La
conoscenza non è un dato cumulativo. Accade, a volte. Non è detto, ma può succedere.
La
parte di me che dice no, che non vuole fare parte, che detesta il gioco, che
vuole scoprire le carte, è forse la parte sbagliata? O non è per caso la parte
più vera di me, il mio vero io, quello che sono davvero? E se è così, non è
dunque questa parte che dice no, così com’è, la mia vera parte spirituale? Se
questa parte di me non si è mai accontentata di facili risposte, se ha pagato
sulla propria pelle le rinunce e i fallimenti di chi spera e non trova, non si
è forse guadagnata il diritto, questa parte, di vivere la propria vita fino in
fondo?
Diventare
ciò che si è, non significa forse semplicemente questo?
Ne
“L’uso del piacere” di Foucault si
evince che lo scopo vitale della sua vita era sentirsi bagnati “dalla
dimenticata scintilla della luce primigenia” e sentirsi in sintonia con quella
misteriosa (e forse divina) scintilla interiore che Kant chiamava libertà,
Nietzsche chiamava volontà di potenza e Heidegger chiamava il “trascendente
puro e semplice”.
(da The Passion of Michel Foucault di James Miller)
Attenzione,
attenzione, uomo! O Mensch, gib acht!
TU
– NON – SAI – NIENTE: non dimenticarlo mai.
Non farti prendere da stronzate dualistiche,
non dualistiche, da guru, para guru, simil – guru, puttanate New Age …
Non
cascarci, sarebbe penoso e ridicolo.
Siamo
bambini. Vogliamo essere imboccati. Cucchiaiate di verità che da soli non
possiamo prendere. Chi ce le da, queste cucchiaiate? Mamma e papà maestri.
Quando ci nutriremo da soli? Dopo quante vite?
Sto
ammucchiando Gurdjieff, Ligotti, Kierkegaard, Nishitani, Nietzsche, l’alchimia,
U. G. Krishnamurti, la teoria delle stringhe, il morire a se stessi di Angela
da Foligno, Bataille, Mishima e sto facendone un frullato indigesto. Qualcuno
direbbe che sto giochicchiando con il nichilismo e i suoi derivati. Può essere,
sia pure non consapevolmente. Il nichilismo non mi affascina, lo trovo
superficiale. Non che d’altro canto io sia affascinato dalle religioni, no
grazie.
Si
tratta semplicemente della consapevolezza che se qualcosa ci è dato conoscere
di questo universo è solo attraverso la totale negazione: l'esatto opposto dell'ingiunzione di Wittgenstein "di ciò che non si conosce occorre tacere". No, occorre parlare. Anzi, è l'unica cosa di cui vale la pena parlare, ciò che non si conosce. C’è nel perseguire la negazione forse la speranza
catartica di arrivare junghianamente a una coincidenza degli opposti che
procuri pace, illuminazione e felicità? Non è questa l’ennesima illusione?
Forse,
semplicemente, queste acrobazie teoretiche placano momentaneamente il desiderio
di conoscenza. Non danno senso, ma mettono in luce la vita di piccoli esseri
umani come te, che tanto hanno sperato e amato e tanto sono stati delusi. Forse
non cerchi la verità, cerchi fratelli.
L'occhio vede a partire dalla propria cecità, come pare abbia scritto Merleau-Ponty.
RispondiEliminaIn fin dei conti la pretesa di verità oggettive è un vizio direttamente connesso al nostro umanissimo delirio di onnipotenza: siamo un ossimoro vivente. Conoscere, invece, la particolare verità di se stessi ed aderirvi, qualunque cosa sia, è un obbligo se si vuole almeno dire di aver vissuto.
RispondiEliminaCiao Massimo.