Ho passato tutta la scorsa notte in un vuoto e doloroso stupore. Ho architettato, mentre le ore scorrevano in una specie di melassa vischiosa e zeppa di zanzare e sudore, migliaia di omicidi e violenze di ogni tipo, ai danni di tutti gli umani conosciuti e sconosciuti. Non sopportavo più il mondo, le cose, le dinamiche di affetti e illusioni, sempre le stesse. Mi sono lasciato andare a una rabbia impotente e infantile. Ero in preda a una smania atroce che contrastava stranamente con il mio giacere supino nel letto. Pochi movimenti, non eccessivamente agitati, mi sono solo alzato un paio di volte a pisciare, sono andato sul balcone a contemplare le luci della tangenziale, il distante ronzio continuo della gente che si muove sempre, ad ogni ora, anche in questo momento. Qualche sirena di polizia, lontano. Le luci lontane dell’aeroporto, nessun volo notturno da qui.
Mi sono rimesso a letto in preda a un furore ansioso. Allora è cominciata la domanda, pressante, semplice, come tutte le domande vere.
Che cosa vuoi, alla fine? Tu, che cosa vuoi? Cosa vuoi?
Non sapevo dare che risposte confuse, vaghe, ottuse e la domanda continuava.
Che cosa vuoi?
Non essere qui, pensavo, non essere in alcun modo qui, mi dicevo, ma senza convinzione, né alternativa, né un dove.
Che cosa vuoi? Che cosa vuoi?
La domanda si spegneva contro il chiarore che entrava dalle persiane semi aperte.
Cosa vuoi? Cosa vuoi?
Non lo so, non essere qui, ma nemmeno, qui va bene, un’altra donna, forse sì, ma nemmeno, morire, no, morire no, la vita è un peso, ma la morte mi fa orrore, vorrei anzi vivere per sempre anche se questo voler vivere per sempre è un concetto poco chiaro, come il resto, dopotutto.
E d’altra parte, vivere, sì, ma in che modo? Non certo come stai vivendo ora.
Sempre che si possa chiamare vita questa processione stitica di giorni vuoti che ti portano ogni volta più vicino alla fine. La fine inevitabile di questa idiozia. Ecco, questo non lo vuoi, non che tu abbia veramente la presunzione di sfuggire al comune destino, ma non vuoi arrivarci così. Hai ancora da vivere, anche se la vita è dolore, un dolore immenso, continuo, un peso sul cuore e dietro gli occhi. Ecco, è questo dolore di vivere, impensabile, mai provato così, che mi fa smaniare. Non è un dolore per qualcosa, ma è dolore per tutto.
Mi fa male il mondo. Mi duole la vita. Non mi sono mai sentito così. Non è cattiva digestione. È qualcos’altro.
Cosa vuoi? Cosa vuoi?
Andare via, andare via da qui. Andare dove nessuno mi possa trovare, dove posso rannicchiarmi in un angolo, come una bestia ferita e rimanere lì, così, finché il dolore non passa. Andarmene da qui. Ma poi qui hai tutto quello che ti serve, tutto quello che ami, anche se questo dolore che senti cancella l’amore. L’amore, anzi, diventa uno scherzo feroce, l’ennesima illusione. La verità è solo questa atroce solitudine. Non puoi andartene, non serve, non è questo.
Cosa vuoi, allora? Cosa vuoi?
Niente di concreto, né di fattibile usciva da dentro di me, sentivo solo il tempo, il mio tempo che passava, irreversibile, mentre la notte si liquefaceva nel calore. Ma non era il calore che soffrivo, era questa insistente domanda senza risposta.
Che cosa vuoi?
Voglio non soffrire così, pensavo, l’unica cosa che voglio è non soffrire così, non spegnermi in questo vuoto. È la coscienza, pensavo, è la coscienza che mi porta questo dolore. È questa coscienza di me stesso che mi paralizza, mi ha sempre paralizzato. E adesso nel cuore della notte, mentre tutti dormono, lei dorme, la vita intera veglia e dorme allo stesso tempo ed è più grande e distante che mai … c’è questa cosa.
Fossi più ottuso, fossi meno presente a me stesso, potrei … vivere. O almeno dormire.
No, non è la strada giusta. Non si baratta il dolore con l’idiozia. Almeno, io non lo voglio fare, non ci sono ancora costretto.
Che cosa vuoi? Che cosa vuoi?
Voglio essere un io senza paura. Per il tempo che mi rimane. Ecco, ci siamo, questo potrebbe essere accettabile. Rimanere nella coscienza, che è origine del dolore, senza paura. Non fuggire.
Che cosa vuoi? Che cosa vuoi?
Non voglio più sentire questa atroce, ingiustificata, paura di vivere che mi annienta.
Voglio vivere nel sole, nella pioggia, nel vento, nel dolore e nella gioia, senza paura. Voglio poter cadere dentro la vita, precipitarci attraverso lanciando un grido di potenza.
Voglio essere il Dio di me stesso, senza colpe, senza peccati, senza freni.
Libero dalla paura di morire. Libero di vivere. Libero di morire. Libero di essere. Niente meno. Impresa colossale, al di là delle mie forze, eppure unica impresa che valga la pena di intraprendere.
Non ho risposto alla domanda. Essa continua tuttora e continuerà, perché la risposta non può essere in alcun modo verbale. So come dovrei rispondere.
Ma sono ancora paralizzato dalla paura, che si trasforma in furore, che si trasforma in angoscia, che si trasforma in solitudine, che si trasforma in insoddisfazione, che si trasforma in infelicità, in morte, in distruzione.
Non so come andrà a finire. La paura è tutto ciò che ho sempre avuto. Compagna di ogni attimo della mia vita. Cagna fedele, mi lecca la mano a ogni passo.
O paura che mi separi dal precipizio di perdere me stesso, o forse di ritrovarmi, non so.
Invece devo imparare a morire a me stesso, per rinascere.
Forse il prezzo da pagare è la sanità mentale, forse rimarrei spezzato se cercassi di varcare il confine. Questo pensiero è figlio della paura stessa.
Se non imparo a morire, non imparerò a vivere.
Questo non sarebbe un problema, se vita e morte fossero evitabili. Ma poiché non lo sono, devo risolvere questo dilemma. Devo imparare a morire, per rinascere.
Cosa me lo impedisce? L’attaccamento a questa parte di me timorosa, il bambino pauroso che tenta di preservarsi da un modo cattivo e ostile. Il bambino mai cresciuto, che non crede in sé stesso, che si atterrisce fino allo sfinimento di fronte all’ignoto.
Non cerco la felicità, cerco la libertà dalla paura. Forse sono la stessa cosa. L’espansione dell’io, inteso non come meccanismo egocentrico, ma come stimolo a fare qualcosa che possa essere di aiuto anche agli altri. Cerco la mia dignità, la mia forza.
Sono ancora lontano, molto lontano dalla meta. Rischio seriamente di morire lungo il percorso senza aver fatto un passo avanti. Ne sono consapevole.
La mia follia, la mia vita, la mia paura, il frutto dei miei giorni. Tutto può cambiare. Oppure tutto può rivelarsi giusto così com’è.
Sono preso nel mezzo. Non posso andare né avanti né indietro. Per ora.
"non cerco la felicita' , cerco la libertà dalla paura" ...capisco il senso profondo di questa tua affermazione...
RispondiEliminaPosso dirti che un mezzo esiste...cadere dentro quel precipizio della non salubrità mentale, con il rischio di non riuscirvi a risalire...perdendo si la paura ma la coscienza anche dell' esistere...essere larva...
NO! e' preferibile, credimi, avere paura ed agoscia e senso di frenesia, ed insofferenza verso se stesso e gli altri perché...alla fine arriva un momento che capirai che e' passata, ma tu sarai in essere nuovo, speciale ed unico...
Scusami l' enfasi ma non trovo altro modo per spigarmi che tutto ciò che hai scritto e' possibile...
Grazie, S. Davvero.
RispondiEliminaSenza fiato.
RispondiEliminaP.S.
Non sei solo a "essere preso nel mezzo".
Ti ho letto con tanto interesse e partecipazione, ma non ho risposte o soluzioni da darti. Posso solo dirti che ti capisco.
RispondiEliminaUn abbraccio.
Massimo, quanti anni hai?
RispondiElimina@ Anonimo
RispondiEliminaMezzo secolo secco. Se non mi guardo allo specchio e non faccio caso a talloniti e abbassamento della vista me ne sento perennemente 25. Non credo sia un buon segno.
"Il bambino mai cresciuto che non crede in sé stesso...."
RispondiEliminaIo, invece, ho sempre creduto in te, anche quando avevi 25 anni.
Un abbraccio.
Rosy F.