Nel 1892 Johannes Brahms ha cinquantanove anni e si sente vecchio.
Ha conquistato Vienna, l’Impero, il suo secolo. Benchè senta dentro di sé immeritato il paragone, siede, a detta di tutti, a fianco dei Grandi.
Ormai è la terza grande B della musica tedesca. La santa trinità Bach, Beethoven, Brahms splende nel cielo della musica occidentale.
Eppure Brahms si sente vecchio: una appagata malinconia, un rimettere i remi in barca al crepuscolo del giorno, sono il suo stato d’animo abituale. Del resto meno di cinque anni dopo morirà di cancro, a un’età che al giorno d’oggi suona prematura, ma che all’epoca era comunque un consistente traguardo.
La sua amica di tutta una vita, Clara Wieck Schumann, ha ben oltrepassato la settantina nel 1896, quando, come si diceva allora, reclina il capo nella morte. Sciolto quest’ultimo legame, la vita di Brahms non era destinata a durare: meno di un anno dopo, finisce.
Musica del crepuscolo, dunque. E certamente gli ultimi venti pezzi pianistici, quelli che vanno dall’op.116 all’op.119, possono ben definirsi un lirico naufragare dei propri spiriti, nel mare indistinto della memoria borghese.
Niente languore stucchevole, in Brahms, uomo quanto mai terreno e attaccato alle cose terrene. Nessuna tensione verso mondi metafisici, in lui, ma il girare e rigirare delle piccole cose quotidiane, le uniche che portano realmente, in sé, la vita.
Brahms, il capostipite degli ultimi romantici, non ha niente di retorico, nulla di ideologico.
È un uomo del suo tempo che interroga sé stesso e trova risposte paradossalmente universali. È l’opposto di Wagner, che interroga incessantemente gli universali, per fuggire da sé stesso.
L’Ottocento è stato teatro dello scontro tra questi “opposti estremismi”.
La riconciliazione tra minimalismo e massimalismo non ha tuttora avuto luogo.
Uomo dell’Ottocento, Brahms, senza alcun dubbio. La sua vita è interamente contenuta in quel secolo vitale, grande, individualista. Borghese.
E borghese è Brahms, e fiero di esserlo. Avventuroso all’estremo grado dentro i confini della forma tradizionale, come i colonizzatori dell’Africa nera che, in mezzo a paludi e mostri striscianti e orrendi, si tengono ancorati al decoro.
Sarebbe da analizzare, se mai avanzasse tempo e follia bastante, l’esistenza di un legame tra Conrad, romanziere moderno e tradizionale, e Brahms, musicista moderno e tradizionale.
Si potrebbero fare delle belle scoperte.
Torniamo al 1892, al Brahms cinquantanovenne che si sente vecchio, e che dà alla luce un florilegio di pezzi pianistici, tra i più belli, profondi, incredibilmente umani, che siano mai stati composti. Il costante ascolto e riascolto di questi brani (nel mio caso “riascolto” significa una frequentazione di almeno sette lustri) mi hanno suggerito, da subito e sempre, i più curiosi intrecci, come quello già sopra accennato a Conrad.
Una vena sotterranea li percorre: qui, il guizzo amaro della condizione umana, laggiù, la dolcezza sul limitare dell’ombra, da un’altra parte, la quiete profonda, qua, il desiderio che ribolle da pozze profonde di ricordi e riemerge selvaggio e inarrestabile, oltre le colline, la voluttà di una folle cavalcata donchisciottesca e, su tutto questo, il fatto semplice, eppure così consistente, che la vita è un viaggio irrimediabilmente diretto verso il naufragio.
Se si è vivi, si è vissuto.
Conrad e Brahms, sapevano le stesse cose: che un uomo deve fare tutto, sopportare tutto.
La più aspra conquista è la signoria sul dolore, la rinuncia.
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