Mi guardo bene dal fare un panegirico dei bei tempi andati. Anzi, è l’esatto contrario.
Bisogna essere chiari su questo punto.
Non ci sono rimpianti del tempo che fu.
Ei fu, siccome immobile, dato il mortal sospiro. Punto. Adesso bisogna seppellirli. Tutti quanti. Calvino, Pasolini (due esempi su decine) e compagnia cantando. Non ignorarli, non disprezzarli, ma mangiarli, espellerli, ritenere in noi quello che serve al nutrimento.
E guardarci intorno.
Sfogliarli, sì, studiarli, farsi folgorare dalla vita che ancora emanano (se la emanano), farsi folgorare anche dalla morte che essi emanano e riprendere il nostro cammino. Dovremmo rifiutarci di essere epigoni. Equivarrebbe ad accettare il verdetto tombale sulla nostra epoca.
È duro morire senza essere vissuti.
Calvino, Pasolini, Sciascia, non hanno le risposte che ci servono. Non le hanno più. Forse non le hanno mai avute. O se le avessero, se non fossero così fottutamente morti e le avessero veramente, qui e ora, probabilmente non ci piacerebbero.
Perché noi viviamo ormai da decenni sul loro nulla.
E loro sono vecchi. Sono andati. Sono solo dei video su Youtube da commentare con “magnifico!” “genio” “ci manchi” “persone così non ci sono più” “adesso tutto è merda”, ecc. ecc.
I loro libri li leggono (meglio, li hanno letti) i/le bravi/e ragazzi/e acculturati di sinistra.
Servono solo, di solito, come viatico per certificare la giustezza di qualche opinione.
Bisogna rimettere a posto il XX secolo, facendo un lavoro difficile e doloroso di decostruzione e ricostruzione.
Tritare le ideologie, la destra, la sinistra, il fascismo, l’antifascismo, il comunismo, l’anticomunismo.
Non è facile, lo so.
Ci siamo campati tutti su queste presunte categorie dello spirito. È difficile ammetterne il totale e improcrastinabile fallimento.
È difficile ammettere che l’ideologia è il travestimento dell’avidità e della volontà di potenza.
Dietro l’ideologia, c’è lo stomaco. È difficile altresì sopportare che questa semplice evidenza, l’aveva detta per primo un ometto pazzo con grossi baffoni, circa 130 anni fa.
E ancora non ci entra in testa.
Da allora lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo non è cessato, si è solo modificato.
In arte, l’uso della propaganda non è cessato, si è solo modificato.
Forse è ancora troppo presto per archiviare il XX secolo, ma esattamente cento anni fa, nel 1911, gli artisti stavano già assestando calcioni definitivi al XIX secolo.
Stravinskij e Ravel in musica, Picasso e Boccioni, in pittura, Marinetti e Majakovskij in letteratura (sono solo alcuni esempi), stavano facendo allegramente fuori i nonni.
Noi non riusciamo ad accoppare nemmeno gli zii.
Siamo troppo dipendenti dalle opinioni commerciali.
Ci siamo nati con la pubblicità, noialtri, squagliata nel biberon.
Ci hanno allevato a credere pedissequemente alle opinioni accreditate, politiche, modaiole, artistiche, culturali.
E ci crediamo anche quando crediamo di non crederci.
Noi non siamo in grado di far fuori padri e madri.
Tendiamo a preservare le stirpi.
Il corporativismo è intrinseco al nostro codice genetico.
Qui c’è gente che vorrebbe essere stipendiata solo perché si qualifica come scrittore professionista, perché ogni tanto pubblica qualcosa. È l’equivalente dell’Unione Scrittori dei tempi di Stalin, satireggiata magistralmente da Bulgakov.
E qualcuno vorrebbe qualcosa del genere.
Pazzesco.
Lo scrittore lavori: lavapiatti, cameriere, ingegnere, fattorino, giornalista. Poco importa.
Lavori. Allora, se ce la farà a cavar fuori tempo dal tran tran quotidiano, scriverà, paradossalmente, meglio.
Far fuori padri, madri, nonni e nonne è il compito, umano e artistico del nostro tempo.
Far fuori anche Freud, che per primo ha rielaborato il vecchio mito di Edipo.
Far fuori i partiti politici, i gruppi, le conventicole, le Unioni Scrittori.
Far fuori la critica ideologica, destinata per sua stessa natura a essere sempre ipocrita.
Una volta assemblato il pacchettino con su scritto “XX secolo”, dobbiamo archiviarlo e passare oltre.
Il XXI secolo sarà una grande epoca di disintossicazione, o non sarà.
Prima cominciamo meglio è. Altrimenti saremo costretti a lavorare e mangiare solo detriti per sempre.
Non è una smania altrettanto ideologica di fuga dal passato: è solo la presa di coscienza che siamo soli.
Il passato è, per molti, moltissimi aspetti, meraviglioso.
Il fatto però è che ora, qui, ci siamo solo noi.
Il resto sono fantasmi.
Dov’è la risposta del nostro tempo alle eterne questioni?
Dov’è la letteratura dei nostri giorni dove Regno e Realtà, Norma e Esistenza si incontrano?
Non lo so. Comincia un lungo e difficile viaggio per scoprirlo.
Può darsi che sia un fallimento, anzi, è probabile.
Ma si dice che il compito principale di un artista è fallire.
Fa molto figo dire una frase del genere, però una triste caratteristica di molti luoghi comuni è quella di essere veri. È per questo che si aborriscono, come tutto ciò che appena appena abbia l’odore della verità.
Tutto fallisce e finisce nel cesso. La pretesa di perfezione sfocia quasi sempre nel realismo socialista.
È dunque inutile parlare di responsabilità dell’autore.
La responsabilità di un autore non va oltre quella di un comune cittadino: pagare le tasse, essere relativamente onesto, capire chi ci sta fregando, fare, certo, le battaglie politiche che ritiene giuste. Oltre questo non c’è nulla.
Ogni nostra pretesa inciampa sempre nel ridicolo della morte: quanta poesia c’è in questo.
L’arte è consolazione, o non è arte. Altrimenti vanno bene i pamphlet, non c’è problema.
Ma l’arte non è obbligatoria, e non può mai essere ideologica. Non può essere nemmeno legata alla sua diffusione.
Può giacere in un casetto per decenni, in una soffitta per secoli, in una tomba per millenni. Può essere dimenticata, anzi, lo sarà, fatalmente.
L’arte trae origine dal pensiero magico. Condivide le stesse radici della religione.
È scritta sul’acqua, sulla sabbia, sul nostro “corpo” mortale.
Che importa di Berlusconi? Berlusconi, sparirà, come tutti. Chiediamoci cosa sparirà con lui, e cosa rimarrà nel 2030, nel 2040, nel 2050.
Quello che rimarrà, se rimarrà qualcosa, sarà la cultura del nostro tempo.
Si può, anzi, si deve, attingere da quegli scrittori e artisti del passato (e non sono pochi) che hanno resistito alla comunella con le ideologie. Artisti che possono insegnare qualcosa. Artisti che, soli, hanno intrapreso il cammino per diventare sé stessi con il massimo sforzo prima di crepare, come ha scritto uno di essi, uno dei più grandi del Secolo Breve.
Lui era uno che non ha avuto paura di passare per pazzo, fascista, antisemita, filonazista, che non ha avuto paura di dire che la merda è merda e di spiegare anche la sua versione del perché la merda è merda.
Non sono un Céline-addicted (sembra essere questo uno degli ultimi apprezzamenti da rivolgere ai non facenti capo a nulla: i nullacapofacenti) e quando dico attingere non intendo dire imitare, naturalmente. Vuol dire capire che devi cercare la tua propria specifica miseria e santità, quella che è tua e di nessun altro, il tuo proprio personale, santissimo fallimento.
Come scriveva Beckett, lasciandosi alle spalle il romanzo di Flaubert, di Proust, ma anche soprattutto quello di Joyce: fallire ancora, fallire meglio.
Aggiungo io: fallire in modo personale. Solo così il fallimento non diventa miseria.
E ricordarsi di farsi una risata ogni tanto. Sono solo trastulli.
Che ppalle questo blog!
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