130 anni fa. Kafka.
Nella quiete di Zürau elabora una sua cosmogonia e una sua teodicea. Solo, nudo
di fronte alla natura, elabora una vera e propria teoria scientifica della
Caduta, una cabbala intrisa di taoismo. Lo immagino magro e sereno su una
sdraio, immerso nel silenzio dei boschi, il pensiero puntato in una direzione
che nessuno ha mai percorso, un’acutezza d’ingegno degna di un grande
investigatore privato.
La sua è una filosofia spiazzante: non è questo, né
quello, né altro mai. È, forse, una porta, un palo nel terreno, un insetto. Una relazione accademica. È dove
non è. È letteratura.
Ho
frequentato l’università della vita, come si dice, ma non mi sono laureato.
Siamo
tutti ridicoli.
Aspiro al sublime. Da questa portineria.
Essere
sé stessi è, inevitabilmente, essere il mondo.
Posso
amare fino alla pazzia, all’annullamento totale di me, alla vergogna e da fuori
non si vedrebbe nulla. Ne sono fiero.
Niente ci
salverà. Quanta speranza c’è in questo.
L’uomo è
sempre postumo.
Impossibilità dell’utopia. Indispensabilità
dell’utopia.
Non sono le idee. In culo alle idee.
È la carne – ma neanche – la carne diventa
facilmente essa stessa un’idea.
Nel
niente disadorno. Sunyata.
Sotto
la superficie mostri orrendi si sbranano a morte.
E
io sono sempre qui. Accarezzo un’idea. Neanche io so quale.
Non
si può vivere nel presente, meno che mai si può vivere in qualsiasi posto.
Eppure
questo pianeta, il Pianeta della Menzogna, è sempre bellissimo.
Non si può vivere nel presente, non si può vivere con la vita.
RispondiEliminaLa vita va avanti.
RispondiEliminaFermiamola.
È sempre un piacere leggerti.
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