Viviamo
in un paese soffocato. Soffocato da una classe politica abbietta, soffocato da
atteggiamenti e usanze a dir poco allucinanti, soffocato da un semi
analfabetismo di ritorno che è la causa e l’effetto dei nostri mali, soffocato
da una sovrappopolazione incredibile (la densità di abitanti per chilometro
quadro di Napoli è superiore a quella
di una megalopoli cinese o giapponese), che viene ignorata a fronte di un
presunto calo di natalità. Viviamo in condizioni disagiate, nonostante la
tecnologia low cost di cui disponiamo e la TV a digitale terrestre. Aria e
terra inquinate, malcostume diffuso, mass media totalmente asserviti a tutti i poteri, confusione mentale e
morale, degenerata e degenerante, burocrazia demente, sanità zoppicante.
Siamo troppi, tutti ciancicanti per le strade,
a mostrare le trippe e i tatuaggi.
Ci
facciamo totalmente dirigere dalla televisione, nelle nostre opinioni, però
abbiamo la presunzione di avere guizzi di personalità. Il popolo italiano ha
smanie di protagonismo, si fa intervistare,
dicendo puntualmente le stesse cose che sente in televisione, in un loop di
grottesca autoreferenzialità percettiva: la TV ti dice cosa pensare e tu ripeti quello
che hai sentito in TV pensando però che quello che stai dicendo sia farina del
tuo sacco.
Un
popolo così va a votare, sempre e comunque, perché in fondo, ai seggi si
incontra gente, si fanno chiacchiere, è un evento che rompe la monotonia e poi
si va a messa.
Quelli
che non vanno a votare, non ci vanno per una sorta di pigra arroganza. Sono
tutti uguali, dicono, senza pensare perché sono tutti uguali.
Popolo
cattolico, senza mai chiedersi il perché e il percome. Si fa sedurre da santi
imbroglioni, preti ignoranti e papi buoni. I papi sono sempre buoni. In TV non
c’è un personaggio che sia uno che si dichiari ateo incallito e anticlericale.
Non lavorerebbe più.
La
gioventù adesso è in affanno, perché il posto al sole non è più garantito, e
allora protestano, poveretti, che gli hanno rubato il futuro, che non avrebbero
comunque mai avuto, perché i giochi che i potenti fanno sulle loro teste hanno
previsto da sempre la loro esclusione dalla grande abbuffata.
Ai giochi hanno accesso solo i figli dei potenti, come sempre. Ma se c’è una cosa che il
popolo vorrebbe fare, è giocare pure lui. Chi
di noi, dice la gente (o almeno diceva fino a poco tempo fa) se fosse al posto
dei politici non ruberebbe come fanno loro?
Non
è moralista, il popolo italiano, anzi, non c’è niente che disprezzi come il moralismo,
si irrita. Ma chi ti credi di essere, tu, moralista? Siamo tutti uguali,
stessa merda e non è lecito dubitarne. Tutto livellato al basso.
Non
ha importanza che invece ci siano tantissime persone oneste, che magari non si
farebbero neanche corrompere, ma gente così non fa molta strada. Gente così, se
arriva ai posti di comando, viene disprezzata e se il disprezzo non è
sufficiente, viene eliminata, con le buone o con le cattive.
I
giovani che se ne vanno dalla dolce patria, lo fanno per acchiappare i residui
del sogno consumistico che altrove è ancora splendente e che qui è in agonia.
Gli
ideali di questi giovani sono il beato paradiso dell’imprenditore di sé stesso
che si esibisce nelle vetrine del mondo. Giovani che disprezzano i loro
coetanei bamboccioni. Venite a intraprendere anche voi, dicono, se avete le
palle. Venite in Germania o in Svezia o in Cina a fare gli informatici, o i consulenti o gli
architetti, o qualunque stronzata che faccia immagine.
Gente
totalmente asservita all’esistente, per cui l’ideale di società è una impresa
commerciale infinita, distesa lungo tutto l’asse centrale della Via Lattea.
Questi
giovani hanno ancora stampato nel cervello l’idea che la crescita sia un dovere
e che possa e debba essere senza limiti.
Gli
altri, quelli che languono in patria, sono convinti della stessa cosa e per
questo si sentono perdenti.
La
verità, pura e semplice, è che siamo troppi, che non c’è e non ci sarà mai posto per tutti, che questo
capitalismo è giunto alla fine, anche se ci dovesse mettere decenni a schiattare
e che siamo fottuti: questa verità non vuole e non può entrare nelle coscienze.
Al
peone deve rimanere l’illusione che se si dà da fare ce la può fare.
Un'altra verità pura e semplice, è che siamo tutti colpevoli. Abbiamo mangiato tutti, ha
fatto comodo a tutti la vacanzina, il low cost, il cellulare, il mutuo, la
macchina nuova, e riempirsi la pancia. Il popolo è così babbeo che pensava
veramente che tutto questo potesse durare in eterno.
Il
popolo è avido quanto i politicanti. È soltanto dalla parte svantaggiata della
faccenda.
In
tutto questo discorso non fa capolino nemmeno una volta il problema dell’educazione.
Se
chi viene al mondo oggi, lo fa solo per consumare, non ha bisogno di essere
educato a divenire un essere umano completo. Bastano le funzioni base.
È
per questo che si fa molta, veramente molta fatica a non disprezzare gli umani
di quest’epoca. Certo, io sono uno di loro: uno schiavo, come loro; un
consumatore, o meglio, uno costretto
a consumare.
Ma
io cerco di tenere gli occhi spalancati in questa oscurità fitta, per vedere,
per capire.
Cerco
uno spiraglio che forse non c’è neanche.
Circondato
dalla morte, voglio sentire la vita vera, quella che spacca la roccia.
Hegel
diceva che se si guarda negli occhi di un essere umano, si trova la grande
tenebra dell’essere.
Siamo
misteri avviliti.
L’italiano può anche raccontarsi di amare
bonariamente la vita, i figli, la buona tavola, il sole, ma quello che nel
profondo cerca è la dissoluzione del sé, la cessazione della rappresentazione
di questo orrore che è divenuto l’esistenza. Questo desiderio di morte si
camuffa in molti modi, acquista toni insospettabili. Già il cercare l’oblio
delle cose addirittura prossime, il raccapricciante istinto di rimozione che è
alla base della società, lo scurdammece ‘o passato ipocrita e demente, è certo
volontà di conservazione, ma non riguarda la vita nel suo insieme: riguarda
piuttosto la preservazione corporea legata alla semi-morte nella quale siamo
costretti. Lo stordimento è morte, la televisione è morte, il calcio è morte,
la letteratura, in fondo, è morte, la vita è morte, tutto è morte, desiderio di
morte, ovunque è brama di non esistere per quel che si è ma di fare esistere al
nostro posto, simulacri di affermazione sociale. Niente di nuovo, ne parlava sempre
Hegel: “assumere in sé le cose morte è
compito che necessita la più alta forza”.
Questa forza, l'unica che può portare al rovesciamento della nostra cattiva coscienza, viene a mancare. Il fallimento nell'ottenere il proprio simulacro di affermazione sociale riempie tutto.
Forse solo la fame vera, rimetterà a posto le cose.