui le classi dominanti organizzano i loro trastulli. L’ha già detto Marx, l’ha ripetuto Berlusconi,  ma sarebbe il caso di capirlo, perché c’è ancora gente che crede che la società sia il luogo della convivenza civile.
Nel prossimo futuro, nella cosiddetta società futura, i poveri (le masse sfruttate, i lavoratori precari, i disoccupati, gli stranieri che non ce l’hanno fatta a integrarsi) cesseranno di esistere, nel senso che cesseranno di essere una parte della società della quale bisogna prendersi cura. Il sistema dell’informazione globale può facilmente ridurre la portata del fenomeno fino a renderlo inesistente. Anche chi lo vive in prima persona e se ne sente protagonista, si scoprirà inesistente. Guardate e vedrete. Se la società del 2030 non sarà implosa, sarà una società senza poveri, perché non risulteranno, neanche a sé stessi.  Faranno vita a sé. Tutti accrocchiati sul primo 56 che parte dal capolinea di Piazzale Loreto.
La società si deve proteggere da chi minaccia la propria sicurezza. E chi la minaccia?
Chi è più pericoloso dei terroristi, dei palestinesi, dei migranti, della microcriminalità? Anzi, chi coincide assolutamente con essi?
I poveri. Ecco chi.
I poveri, sono il vero nemico, la cattiva coscienza, e dunque l’obiettivo di carità pelose, di ONG, ONLUS, associazioni di ogni tipo, chiese, sette, religioni di ogni sorta.
Tutto deve essere fatto, purché la liberazione reale non avvenga.
La liberazione può essere ormai solo ad interiore homine, ma a condizione che si abbia da mangiare. Per tutto il resto c’è sempre Mastercard. Qualora non si abbia da mangiare c’è la Caritas Internazionale.
I poveri servono solo se sono in lontani paesi e silenziosi. Quei poveri destinati ad aumentare sempre di più anche in questo nostro paradiso d’occidente, vanno ignorati.
Non possono esistere e dunque non esistono. In televisione vanno solo sul terzo canale e non sempre, solo vicino a Natale o Pasqua.
Tuttavia il potere, per preservarsi, ha bisogno di un ceto inferiore da sfruttare.
Il ceto inferiore (cioè l’attuale classe media) sarà dunque sottoposto a una lotteria dell’esistenza, una lotteria dalla quale sono esclusi i veri poveri, ormai destinati all’estinzione.
Chi vince la lotteria dell’esistenza, accede alle risorse: altrimenti finisce tra i poveri, cioè smette di esistere. La lotteria è il futuro della società. Già molti romanzi di fantascienza cosiddetta sociologica, avevano fin dagli anni cinquanta anticipato questo tema: una feroce divisione in classi sociali inalterabili, dove i poveracci vivevano nell’illusione di potere vincere il superenalotto. Dato che a qualcuno succede, può succedere a chiunque. E la vita va avanti. In fondo ci si aggrappa normalmente a speranze ben più tenui, tipo la resurrezione dei morti o il pianto di qualche madonnina di ceramica.
Sarà un mondo infernale, quello del XXI secolo, dove tutto sembrerà normale. Nessuno si sentirà così sfruttato, nessuno si lamenterà di un corso delle cose che sarà diventato naturale. A molti sembrerà addirittura di fare una vita, tutto sommato, soddisfacente.

Non credo ci sia una direzione precisa al corso del mondo, se non quella dettata dalla solita avida follia delle classi di volta in volta dominanti. Tuttavia non bisogna neanche cadere nell’illusione di potere leggere la realtà di oggi attraverso la lente di ideologie ottocentesche. Nessuno riscatta nessuno.  I poveri non sono santi: sono solo ricchi senza soldi.
Dicono che il futuro sarà caratterizzato dalla contrapposizione di popoli giovani e popoli vecchi. Io non lo credo. Il fatto che alcuni popoli siano anagraficamente costituiti da gente giovane, garantisce unicamente che il livello di forza vitale e avidità è maggiore, niente altro. Quando i cosidetti popoli giovani avranno vinto, saranno già vecchi essi stessi. E commetteranno una stronzata dietro l’altra.
Dicono che l’identità nazionale e etnica, sta diventando il fattore più importante nella geopolitica, e che questo accade perché è venuta meno la spinta ideologica emancipatoria delle classi subalterne, sotto la guida di figure intellettuali e politiche di rilievo.
Questo è vero solamente nei telegiornali. Al cittadino comune di ogni luogo, sostanzialmente, preme di avere accesso alle risorse, più che liberarsi da non si sa bene cosa. E rifiuta istintivamente modelli morali troppo rigidi, a favore di modelli di vita. Vita e morale, infatti, raramente coincidono, tranne, forse, in Iran o in Afghanistan.
O nella Bible Belt.
Dicono che quello che  sta avvenendo, è una spinta costante alla frammentazione della realtà.  Dicono che non possiamo più, in nessun caso, racchiudere in una visione razionale tutto il mondo. In realtà è esattamente quello che succede. C’è un’unica visione del mondo, frammentata in tante piccole microrealtà. È una riproduzione sociale del Big Bang, teoria dell’Origine che va per la maggiore in quest’epoca. L’esposione originale dell’Idea Unica provoca la frantumazione della realtà. La parcellizzazione di microrealtà è come la fuga delle galassie sotto la costante di Hubble.
Alla fine ogni essere umano si troverà solo con se stesso, nel buio, urlante.
Intorno a lui, le urla degli altri soli nel buio. Un inferno beckettiano. O, forse, meglio, una piéce di Ionesco. Qualcuno si ricorda di lui?
Le urla, gli schiamazzi scimmieschi escono ovattati, assorbiti dall’involucro protettivo della Legge del Mercato, l’unica cosa che tiene unita la razza umana del XXI secolo. Solo il linguaggio dell’avidità è l’unico compreso a tutte le latitudini. Non quello dell’amore, che, così come viene presentato, è poco più di un panettone natalizio scaduto. L’amore, dove esiste, è un’aspra conquista individuale, che si eleva a universale solo per pochi attimi.
La Legge del Mercato è destinata a inghiottire tutto, compreso sé stessa.
Si autocorreggerà finché sarà possibile, poi imploderà.
Ma non si creda che sarà una catastrofe apocalittica. No, sarà invece un colossale sbadiglio di stanchezza. Il Leviatano appoggerà il testone orrendo sul cumulo di miserie umane che da sempre gli fanno da cuscino. Chiuderà gli occhi roventi e dormirà per sempre.
Dopo di che… chissà. Cioran risorgerà dalla tomba brandendo il biglietto vincente per il miglior non essere del sistema solare.

Marx diceva che solo le classi sfruttate potevano acquistare la consapevolezza per cambiare la società.
Ma nella società futura, la spinta al cambiamento sarà parte delle offerte presenti sul mercato. La venderanno insieme al resto. Sta già accadendo. Tutti sapranno, istintivamente sapranno, che ogni cosa è così da sempre e per sempre.
Il trionfo della volontà di potenza non ha bisogno di fanfare o svastiche.
Orwelliano o kafkiano sono termini usati, strausati e abusati: e chi ne abusa di più è proprio chi afferma sbadigliando che sono termini abusati. Costui o costei, si rende complice del fatto che orwelliano e kafkiano sono i termini nei quali la società viene perfettamente spiegata. Spiegare il mondo non è però cambiarlo. Ma voler cambiare il mondo è altrettanto sospetto di volerlo mantenere così. L’impasse si risolve unicamente in maniera surreale: i concorrenti del Grande Fratello invadono lo studio di Vieni via con me obbligando Saviano e Fazio a fare il trenino di Discosamba, i parlamentari occupano le università lanciandosi in gigantesche orge collettive e gli studenti organizzano sedute di preghiera e interminabili novene al CERN di Ginevra, mentre il papa benedice il lavoro minorile. L’unico modo di uscirne è mescolare follemente le carte, diventare stupidi come bestie e volare in cielo come angeli. Porci con le ali. Al Qaeda si rivela per quello che è: un complotto dei rettiliani. Hitler era un acuto stratega e Churchill invidiava la gioventù attoriale di Orson Welles.

I più dementi abitanti del XXI secolo saranno quelli che pretendono di risvegliare le coscienze, basandosi su infinite variazioni del tema dell’eroe, della terra promessa, della caverna platonica, del paradiso utopico: a forfait e con pranzo cena e albergo pagati.
Nella società futura gli intellettuali non ci saranno. Meglio così. Nessuno sentirà la loro mancanza. Nessuno ha mai sentito la mancanza degli intellettuali, tranne i sedicenti intellettuali che paventano la mancanza di intellettuali. Entro la fine del secolo le maestranze si scambieranno di ruolo e si vedrà la famosa cuoca di Lenin dirigere con ottimi risultati la Fiat e i manager impegnati quindici giorni al mese nella rotazione sacchi.

Il punto saliente di quest’epoca è che non ci sono nemici veri da combattere. E neanche amici veri. Tutto è introiettato. Noi siamo tutto. Noi siamo Berlusconi e l’ultimo peone, contemporaneamente. Siamo Totò e Rita Levi Montalcini. Siamo tutto quello che abbiamo guardato in TV, anche una sola volta.
L’unica cosa vera che ci è rimasta è un lontano mattino di sole. Questo è un ricordo valido per ognuno. Tolstoj, Proust, a suo modo anche il più distante da loro, Beckett, l’avevano già capito.
Briciole d’infanzia, per ognuno di noi. Poi, la morte. Nel mezzo, la società civile.
Albanese, il comico, con il personaggio Cetto La Qualunque, dice la verità scherzando: stila il programma utopico di La Qualunque, quello che tutti pensano veramente. ‘Nt ‘u culo la natura (inteso come pretese ecologiste), ‘nt’u culo l’etica, ‘nt ‘u culo i programmi. ‘Cchiù ppilo pe’ tutti.
È un modo geniale per sfogarsi da vero uomo di sinistra: fare ridere con quello che si desidera veramente, facendo finta di combatterlo.

Allora, contro chi combattere? No, non contro. Dicono che è brutto dire contro. Meglio dire a favore. Dunque, a favore di cosa combattere?
A favore della verità, mi vien da dire. Anche se non esiste. Anche se è sbriciolata.
Senza verità non c’è vera vita. Evviva il vero più cruento, da sopportare, sul quale costruire una società senza infingimenti. Una società contro natura. Idea leopardiana, inapplicabile, irraggiungibile. Il potere lo sa molto bene. Ladro di verità. Il potere è natura. Idea vecchia, la sanno tutti quelli che hanno letto qualche libro, ma questo non la rende meno vera.
L’unico modo di individuare il nemico è scoprire chi ti toglie la verità. Chi ti racconta favole di progresso. Chi ti parla di speranza, al di là o, peggio, al di qua della vita.
Se qualcuno ti toglie la verità, è lui il nemico.
Ma che cos’è la verità? chiede Ponzio Pilato.
La verità è l’ombra del potere. Quello che non si può vedere.
Quello che non riesci a vedere, ecco, quello è la verità.
Quello che manca e non si può definire, quello è la verità.
Una sedia è reale, ma non necessariamente vera.
Verità è ciò che si disvela. Ciò che prima era celato. Verità  è un processo.
Chi ti frena in questo processo, è un nemico.
Una volta individuato il nemico, amalo. Bisogna amare anche i nemici.
Questo è il regno delle tenebre idiote. Una risata le squarcerà. Bisogna buttare pacchi viveri su New York, radere al suolo il Darfur, far pascolare le capre dentro il palazzo dell’ONU, tirare una torta in faccia a Ophra Winfrey, emettere peti rumorosi a Porta a Porta, sbandierare in faccia a Nethanyau il complotto giudaico massonico, eleggere Rosy Bindi presidente della Repubblica, eutanasizzare tutti i proprietari di SUV sopra i 60 anni.
Il potere è tutto. Volontà di potenza. E le leggi? Perché far finta? Le leggi servono per preservarsi dalla distruzione. Un potere che riuscisse ad avere tutto si autodistruggerebbe.
Nel crollo trascinerebbe con sé tutti: individui alfa beta e gamma. E dunque una finzione di resistenza ci vuole.

La sola parvenza di via di uscita per l’individuo è essenzialmente religiosa, nel senso di un atto di fede.
Non resta che credere che la conclusione sarà splendida, per dirla con Hikmet, anche se non ci sarà nessuna vera conclusione e se anche ci fosse, non sarà bella: un pessimismo ottimista, diciamo, è consigliato, se non altro se si vuole continuare ad alzarsi ogni mattina.
È banale, ma non c’è altro.

La storia futura potrà anche essere, paradossalmente, una storia di soluzioni. Riusciremo probabilmente a risolvere, almeno in parte, i problemi pratici che attanagliano la nostra epoca: il clima, la geopolitica, il superamento delle pesanti ideologie novecentesche.
La “soluzione finale” della condizione umana resta invece un obiettivo realizzabile solo con l’estinzione. Estinzione non è poi una così brutta parola. Pace degli interminati spazi.
Non sarà una cosa imminente. Nessuno deve preoccuparsi.
La letteratura “alta” ha il compito principale di occuparsi di questa “soluzione finale”, o meglio, vivere all’ombra di essa. La letteratura “alta” ha il compito di raccontare storie di frontriera, una qualunque frontiera, perché solo quelle sono interessanti.
È dunque inutile aspettarsi una letteratura che contribuisca alla “rivoluzione”: non può essere che cattiva letteratura. Se è “buona” non può essere che inevitabilmente reazionaria in un modo rivoluzionario, e rivoluzionaria in un modo reazionario. L’esempio principe di tutto questo travaglio è Dostoevskij: un uomo tormentato dall’infinito, come Bardamu; un nichilista che disprezza il nichilismo; un ateo che vuole follemente credere, ma non crede, e che non riesce a far altro che ridere in faccia a qualsiasi idea di armonia suprema.


L’orizzonte dei nostri tempi è crudelmente limitato. Le “grandi narrazioni” si sono macchiate di più di un sospetto. Le porte del paradiso, se esiste, sono sbarrate.
L’incubo di Svidrigajlov, il vero “cattivo” di Delitto e castigo, si è materializzato. L’eternità è una stanzetta spoglia.




Una stanzetta spoglia è anche quella, mai inquadrata direttamente, che in Stalker permette di realizzare i più profondi desideri. Nel film di Tarkovskij nessuno aveva il coraggio di entrare in quella stanza. L’artista e lo scienziato se ne tornavano, sconfitti, alla propria miseria.
La letteratura di oggi è perfettamente incarnata dal ruolo dello Scrittore, però senza quella carica tragica che rende il film un capolavoro.
Gli scrittori (così come i critici e gli addetti alla cultura) di oggi non hanno coraggio o voglia di indugiare su quella soglia. Se ne tengono ben lontani. Preferiscono parlare di merda, di corpi, anzi, del corpo, come se la merda e il corpo non fossero anch’essi idee.
Siamo entrati nell’epoca del platonismo della merda. Forse non si ricordano neanche dell’esistenza di quella soglia. Non ricordano quella stanzetta spoglia nella quale ha dimora l’infinito, oltre quella porta che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. È per questo che hanno difficoltà con la voce. È orribile non avere voce. Ancora più orribile è l’illusione di averne una.  E ancora più orribile dell’orribile è avere voce e non avere niente da dire. Senza il tormento dell’infinito, non esiste racconto, ma solo una burocratizzazione dell’ispirazione.
Il mondo vince sempre. Ma va sempre combattuto. Nella sconfitta totale della vita nasce qualcosa.


giovedì 21 luglio 2011

Big Bang, quasars e altri splendori e miserie di un universo tolemaico



 Non temere mai di dire cose insensate. Ma ascoltale bene quando le dici.
                                                                       L. Wittgenstein

C’est ci n’est pas astronomie

Da qualche parte, il critico letterario americano Harold Bloom ha detto che psicologia e cosmologia, nei tempi antichi, erano una cosa sola: cioè il modo di intendere l’universo è strettamente legato al modo di vedere noi stessi e viceversa. Questa unità è presente anche oggi. Qui la matassa è particolarmente ingarbugliata e dipanarla è compito che esige la più alta attenzione e ciò va sicuramente oltre le mie modeste capacità: pure mi ci provo, piano piano, come se, dal caos originario di una nebulosa, dovessimo formare una galassia di qualche rispetto, stella per stella, ammasso per ammasso, quasar per quasar.
Il risultato finale, qualora dovesse essere raggiunto, sarà il paradosso di un inferno ordinato.

Un universo tolemaico è un posto che si adatta perfettamente a una visione del mondo univoca. È tagliato perfettamente su un unico punto di vista, il centro. Da questo centro si dipana un cosmo nel quale ogni cosa è al posto giusto.
Una simile limitata visione, si dice, è stata superata da secoli. Da Galileo in poi sappiamo di non essere più il centro di tutte le cose e che l’umanesimo è una faticosa conquista.
E le cose, lungi dall’essere al loro posto, rigurgitano, si spostano, si confondono.
Finita l’epoca  delle “grandi narrazioni” (religione e ideologia), viviamo nell’epoca della spettacolarizzazione del passato. Così si dice, almeno.

Il passato è merce di scambio, nostalgia di un’Età dell’Oro mai avvenuta, ma che può essere venduta e comprata. Ti vendo e ti compro i bei tempi di mamma e papà, oppure la bellezza dell’ideologia comunista ai tempi di Lenin, o la giovinezza ardita delle camicie nere. Nostalgia per tutti i gusti.
La tecnologia è essenzialmente un mezzo per accedere sempre meglio al Passato, o più precisamente, all’idea del Passato come “grande narrazione”.
L’unica “grande narrazione al presente” che permea ogni strato della società odierna è la democrazia, la democrazia americana e quella europea. Ma quella europea dipende in larga misura da quella americana.

Si dice ancora che le epoche arcaiche vivessero in un eterno presente, nel quale vita, morte malattia e destino coesistevano in una totale accettazione da parte dell’individuo.
Si racconta poi che la modernità ha preso come direzione il Futuro e il Progresso, concetto tanto criticato dal “moderno” Leopardi.
Adesso, proseguono a dirci, viviamo nella postmodernità (sempre che una cosa simile esista per davvero) che, non avendo più punti di riferimento, si rivolge, paradossalmente, solo al fantasma del Passato come punto d’arrivo.
In altre parole, il centro verso cui siamo diretti è un Passato mascherato da Futuro.

La gente non si preoccupa normalmente della qualità della sua concezione esistenziale, lobotomizzata com’è da serie Tv e fiction su extraterrestri, mafie, madri coraggio e medici senza frontiere. Il mondo, per loro, è un campo di battaglia tra il Bene e il Male (maiuscoli), che (per quanto doloroso, problematico ed eventualmente in parte migliorabile) è giusto così com’è.

Combattere il Male (maiuscolo) implica fare cose sgradevoli, tipo scatenare guerre e introdurre misure sociali repressive: il tutto sotto l’egemonia statunitense con le sue gerarchie televisive. Le fasce più deboli non esistono più, in quanto non sono mediaticamente rappresentabili.  Raramente i poveri sono protagonisti di qualche cosa in TV e poiché la TV è il mondo, i poveri esistono solo in quanto merce di scambio tra organizzazioni umanitarie.
Oppure, peggio ancora, come nazioni arretrate da tenere sotto controllo in quanto potenziali stati canaglia.

A distanza di quasi dieci anni dall’11 settembre 2001, la spinta propulsiva di quel grande evento si sta gradualmente esaurendo: rimane però l’immane stupidità manicheista che pervade la società e il pressoché totale azzeramento dei diritti sociali delle fasce più deboli della società democratica. Da questa situazione difficilmente si tornerà a qualcosa di simile al XX secolo. Ormai il più è fatto. Un Altro Mondo Non È Più Possibile.

The Big Event 2001 è stato usato come Esplosione Originaria della Grande Rivoluzione del XXI secolo: la presa del potere mondiale da parte delle èlites. Da quel momento (anche se i prodromi hanno origini molto più lontane) milioni di esseri umani sono diventati consumatori e fruitori dell’Unico Pensiero possibile. Ogni accesso al contraddittorio è scivolato nelle plaghe di Internet e in nessun altro luogo. Chi vuole può accedervi e trastullarsi con l’indignazione: nulla tratterrà le generazioni ipoalfabetizzate e americanizzate a venire, dal tornare gradualmente a credere nella terra piatta. Padroni e schiavi, tutti ugualmente ignoranti, si consumeranno a vicenda in una finale esplosione di idiozia.

In questa epoca di caos conservatore, in cui élites privilegiate decidono cosa il peone deve pensare, la credenza nella Teoria del Big Bang, ha preso il sopravvento su ogni altra teoria cosmologica, divenendo così una delle ultime “grandi narrazioni” insieme alla Democrazia, che riunisca in sé l’immagine attuale di questo pazzo pazzo pazzo pazzo mondo postmoderno.
Tra questi capisaldi si snocciola la, peraltro noiosa, storia tra la fine del II e l’inizio del III millennio.

Il Big Bang fa rientrare di schiena, dalla finestra della cosmologia, quell’universo tolemaico cacciato dalla porta secoli fa. È un universo tolemaico al contrario: non siamo più noi il centro da cui si dipana il tutto, e oltre questo tutto c’è Dio, ma questo centro, posto ormai irrimediabilmente al di fuori di noi, possiamo vederlo, possiamo crederlo. E Dio è non più sopra noi, oltre il cielo delle stelle fisse, ma dietro e all’origine. Grazie ai radioelescopi, possiamo vedere (secondo la teoria del Big Bang) sempre più chiaramente (o presumere di vedere) l’Origine, distante e indietro nel tempo.


La Grande Esplosione è il simbolo dell’Origine della Potenza dell’esistente così com’è.
È suprema giustificazione del Potere. In altre parole, il Potere non è più trascendente, ma immanente. Permea ogni cosa.
Nella vecchia Unione Sovietica avrebbero definito il Big Bang (forse lo hanno fatto davvero) una teoria borghese.
In effetti, in URSS si dava più credito alla Teoria dello Stato Stazionario.
Nella Teoria dello Stato Stazionario la materia veniva in continuazione creata, non si sa come né dove, man mano che la materia vecchia decadeva. L’universo non ha un vero inizio né una vera fine e un suo punto è equivalente a un altro. Non è dunque un universo gerarchico.
Nel Big Bang, il Centro da cui tutto si dipana, il punto bianco dell’esplosione originaria, è contemporaneamente davanti e dietro a noi. Siamo noi a osservare il centro, mentre ce ne allontaniamo. Così come siamo noi a muoverci istintivamente, emotivamente, verso il centro del Potere, senza poterlo raggiungere e cogliere nella sua essenza.

Qualunque ricerca del centro è il grande rimpianto dell’universo tolemaico.
Si ricerca il centro per coincidere finalmente con qualcosa di definito: il Potere, da cui dipendere, il Dio creatore che, pur avvilendoci, ci protegga dallo smarrirci in un universo senza senso nel quale rischieremmo di doverci assumere la responsabilità delle nostre vite.
Se Tutto ha soltanto 13, 7 miliardi di anni, Tutto è iniziato in un momento, per quanto distante, concepibile. E dunque, se è concepibile, ha un senso. Un universo senza inizio e fine, quello sì che non avrebbe senso. 13,7 miliardi di anni o il 4004 a. C. placano l’angoscia di chi ricerca il Potere. Dona loro un senso e una giustificazione.
Per inciso, l’angoscia di chi potere invece non ne avrà mai, non può mai essere placata, ma solo sedata.

L’avvento della credenza senza alternative nel Big Bang ha coinciso con una delle epoche più conservatrici della storia. Conservatorismo tecnologico, si potrebbe definire. Arcaismo tecnologicamente equipaggiato, direbbe Debord.
Il Big Bang soddisfa l’inconscio creazionista di molti scienziati, mette d’accordo i monoteismi con la scienza, perché se c’è Origine, sia pure esplosiva, un Originatore deve esserci. Il dubbio che l’universo non abbia inizio né fine, ma sia scandalosamente aperto deve essere combattuto, pena la perdita di ogni centro mentale di potere.
Il vecchio universo senza inizio né fine di Nietzsche, il mostro caotico della volontà di potenza, non può soddisfare in nessun modo la collusione definitiva tra il potere tecnologico-finanziario delle élites (cui la scienza “ufficiale” appartiene) e il vecchio, decrepito, ma sempre vivo, potere religioso. I neo buddisti possono bensì accontentarsi di un universo oscillante, purchè ci siano Big Bang e Big Crunch, Big Mac e Big Tasty in oscillazione. I più disperati nichilisti ricorrono alla Materia Oscura e al Big Rip. Tutto finirà in niente, anche il più piccolo protone. Questa malinconica fine appaga tutt’al più qualche scienziato, ma non certo le masse. Per le masse c’è solo la televisione.