Il mio inizio
buddista è stato tutto fuorché casuale. Da sempre affascinato dalle religioni
orientali, quando ho saputo che una mia amica praticava una specie di buddismo
giapponese mi ci sono fiondato, come si dice. Era da un po’ di tempo che la
vedevo cambiata, più sicura di sé, meno casinista e più concreta, ma lì per lì
non ci avevo fatto troppo caso.
Il
motivo per cui mi sono voluto buttare nel buddismo era che, pur ritenendomi
ormai irrimediabilmente ateo, avevo una fame di spiritualità non appagata.
Volevo qualcosa che desse un senso al tutto e che, in più, funzionasse. Il cambiamento della mia amica e la promessa che
situazioni concrete trovassero
soluzioni meravigliose, mi fecero
decidere al grande passo (per me) di fidarmi di una qualche dottrina.
E così,
un bel giorno di maggio 1988 ho iniziato a recitare il mantra e a imparare il
libretto del sutra. Gongyo e daimoku e Nam Myoho Renge Kyo. Il Buddismo, senza
acca, di origine giapponese.
Per
raccontare tutto quello che ho vissuto e sperimentato ci vorrebbero pagine e
pagine. Sono rimasto nell’universo della Soka Gakkai, questa apparentemente
perfetta organizzazione laica buddista, da praticante indefesso (cioè costante
fino al masochismo) fino al 2002.
Devo
dire che i primi anni sono stati belli. Conoscevo un sacco di persone, visitavo
un sacco di posti nuovi, il mio umore (loro lo chiamano stato vitale) era quasi sempre buono. Stavo bene, veramente. Ero
giovane, mi divertivo. La pratica mi dava la possibilità (o l’illusione) di
potere risolvere qualunque problema della vita quotidiana mi si parasse
davanti.
Più o
meno velocemente i miei amici di prima del buddismo sparirono per lasciare il
posto a nuovi amici, tutti buddisti, ovviamente. Era una cosa naturale, che chi
non condividesse con me la gioia della “verità assoluta”, dopo un po’ sparisse.
Per come
sto descrivendo la faccenda, tutto sembra essere il deliro di un malato e in
certo senso può essere così, ma è veramente difficile spiegare la fascinazione assoluta che mi aveva pervaso, per questa pratica. Mi sembrava di
aver trovato la risposta a tutte le mie domande: perché la mia vita è così come
è? Perché molti si danno da fare e non ottengono mai nulla? Perché al mondo c’è
tutta questa sofferenza? Esiste una vita dopo la morte? Ecc, ecc.
Non bisogna credere che non mi accorgessi subito delle magagne dentro l’organizzazione: le
perversioni gerarchiche, l’ottuso conformismo e il livellamento verso il basso
delle persone. Nessuno doveva spiccare troppo come individuo, perché i meriti
erano tutti della pratica. Nello stesso tempo, ogni “responsabile”
dell’organizzazione incarnava a vari livelli l’eroismo della dedizione alla
fede, la sfida a innumerevoli ostacoli della vita quotidiana e varie altre
amenità. Eroismo della mediocrità.
Vedevo
tutto questo, da un lato ne ridevo, dall’altro prendevo queste situazioni come
una sfida per mettere a tacere la mia propria enorme arroganza, della quale ero
diventato acutamente consapevole e di cui mi vergognavo. Chi ero io per giudicare? Sapevo che le persone
hanno vari livelli di comprensione e ritenevo che ognuno, grazie alla pratica, potesse
diventare felice così come era, pur rimanendo una persona di mediocre
intendimento. Nel buddismo c’era posto per tutti, anche per intellettuali
sgamati come pretendevo di essere io allora. Mi illudevo, certo, ma ancora non
lo sapevo. Mi illudevo su tutto, compreso sul mio essere intellettuale. Nel
giro di pochi mesi di pratica la mia presunzione venne azzerata dalla comprensione
impietosa della realtà della mia vita. Avevo 26 anni, non avevo né arte, né
parte, dovevo lavorare per essere per lo meno indipendente. E basta. Trovare un
lavoro fu il primo “beneficio” che attribuii alla pratica. Non era un granché,
ma per me andava bene, per il momento. Questa cosa del lavoro mi aveva
incoraggiato a darmi, in piena consapevolezza, completamente, al buddismo senza
acca.
Ho
coinvolto persino mio fratello, uno dei miei più cari amici e mia zia materna.
Paradossalmente, a distanza di un quarto di secolo, tutti e tre praticano
ancora senza dubbi né incertezze, soprattutto mio fratello. L’amica che me ne
aveva parlato invece, ha smesso qualche anno prima di me.
Ho
partecipato, “sfidandomi” a tutti tipi
di svariate attività proposte nel gerarchico mondo della Gakkai: responsabile
di gruppo, poi di settore, Soka-Han (una specie di servizio d’ordine interno),
ero nello staff della redazione del giornale dell’associazione, ho persino
fatto il corso antincendio per accedere alla Sicurezza interna, quella che
controllava lo svolgersi di grandi eventi, tipo la Mostra dei Diritti Umani, Il
Festival dei Giovani, stronzate così, diciamo.
Senza
colpo ferire, ho
aderito a tutto quello che in fondo sembrava una specie di Comunione e Liberazione
buddhista. Niente male per un ateo con tendenze anarchico insurrezionali.
Tutte
queste attività venivano svolte, non solo da me, ma da tutti quelli che le
facevano, con lo spirito di “dare la vita”, un sacrificio che avrebbe riportato
ricompense enormi, sia interiori che (soprattutto) materiali. Questo era quello
che cercavano tutti. Attraverso la pratica e la “attività” buddista si poteva
(anzi, era certo che sarebbe successo), attirare “buona fortuna”, “cambiare il
karma”.
Quello
che adesso sto scrivendo con tono un po’ sarcastico, era anche una
mia convinzione. Intorno a me vedevo gente che dopo aver fatto “attività”
ottenevano aumenti di stipendio, guarigioni da malattie, fidanzamenti con
ragazze/i favolose/i, dopo anni di solitudine, fatturati più alti nelle loro
imprese commerciali e, naturalmente, uno “stato vitale” (umore) più alto.
Io non è
che avessi particolari “benefici”, ma quello dell’umore, ecco, quello sì. Per
molti anni il mio umore è sempre stato buono, con una continuità che non ho mai
più avuto da allora.
Questo
mantra ripetuto per molto tempo, provocava una specie di senso di felicità
senza motivo, una certa leggerezza, speranza, fiducia. Era una vera e propria
droga.
Questo
mi spingeva ad andare avanti.
Un’altra
cosa che mi spingeva ad andare avanti era che, secondo il mistico ma
inesorabile funzionamento della legge di causa ed effetto, smettere di
praticare, equivaleva a mettere cause karmiche “negative”, cioè ritrovarsi
addosso una sfiga tremenda. Allo stesso modo, non venerare nel modo giusto il
Gohonzon (pergamena oggetto di culto raffigurante graficamente Nam Myo Ho renge
Kyo), distruggerlo, danneggiarlo, equivaleva a essere condannati all’inferno,
inteso come sofferenza senza fine in questa vita e nelle successive.
Sono
sempre stato molto sensibile al tema del destino e della sfortuna o fortuna. Mi
sono sempre visto in balia di forze superiori che decidevano per me. Con la
pratica mi era sembrato di poter controllare queste forze, di poter essere io,
una volta tanto a decidere il mio destino, grazie alla forza del mantra.
Bastava seguire la via “corretta” e la mia vita sarebbe stata anch’essa
“corretta”.
La legge
mistica (Nam Myo Ho Renge Kyo) era contenuta in ogni cosa e ogni cosa, compreso
la nostra vita, era espressione di questa legge. Era un po’ il concetto della
Forza in Guerre Stellari.
Sarebbe
stato folle andare contro nientepopodimeno che la Legge dell’Universo.
Credevo
a tutto, compreso alla favoletta che buddhismo e scienza, a differenza di
cristianesimo e scienza, non fossero in contraddizione tra loro. Non c’era
niente di magico nel buddismo, certo, però guarda caso il mantra veniva usato
come una formula magica. La Forza (la Legge dell’Universo) è dentro di te, tu
stesso sei questa forza, però se non fai le cose correttamente (cioè secondo i
dettami dell’organizzazione) questa Forza non si attiva o peggio, ti si ritorce
contro.
Ripensandoci,
c’era molto di cinematografico e coreografico in tutto quel baraccone
filogiapponese.
Io ci
stavo dentro abbastanza bene, perché c’era molta energia, perché mi permetteva
di conoscere varie persone, alcune anche molto simpatiche e mi dava l’illusione
di poter trasformare tutto.
Nei
fatti però, ero ancora in balia di vari meccanismi di superstizione.
Volevo disperatamente credere. Volevo anche io quei “benefici
incredibili” che sentivo raccontare durante le riunioni.
Nel
corso degli anni di pratica ho dovuto invece affrontare tutta una serie di
problemi. Avere questo mezzo, questa religione, nonostante la mia sfiducia
cronica, mi faceva sentire più sicuro. E in effetti, mi muovevo più agevolmente
in mezzo alle correnti della vita. Almeno, questo era quello che pensavo.
Naturalmente, non sono in grado di dire se, senza pratica, ce l’avrei fatta lo
stesso a superare tanti ostacoli o se, addirittura, certe cose non mi sarebbero
nemmeno capitate. Perché quello che è certo è che me ne sono capitate di tutti
i colori.
Nel 1992
ho avuto una broncopolmonite che mi ha lasciato come strascico una forma di
asma allergica. Ci ho messo quattro mesi a scoprire che era asma, quattro mesi
in cui mi svegliavo tutte le notti
alle 4 e tossivo fino a vomitare. Ci ho messo un anno a trovare il farmaco
giusto e attenuare e poi annullare gli attacchi. Sembravo uno zombie, ero verde
in faccia. Io andavo avanti imperterrito a praticare e paradossalmente in
quella situazione ero riuscito perfino a sentirmi di umore felice, a fidanzarmi
con una collega diciannovenne (avevo 31 anni), ad avere un’energia pazzesca
nonostante certe volte non riuscissi a respirare. Insomma andavo avanti come un
treno e attribuivo questa cosa alla pratica. Naturalmente sia la polmonite che
l’asma erano un manifestarsi del karma delle vite passate, pensavo, ed ero
fortunato che fosse successo. Mi avrebbe permesso di saldare i miei debiti
karmici e ottenere la buddhità, l’illuminazione in questa vita.
Mi
capitava un problema sul lavoro e grazie alla pratica lo risolvevo. Mi capitava
una magagna di qualche tipo con la padrona di casa e, tac, un po’ di mantra e
risolvevo tutto.
Insomma,
come si dice, nonostante le difficoltà ci stavo proprio dentro. Era il mio buddismo. Senza acca.
Certo, alcuni
nodi proprio non volevano sciogliersi. Ad esempio, trovarsi a fare lavori di
cui non ti importa nulla, solo per sbarcare il lunario. Avere relazioni
sentimentali nelle quali non riuscivo mai a sentirmi totalmente coinvolto.
Questo problema delle allergie che da allora mi preclude tutta una serie di
alimenti, non mi faceva sentire a posto.
Ma ero
certo che prima o poi avrei risolto tutto, in qualche modo.
Avevo
fiducia nel buddismo. Magari non tanta in me, ma nel buddismo sì. Devo dire
che, ripensandoci, in me c’era proprio un lato fanatico. C’è una sorta di
fanatismo nel modo con il quale affronto le cose, spesso assolutista, vita o
morte, sforzi inenarrabili di volontà e auto coercizione, nel fare le cose,
allora nel praticare, oggi nel rispettare impegni magari non richiesti, che
spesso si traducono in risultati frustranti e mediocri. Sì, c’è stato un tempo
in cui avrei potuto dare la vita per una idea. Come se dovessi dimostrare qualcosa a qualcuno che, per altro, se ne fotte di quello che faccio. Un
continuo agitarsi per niente. Era così allora. Volevo essere fedele a una
immagine, l’immagine del bravo buddista. È vero, in qualche misura sono stato fanatico. Devo ammetterlo. Se
le cose avessero preso una piega diversa, il mio fanatismo religioso si sarebbe sviluppato ancora di più. La mia
fortuna è che le circostanze mi abbiano bloccato il fanatismo religioso sul
nascere.
Perché
ci tenessi tanto a voler rispecchiare una immagine ideale, non lo so ancora
bene. Forse questa è la radice di ogni fanatismo. Mamma guardami! Papà,
guardami! Dio, guardami! E così via.
Forse
era l’aspirazione a una vita eroica, sopra le righe, non banale, insomma tutta
una serie di cazzate adolescenziali irrisolte ecc, ecc. L’origine della stupidità
maschile. Se trasformata è positiva. Nella storia dell’umanità raramente questa
aspirazione mi sembra sia stata trasformata in modo positivo.
Cosa ha
fermato questo processo che mi avrebbe portato ad essere ancora adesso
nell’organizzazione e a raccontarmi la favoletta dei benefici e dello scopo
della pace nel mondo?
Due
fattori.
Uno, era
una specie di tarlo interiore. Tutta la parata dell’organizzazione era un
continuo sforzo di annullare la cosiddetta parte oscura della vita, a
minimizzare il dolore, l’angoscia, le sconfitte, a incitare alla “vittoria
totale” sull’oscurità, la “vittoria contro i demoni”, a cancellare le
impressioni negative, a glissare continuamente sui comportamenti ipocriti dei
membri e dei responsabili. Tutti parlavano allo stesso modo, pensavano allo
stesso modo, ti guardavano stupefatti se dalla bocca ti usciva una critica. Ma
bisogna guardare prima se stessi, dicevano. Vero. Ma questa cosa impediva di
cogliere il vero problema. Come si può ottenere il risveglio interiore,
l’illuminazione, se si è spinti continuamente verso un conformismo pressoché
assoluto? Non è questa una contraddizione con la dottrina buddhista di Gautama
che dice che ognuno deve risvegliarsi da solo? Inoltre, man mano che passavano
gli anni, da una certa libertà naif di fare ed essere, si era scivolati in un
vero e proprio culto della personalità del Maestro, il presidente della Soka
Gakkai, Daisaku Ikeda.
Ikeda
era onnipresente, si studiavano i suoi discorsi, si vedevano i suoi filmati, si
compravano i suoi libri. Quando è venuto a Milano nel 1992, sono riuscito a
vederlo e ad assistere a una specie di psicosi collettiva. Quando è apparso ho
avuto la sensazione di averlo sempre visto, nel senso che sembrava uno che
vedevo tutti i giorni, da tanto mi sembrava presente.
Anche altri hanno avuto la stessa sensazione. Ikeda aveva detto poche parole,
nessuna memorabile e se ne era andato. L’effetto era incredibilmente
gigantesco, per quello che si era realmente svolto. Era una cosa mistica,
dicevano. No, ho pensato io, anni dopo. Era la stessa cosa che succedeva quando
parlavano Hitler e Mussolini. Una fascinazione
legata al bombardamento propagandistico
cui eravamo costantemente sottoposti.
Ikeda di
qua, Ikeda di là. Il mio Maestro. Eterno Maestro. E me lo ero pure fatto andare
bene, tanto che mi ero emozionato tantissimo in quell’occasione. L’ho rivisto a
Firenze nel 1994 e la gente aveva avuto la stessa reazione. Invece di assistere
allo spettacolo che avevano allestito, la gente fissava lui. Con adorazione. Come se avessero visto Gesù camminare sulle
acque. Un uomo eccezionale, dicevano. Un Buddha vivente. E anch’io lo credevo.
Il mio Maestro.
Ma Maestro
di che? Il tarlo mi rodeva. Come si può ottenere la consapevolezza,
l’illuminazione, se l’unico modo è passare attraverso l’adorazione pubblica di
un uomo? Se io sono un Buddha e il Maestro è un Buddha, forse ci sono Buddha di
serie A e quelli di serie B, o C ecc, ecc.
Ma poi
quali erano questi insegnamenti? Combatti. Vinci. Non arrenderti mai. Combatti
i nemici della giustizia. Non abbandonare mai la Soka Gakkai. Naturalmente.
Allucinante.
Io
credevo a tutto, ma il tarlo lavorava, dentro, inesorabile. Io, dove ero finito, lì in mezzo?
Massimo dov’era? Cosa stavo
diventando? Era reale tutto questo?
Questi
interrogativi erano per lo più inconsci. Desideravo disperatamente credere.
Perché lo desideravo? Perché era l’unico modo per sentirmi parte di qualcosa. Perché
mi sembrava l’unico modo per risolvere i miei problemi insolubili e insoluti.
L’amore, il lavoro, i soldi, la salute. Se lasciavo la Gakkai, cosa sarebbe
stato di me?
Avevo
cominciato da qualche anno a lavorare nell’editoria, uno dei miei più grossi
“benefici”. Volevo credere che tutto si sarebbe definitivamente trasformato
nella mia vita. Successo professionale, sentimentale, famiglia, figli.
Poi,
all’inizio del 2000, subentrò il secondo fattore, decisivo, esterno, questa
volta.
L’organizzazione
aveva deciso di dare un’impennata al numero delle conversioni. Bisognava
aumentare assolutamente di numero, fare proseliti.
Ho
dimenticato di dire che uno dei modi, forse il principale, per ottenere
“benefici” era quello di parlare agli altri della pratica. Si chiamava “fare shakubuku.”
Si era
avviata una attività gigantesca, centinaia di riunioni, ribaltamento degli
organigrammi, coinvolgimento selvaggio dei giovani che venivano letteralmente
“addestrati” ad essere duri e inflessibili nel propagare l’insegnamento. Si era
ritenuto che essere severi (molto
severi) fosse la forma giusta di compassione per gli esseri. Nessuna debolezza
di carattere poteva essere tollerata.
Ognuno
di noi era spronato a mettersi obiettivi
personali giganteschi, “impossibili”, sfidando ogni debolezza, ogni demone,
ogni oscurità.
Il
numero di membri da raggiungere in tutta Italia (35000 persone) era molto alto,
dato che eravamo in poco più di ventimila e la scadenza era il 18 novembre
2000.
Per
ottenere quell’obiettivo di adesioni di persone nuove in meno di un anno
occorreva uno sforzo enorme. Riunioni su riunioni su riunioni, si batteva il
chiodo sulla fede, sul non risparmiarsi, sul “dare la vita”, sulla disciplina.
I “vecchi” responsabili, abituati a una maggiore elasticità vennero rimossi da
un giorno all’altro, scatenando un putiferio indescrivibile. I “nuovi”
responsabili si dettero a comportamenti che si possono solo descrivere come
fascisti. Prevaricazioni, urla, accuse di tradimento, di “sporcare l’insegnamento”,
visite a casa per convincere il membro di turno a smettere di frequentare Tizio
o Caio perché “traditori”.
Ci
furono casi di vere e proprie molestie o di calunnie terrificanti. Un
responsabile venne accusato di maltrattare la moglie, accusa poi rivelatasi
infondata, ma sufficiente per essere cacciato via dall’organizzazione.
Io
lavoravo all’epoca, come editor di un mensile. Praticamente facevo il giornale
da solo, non so neanche come (adesso non sarei più in grado di fare una roba
del genere). Dovevo badare al lavoro che mi impegnava 10-12 ore al giorno e poi
correre a fare riunioni buddiste.
In cuor
mio, mi sentivo un eroe, pronto a sfidare il destino.
Non
sentivo nemmeno la fatica. Allucinante, a pensarci adesso.
Una
parte di me, da bravo soldatino, accettava i cambiamenti dell’organizzazione e
anzi, ero contento che ci fosse maggior disciplina. Volevo dar prova del mio
valore. Giocavo al samurai.
A un
certo punto però, il disastro in cui versava l’organizzazione non era più
possibile non vederlo.
Per
tutto il 2000 e tutto il 2001 vennero “epurati” un sacco di vecchi alti
responsabili. Si creò così un vero e proprio scisma, due organizzazioni in una.
Quella “ufficiale” e quella dei “vecchi” responsabili. Un casino assurdo del
quale i membri più in basso nella scala gerarchica (tra i quali c’ero io e
migliaia di altre persone) sapevano poco o nulla.
Quando due
“nuovi” responsabili (in realtà ci conoscevamo di vista più o meno tutti) vennero
a casa mia per informarmi che alcuni dei miei più cari amici erano dei
“traditori”, venni preso alla sprovvista. Ci si aspetterebbe che io avessi
preso subito le loro difese, ma non fu così e me ne vergogno ancora adesso. La
verità è che non sapevo a chi credere.
C’era un
“insegnamento corretto” stabilito dall’Eterno Maestro Ikeda, che era nero su
bianco nei discorsi che leggevamo tutti i giorni. Non bisognava avere riguardo
per i “traditori”. Dovevano essere “denunciati”. Non farlo equivaleva a essere
complici e quindi “tradire” il Buddismo e finire nell’inferno di incessante
sofferenza.
Rimasi
in sospeso. Volevo sentire anche l’altra campana.
Il
risultato fu che le due fazioni in lotta mi considerarono entrambi un
“traditore”.
Mi
sentivo tirato da una parte all’altra e volevo cercare di trovare un dialogo,
un punto comune, ma sembrava che fossero impazziti tutti.
Il 10
settembre 2001 ci fu una grande riunione a Milano, nella quale uno dei
miei amici, avrebbe dovuto essere accusato pubblicamente di essere un
“traditore”, una vera e propria autoaccusa di tipo maoista. L’uomo si mette sul palco e di
fronte a tutti ammette le sue colpe. Io non potevo credere alle mie orecchie.
Questo si autoaccusava di avere alterato alcune frasi di un discorso di Ikeda o
qualcosa del genere, ma che l’aveva fatto per rendere più chiaro l’insegnamento
ecc, ecc.
Successe
il finimondo.
Si
sentiva gente urlare una contro l’altra, bravi buddisti che volevano la pace
nel mondo erano sul punto di mettersi le mani addosso, e venivano trattenuti da
gente che urlava, una signora anziana era per terra, sul pavimento, svenuta.
Chiamarono un’ambulanza.
Venni
via dalla riunione con una sensazione tremenda, come se mi crollasse addosso il
mondo.
Il
giorno dopo, guarda caso, un pezzo di mondo vecchio effettivamente crollò, un
po’ per tutti.
Da quel
giorno il mondo per me non è stato più lo stesso e non tanto, non solo, per le
Torri Gemelle.
Non volevo
lasciare la pratica sulla quale avevo investito così tanto la mia vita, ma
tutta la follia che vedevo intorno a me mi sembrava ogni giorno più
intollerabile. Tutto stava crollando. Dove mai poteva trovarsi l’illuminazione
in mezzo a quella miseria?
L’inizio
del XXI secolo ha coinciso per me, con il crollo di tutte le ultime illusioni.
Per
qualche mese sono andato avanti con le mie “attività” buddiste. Correva voce
che Ikeda sapesse tutto della situazione italiana ma che non volesse prendere
posizione per evitare il disfacimento dell’organizzazione.
Ma non
sarebbe stato meglio, pensavo, disfare tutto, cacciare via questi delinquenti
fascisti e ricominciare daccapo? Invece niente. Dall’Eterno Maestro neanche una
sillaba sulla questione.
Inaspettatamente,
dopo tutta questa violenza, i “vecchi” responsabili epurati e i “nuovi”
trovarono un accordo e si rimisero a dirigere l’organizzazione in modi e toni
più lievi e sereni. Ma ormai il danno era fatto. Tantissime persone si
allontanarono dall’organizzazione. Io continuavo con sempre meno convinzione e
sempre più rabbia dentro. Ormai mi facevano schifo tutti, sia i “buoni” che i
“cattivi”. Alla fine nel cominciare quel disastroso progetto di proselitismo del
2000 erano stati d’accordo tutti. Ora facevano finta di perdonarsi, perché nel
buddismo non esiste torto o ragione, dicevano, ma l’unità di entrambi, che solo
una mente illuminata può percepire.
Ma Ikeda
non aveva detto che non si poteva accettare nessun compromesso con i
“traditori”?
Le
contraddizioni erano enormi.
Decisi
di scrivere a Ikeda direttamente, spiegando le mie ragioni, esponendo i miei
dubbi, come a un padre, come a una persona illuminata che potesse capire. Tanti
hanno fatto la stessa cosa. Scrivevano e una solerte giapponese traduceva e
inviava a Tokyo, dove risiedeva l’Eterno Maestro.
È
inutile dire che la mia lettera, anzi, nessuna lettera inviata da nessuno, ha
mai ricevuto risposta.
Da quel
momento ho smesso di andare alle riunioni. Non mi sono più fatto vedere per
molto tempo, da nessuno di loro.
Pur
recitando ancora il mantra, ogni tanto, non ho più voluto sapere niente di
dottrine e insegnamenti “corretti”.
Ho
cominciato ad avere grossi problemi di lavoro, ma ho resistito all’idea di
considerarli una “punizione” per avere abbandonato l’organizzazione. Erano
piuttosto, un misto tra le conseguenze delle mie azioni passate, basate sulla
mia insicurezza, e semplici eventi causali, legati alla vita in generale. Non
colpe, ma fatti da vivere. Ho aperto gradualmente gli occhi su tutta questa
follia ed è stato incredibile, come un secondo “vero” risveglio.
Ho
cominciato a informarmi, su Internet, su altri testi buddhisti, a leggere o rileggere
libri che avevo accantonato perché mi parevano non in linea con il furore
ottimista della pratica.
Ho
cominciato a sperimentarmi come essere “libero”. Sapevo che una libertà
assoluta non si può dare al mondo, ma avevo compreso che il processo di “liberazione”
dalle illusioni, è l’esperienza più importante e anche, perché no, esaltante
che può compiere un essere umano.
Mi è
presa una specie di frenesia demistificatoria. Ho cominciato a fare le pulci a
ogni credenza, ogni settarismo, ogni ideologia. Ho assecondato in un certo
senso la mia “normale” sfiducia” nell’uomo e nel mondo, ma ben presto mi sono
accorto di quanto anche questa sfiducia fosse una credenza come un’altra, una
valutazione non completamente razionale. Non credo che abbia senso essere
pessimisti, più di quanto abbia senso essere ottimisti. Sono entrambi
pregiudizi. La realtà è sempre più complessa.
Ho
vissuto in piedi, da solo, sulle mie gambe, da allora. Non ho avuto più la
tentazione di attaccarmi a qualcosa o qualcuno, lo so che non c’è nessuno là
fuori. Se c’è una Forza, è dentro di me. Se non c’è, è come se ci fosse lo
stesso. Da quando non ho più “illusioni” l’ansia, la paura, è diventata la mia
compagna più inseparabile. Convivo con l’ansia, ma almeno vivo nella verità o,
per lo meno, non vivo nella menzogna.
La mia
vita (nel senso che appartiene a me)
è cominciata a 40 anni. Non è un granché come vita, ma è tutto quello che c’è.
Sto imparando. Ho fatto, in questi 10 anni molte cose interessanti, altre un
po’ meno. Cerco di fare un passo alla volta.
Per anni
ho sentito un rancore atroce contro l’organizzazione per essere stato preso in
giro, ma poi ho capito di aver preso in giro me stesso. Forse, semplicemente,
non potevo fare altro. Non è una consolazione, ma purtroppo è la verità. Adesso
va bene, è passata anche questa, posso perfino riderci sopra.
Studiando
un po’ e informandomi sulle psicosi di gruppo, le psicologie dei movimenti di
massa, il fenomeno del cosiddetto carisma, ho compreso che quello che avevo
vissuto era né più, né meno, un lavaggio del cervello. Questo pericolo è
onnipresente in qualunque relazione sociale, perché la mente umana, anche
quella della persona meno sprovveduta, è facilmente influenzabile e
ingannevole. Credo anche che questo sia proprio il problema principale della
razza umana. Desideriamo tutti vivere in qualche illusione. Senza illusioni, la
nuda vita è atroce.
Ma
l’illuminazione non può essere illusa. Se c’è risveglio, deve essere proprio un
destarsi dal sonno e vedere le cose, per la prima volta, con nuovi occhi. Farsi
toccare dal sole della realtà, anche a costo di bruciarsi un po’.
Posso
dire di avere toccato con mano la radice del fanatismo e della stupidità. Posso
dire che ogni momento di vero “risveglio” interiore, ogni piccola presa di
coscienza, è un miracolo per me.
Ho
ricominciato a scrivere, cosa che avevo accantonato per 14 anni. Troppo preso a
far scaturire ad ogni costo la gioia per soffrire su una pagina bianca.
Ho
suonato il pianoforte in contesti per me favolosi e impensabili, prima. Se
avessi praticato sarebbero stati “benefici” incredibili da raccontare. Ma non
stavo praticando.
Un altro
aspetto della mia psiche è che, dietro la mia scorza razionale, sono soggetto a
credere alle superstizioni. Fortuna e sfortuna, karma, destino, ecc, ecc.
Ovviamente praticamente sempre in senso negativo. È stato il desiderio di
proteggermi da un senso di sfortuna innato, quello che mi ha spinto a praticare
il buddismo senza acca.
Nel
marzo del 2004 ho suonato al Teatro Strelher con Milva e Alda Merini, di fronte
a 800 persone e in una occasione così grande, mi sono rifiutato di recitare il
mantra propiziatorio.
Io non
volevo più essere schiavo della fortuna o della sfortuna. È andato tutto
benissimo lo stesso.
Non
dovrei dirlo.
La mia
anima superstiziosa è tuttora difficile da convertire. Illusione e
illuminazione si mescolano insieme.
mi è molto piaciuta questa esperienza di vita e come è stata descritta dall'autore. Anch'io mi sono avvicinata tramite amici a questo buddismo giapponese, anche se da subito ho capito che non mi corrispondeva perché gli obbiettivi che si proponevano e per i quali si doveva recitare il mantra, erano fondamentalmente egoisti. Inoltre non si toccavano temi come ad esempio il dover essere vegetariani ponendosi quindi il problema del rispetto per tutte le forme di vita. Un altro punto dolente che ho potuto constatare anch'io come Massimo, è il culto della personalità del maestro. Credo che il detto buddista che consiglia di uccidere il budda qualora lo si incontri, si riferisca proprio a questa propensione malsana della psiche umana, causa di tanta sofferenza che proprio il buddismo si propone di superare.
RispondiEliminaIl mio commento è diviso in due parti perché ho superato i 4.000 caratteri
RispondiEliminaCiao, sono una giovane donna di 29 anni, sono molto incuriosita dalla pratica buddista della Soka Gakkai. Da diversi mesi partecipo agli zadankai e sto pensando di ricevere il Gohonzon. Il tuo articolo è toccante ed è scritto molto bene. Mi sono avvicinata al buddismo con spirito critico e con spirito di ricerca. Mi sto informando, sto cercando di prendere consapevolezza di tutti gli aspetti dell’organizzazione che mi piacciono e di quelli che al contrario non condivido. Sto leggendo qualche saggio scritto da sociologi, antropologi e studiosi di storia delle religioni sulla diffusione dei nuovi movimenti religiosi e in particolare sulla Soka Gakkai. Avendo studiato antropologia culturale, mi sono avvicinata alla Soka Gakkai anche con spirito di ricerca. Le prime volte che sono andata agli zadakai continuavo a ripetermi che in fondo era antropologicamente interessante, ho persino scritto qualche progetto di ricerca antropologica, ma la verità è che allo stesso tempo ero alla ricerca della mia spiritualità. Non riuscivo ad ammetterlo a me stessa, ma per la prima volta nella mia vita mi stavo realmente avvicinando ad una pratica religiosa e per la prima volta provavo un coinvolgimento emotivo forte. Ho cominciato a pensare che una volta completato questo percorso di approfondimento e studio (dove studiare non vuol dire solo leggere testi pubblicati dalla Soka Gakkai) avrei potuto decidere se abbracciare totalmente la pratica e prendere il Gohonzon oppure no. Nel corso degli ultimi mesi ho cambiato spesso idea a riguardo, ma proprio in questo periodo mi sto sentendo più vicina alla pratica. Mi chiedo: “se a distanza di mesi qualcosa mi spinge sempre a frequentare il gruppo e a praticare, tanto vale provare ad ‘abbandonarsi’ del tutto.” La fede è un abbandono. Posso dire di ‘credere’ nel vero senso della parola, di provare quella tanto ricercata fede? In realtà no. La verità è che secondo me ognuno deve trovare il suo percorso per essere felice, ma bisogna farlo con consapevolezza. Se deciderò di prendere il Gohonzon non sarà di certo per fare di un ‘maestro’ giapponese che non conosco il mio idolo indiscusso (i miei veri maestri sono le persone che stimo, che mi stanno vicine e che in questo momento percepisco come punti di riferimento); non sarà di certo per illudermi di poter risolvere tutti i problemi della mia vita con una bacchetta magica. I praticanti che ho conosciuto affrontano problemi come tutti gli altri e come tutti gli altri li risolvono. Però lo fanno con spirito positivo, con quella fiducia in se stessi e nella loro potenzialità interiore, accompagnati da quella vocina che gli ricorda che possono essere felici qualunque cosa accada (in fondo il Gohonzon è simbolicamente lo specchio di noi stessi, non è un oggetto da venerare). Dunque nel loro caso la pratica buddista funziona davvero (e questo non vuol dire che debba essere la strada adatta a tutti).
Io non credo che la felicità possa essere trovata solo ed esclusivamente tramite questa pratica buddista e ho conosciuto anche diversi praticanti che la pensano come me. Ognuno deve trovare la propria strada, il proprio metodo. In fondo è anche questione di metodo. È facile dire che basta essere ottimisti nella vita per essere felici, ma nel momento in cui io recito Nam Myoho Renge Kyo o faccio qualche altra cosa che mi ricorda quotidianamente, con regolarità, che sono indistruttibile, un effetto positivo nella mia vita lo riscontro.
Magari un giorno arriverò a credere che realmente questo mantra è più potente degli altri, o magari no. Ma in tutti i casi non cercherò mai di invadere lo spazio altrui o di convincere persone che hanno trovato la felicità in altro modo (da atei o tramite altri percorsi religiosi). La verità è che mi sono sempre considerata agnostica ed è la prima volta che una pratica religiosa mi coinvolge emotivamente. Anche io, come è successo a te in passato, sento il bisogno di trovare una mia spiritualità (i miei genitori sono entrambi atei ed è la prima volta che mi lancio nella ricerca di un percorso religioso).
RispondiEliminaMi sto convincendo che l’importante è fare le cose con consapevolezza. Per esempio io sono consapevole del fatto che in questo momento della mia vita, un momento di incertezze e in cui mi sento fragile, il bisogno di sentirmi parte di un gruppo è forte. Questo è sicuramente uno dei motivi che mi porta ad avvicinarmi ad un gruppo religioso così ben organizzato (con tutti i pregi e i difetti, i pro e i contro che ogni organizzazione poi inevitabilmente comporta). Ne prendo consapevolezza. Ho fatto un passo in avanti. Magari un giorno non ne avrò più bisogno, o magari sì. Magari la mia fede sarà incrollabile, oppure no. Ma in fondo quale è il nostro scopo in questa vita attuale, breve e imprevedibile? Essere felici. Dunque non rimpiangere il passato. In passato e per tanti anni far parte di una organizzazione religiosa come la Soka Gakkai ti ha reso felice, dunque è stato bene così. Ti è servito a qualcosa, hai fatto un tuo percorso, hai capito meglio te stesso mentre eri dentro e quando poi ne sei uscito. Adesso non sei più buddista e magari stai trovando la felicità altrove. Bene così. L’importante è trovare il modo per essere felici e, quando si sceglie una strada, percorrerla con consapevolezza. Il mio consiglio è di non provare rancore (se per caso lo provi) ripensando al tuo passato, ai tuoi compagni di fede e a quello che hai fatto. In quel momento ne avevi bisogno. In fondo tutte le organizzazioni hanno i loro pro e contro (è questa la verità, l’illusione sta nel credere che esista una organizzazione perfetta). Tu che hai avuto modo di ricoprire dei ruoli di responsabilità all’interno della Soka Gakkai, hai potuto vivere in prima persona quelle contraddizioni che si ritrovato in tutte le organizzazioni. Inoltre hai vissuto in pieno gli anni di crisi dell’organizzazione (che per fortuna poi sono stati superati). In fondo tu in quegli anni sei stato coraggioso, ti sei esposto, hai provato a prenderti delle responsabilità e semplicemente adesso hai capito che quella organizzazione non fa per te. Questo non vuol dire che hai perso tempo. Inoltre non tutti i buddisti sono chiusi e ‘settari’ come pensi. Ci sono tante persone che si sono avvicinate alla pratica e la pensano come me. Per esempio a me non verrebbe mai in mente di pensare che se hai lasciato la pratica potresti avere delle ripercussioni negative. Una mia cara amica è stata membro per tanti anni, mi fece shakubuku in passato, ma io non ero molto interessata. Ora che io sto partecipando agli zadankai lei non si considera più buddista, ha abbandonato la pratica ed è una persona serena e felice. Vuol dire che ha trovato un’altra strada. Dunque auguro anche a te tanta serenità e non rimpiangere mai qualcosa che comunque in passato ti ha aiutato. Lo stesso vale per l’amore. Ci possiamo innamorare di persone che poi ci deludono e che decidiamo di lasciare, ma perché provare rancore se ci hanno comunque regalato felicità? Andavano bene allora, non vanno più bene oggi. La vita cambia e noi cambiamo con lei. La vita è troppo breve per il rancore ;) Grazie
SPECIALE "IL NUOVO"
RispondiEliminaPROSEGUIAMO LA PUBBLICAZIONE DEGLI ARTICOLI PIU' RILEVANTI DELLO SCORSO NUMERO DEL NOSTRO GIORNALE, CON L'INTERVENTO DECISAMENTE INTERESSANTE REALIZZATO DA DOMENICO ALDORASI.
VIAGGIO SENZA RISPOSTE NEL MONDO DEL BUDDISMO
PERCHÉ?
di Domenico Aldorasi
Sono Domenico Aldorasi e vivo a Castelnuovo di Porto da quando sono nato, nel 1966.
Per vent'anni ho fatto il musicista in un gruppo che si chiama Ladri di Carrozzelle.
Nel 1999 inizio una relazione con Alma che nel 2002 si trasferì per amor mio da Bari a Castelnuovo ed in seguito divenne mia moglie nel 2009.
Il mio percorso spirituale mi ha portato nel ’94 a diventare membro dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai proprio perché sono da sempre convinto che il dialogo tra persone di differenti culture, differenti religioni, diverse visioni della vita e della società sia un valore fondamentale, una ricchezza irrinunciabile.
Fu proprio la meravigliosa filosofia e l’umanità dei fedeli della Soka Gakkai che mi hanno permesso naturalmente di sviluppare un’adesione emotiva ed una costante partecipazione alle sue attività.
Con il passare degli anni entravo sempre più nell'ottica buddista attraverso lo studio dei suoi principi, la recitazione del mantra e del Sutra e la partecipazione alle attività (che consistono principalmente nell’incontro tra i fedeli). Insomma il buddismo mi calzava come un guanto fatto su misura e così sentivo un senso di libertà mai sperimentato prima.
Anche Alma nel 2010 decise di diventare fedele della Gakkai.
In questi 23 anni infinite volte ho aperto la mia casa per accogliere persone buddiste o intenzionate a conoscere il buddismo e lo ho fatto sempre con grande gioia.
Insomma si è capito che c'ero dentro con tutte le ruote? segue------
......Tutto cambia nel 2016.
RispondiEliminaIl testo della liturgia viene modificato.
A parer mio c’è uno stravolgimento di un punto fondamentale della pratica.
Sento il bisogno di approfondire e confrontarmi sulla cosa con altri compagni di fede.
Solo il mio amico Francesco sembra però veramente interessato alla questione.
Insieme decidiamo di adoperarci per aprire un tavolo costruttivo.
Scriviamo ai vertici dell’organizzazione e dopo un’attesa di alcuni mesi incontriamo il Vicedirettore Generale.
A seguito di un confronto vivace e dopo iniziali resistenze siamo invitati ad approfondire la materia in questione per avanzare una proposta che possa apportare un miglioramento.
Ci impegniamo in tal senso per sei mesi.
Chiediamo un nuovo incontro al Vicedirettore per condividere il risultato delle nostre ricerche e dei nostri approfondimenti.
Veniamo ricevuti dopo altri sei mesi e in questa sede ci viene suggerito di chiedere un appuntamento al Direttore Generale.
Non verremmo mai ricevuti.
La notte scorsa ho sognato che squillava il telefono….
-Pronto chi è?
-Buongiorno sono Tamotsu Nakajima il Direttore Generale dell'Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai potrei parlare con Domenico Aldorasi?
-Buongiorno, te lo passo sono Alma, la moglie.
-Ciao Domenico è passato tanto tempo ma volevo scusarmi con te perché il 21 maggio al nostro centro culturale te e Francesco che eravate lì per il vostro turno di attività´ di accoglienza mi avete chiesto un appuntamento anche a lungo termine ma sia io come Direttore Generale sia Anna Conti in qualità di responsabile Nazionale Donne abbiamo risposto di no.
-Grazie...
-Poi volevo anche scusarmi perché non ho risposto alla raccomandata arrivata il primo giugno con la quale mi chiedevate nuovamente ed in maniera formale un incontro.
-Grazie...
-Ed infine volevo scusarmi perché, anche se fuoriusciti dalla Soka Gakkai Italiana il 24 giugno scorso, nonostante mi abbiate fatto pervenire la vostra disponibilità ad un incontro per un dialogo costruttivo a tutt'oggi non mi ero fatto ancora sentire.
-drin drin drin (una sveglia sta suonando)
Ora son sveglio e continuo a chiedermi come oramai da molte sere e da molte mattine
"Perché il Direttore Generale non ha voluto ricevere due fedeli che hanno chiesto un incontro, tra l’altro su suggerimento di un suo stretto collaboratore?"
“Perché non ha risposto alla raccomandata?”
“Perché non ha voluto comunque dialogare visto che il dialogo é alla base di tutta le attività della SGI che così tanto tutti i membri dell’organizzazione si vantano di promuovere, praticare ed apprezzare?”
Perché è andata così?