Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

giovedì 8 marzo 2012

Conversazioni a tavola


-          Se non ti va bene come sono perché non te ne torni da lei?
-          Lei, sempre lei. La vogliamo lasciare fuori per un attimo, lei? Giusto un attimo.
-          Ti piacerebbe, vero? E invece devi soffrire. Sulla graticola, ti voglio vedere.
-          La tua inutile gelosia. Per quanto tempo ancora mi dovrai tormentare?
-          La tua ipocrisia, la tua mollezza sono disgustose. Sei un ometto da niente. Un cazzone come tutti gli uomini.
-          Mi fai solo pena.
-          Mai quanta me ne fai tu.
-          Almeno abbassa la voce.
-          Questa è casa mia. Io la voce la alzo quanto mi pare.
-          E piace.
-          Cosa? Cosa?
-          Mancava e piace. Di solito si dice quanto mi pare e piace.
-          Ti piace sentirti superiore, vero?
-          No. È che sono superiore.
-          Ma se non riesci neanche a scoparmi. Sei penoso.
-          Alla fine si casca sempre lì, vero?
-          La lingua batte dove il dente duole. Non si dice così?
-          Beh, non è sempre stato così.
-          È così da secoli.
-          Sei la solita esagerata. È questo il problema con te. Hai una visione distorta della realtà. Vedi le cose in modo anormale, amplificato.
-          Facile dare sempre la colpa agli altri, vero?
-          Non è una colpa, è una constatazione …
-          Mi stai dando della pazza. Come tua madre, vero? Tutte pazze, le donne, vero?
-          Che c’entra mia madre, adesso?
-          Vuoi dirmi che anche io ho bisogno degli elettroshock vero? Come la mammina.
-          Vedi, anche adesso stai esagerando. Cosa c’entra questa storia?
-          C’entra perché tu la usi sempre per giustificarti di tutto. Ogni volta che stai lì sul quel cazzo di divano con gli occhi vuoti e io non so cosa fare, salta sempre fuori la mamma: la povera mamma fuori di testa. Signori e signore, non è colpa mia se sono uno sfigato, non è colpa mia se non ho combinato nulla nella vita,  ma Della Maledetta Mamma Che Era Pazza!
-          Basta, puttana. Basta gridare, ti ho detto!
-          Questa è casa mia, bello. Mia, hai capito? MIAAAAAA!
-          Ti ammazzerei. Cazzo, certe volte ti ammazzerei.
-          Sì? Allora AMMAZZAMI, FORZA! CHE ASPETTI? NON HAI LE PALLE PER FARLO.
-          Perché urli, Cristo di un DIO!
-          AMMAZZAMI, FORZA! EHI, VUOLE AMMAZZARMI! VUOLE AMMAZZARMI!
-          Va bene, va bene, fai come ti pare. Tu  mi farai impazzire. Urla pure, sfogati quanto vuoi. Tanto con questi urli sei tu che ti squalifichi di fronte ai vicini, non io.
-          È questo che conta per te, vero? Quello che pensano i vicini. Non certo quello che penso io.
-          E quello che penso io, allora? Quello che penso io, quello che sento io non ha mai la minima importanza …
-          Ecco ancora La Vittima. Povero piccino.
-          Sei tu che tiri fuori questa storia, non io. Come al solito.
-          Perché è sottintesa, no? Lo so come funziona …
-          Ah, sì? Davvero sai come funziona? Credi di sapere cosa significa avere una madre che subisce gli elettroshock?
-          Ma chi se ne frega. È roba di quarant’anni fa. Nessuno fa più elettroshock.
-          No, adesso i depressi li imbottiscono di psicofarmaci, come tua madre. Vero?
-          Lascia stare mia madre!
-          E tu lascia stare la mia.
-          Io almeno non mi nascondo dietro di lei, come fai tu.
-          Io non mi nascondo dietro nulla.
-          Sì, come no.
-          Insomma, si può sapere che cazzo vuoi da me?
-          Da te non mi aspetto più niente.
-          Ma che frasi sono? Perché questi melodrammi?
-          Sai cosa vuol dire stare con un uomo su cui non puoi fare affidamento?
-          Sai cosa vuol dire stare con una donna alla quale non va mai, ma dico mai, bene un cazzo di quello che faccio?
-          Quando cresci? Sei decrepito e fai ancora il bambino. Dai la colpa agli altri, come sempre. Dai la colpa a me della tua insoddisfazione. Ti senti una nullità e dai la colpa a me, perché non ti sostengo abbastanza. Fai lo scemo per non andare in guerra.
-          Non la finirai mai? MAI? Cosa ti ho fatto?
-          Lo sai.

-          Non mangi?
-          Non ho fame. Ho lo stomaco chiuso.
-          Mangia.
-          Io faccio quello che posso.
-          Lo so. Mangia.
-          Lavoro dalla mattina alla sera.
-          Anch’io lavoro dalla mattina alla sera.
-          Ho passato i miei guai. Faccio quello che posso.
-          Lo so.
-          Certe volte, vorrei andarmene a letto e non svegliarmi più.
-          Bene. Bell’egoista che sei.
-          Egoista?
-          E a me? A me non ci pensi?
-          Come, non ci penso? Tutto quello che faccio, per chi lo faccio?
-          Dai, mangia adesso. Si raffredda.
-          Sono seduto sul divano, come dici tu? Con gli occhi vuoti. Ma sai quante volte vorrei parlare, aprirmi, poi mi dico, che parlo a fare? Come apro bocca vengo frainteso.
-          È lo stesso per me.
-          Ma perché urli, perché. Che bisogno c’è? Almeno non urlare.
-          È il mio carattere. Io non sono una persona calma come te.
-          Magari lo fossi.
-          Pensa che noia.
-          Magari ci annoiassimo così. Nella pace, nel silenzio. Sdraiati a guardare il cielo e le nuvole.
-          Non fa per me. Io voglio sentirmi viva.
-          È questa la vita?
-          Sì, per me anche questa è la vita.
-          Scannarsi per ogni cosa? Esagerare tutto?
-          Il fatto è che tu hai paura del confronto, ecco. Io invece penso che il confronto sia fondamentale.
-          Confronto non vuol dire umiliazione.
-          Tu sei troppo orgoglioso, ecco la verità.
-          Io il mio orgoglio l’ho perso non so quanti anni fa. Da quando ti conosco. Per un po’ ha resistito, il mio orgoglio, poi è morto. Deceduto.
-          Sì, come no. Ecco qua il poveruomo arrendevole. Il fatto è che dietro quella tua faccia da cane bastonato, si nasconde un gran paraculo.
-          E perché sarei un paraculo?
-          Perché sotto sotto fai sempre come cazzo ti pare. E poi vai in giro a fare la vittima.
-          E cosa farei, sentiamo. Com’è che faccio sempre come mi pare?
-          Ma sì, il bar, la partita, gli amici. Se devi andare vai. Senza tanti complimenti.
-          Ma mica lo faccio tutte le sere. Saranno sì e no due o tre volte al mese. Anche tu esci con le tue amiche. Dove sta il problema?
-          Non c’è problema. È che non capisci quanto sei fortunato.
-          Fortunato?
-          Fortunato, sì, perché stai con una persona che ti lascia libero.
-          Parli come se fossi un cane da lasciare libero di correre in cortile.
-          Non tutti sono così, sai? Tanti uomini non muovono un passo se la donna non vuole.
-          È demenziale.
-          Tanti uomini sono succubi.
-          Sì, come tuo fratello.
-          Già. Sua moglie fa bene. Non dare per scontate le cose.
-          Che cosa darei per scontato?
-          Non dare me per scontata. Non credere che io non possa avere un altro uomo.
-          Non lo credo. Non l’ho mai creduto.

-          Hai un altro uomo?
-          Ho detto che potrei averlo, se volessi. Mangia la pasta, adesso.
-          È buona. Cosa sono questi? Funghi?
-          Funghi trifolati con pezzettini di coppa stagionata.
-          È buonissimo. Brava.
-          Grazie.
-          Hai un altro uomo?
-          Oh, Gesù. No. Non ho un altro uomo. Ho detto solo che potrei averlo.
-          Hai conosciuto qualcuno?
-          Ma che dici?
-          Lo capirei. Davvero, lo capirei. In fondo, scopiamo poco. E tutto quello che conta è questo, vero? Sono esigenze primarie. Lo capirei.
-          Ma chi se ne frega.
-          Lo capirei, ti dico. Davvero.
-          E cosa faresti?
-          Cosa farei? Nulla, farei.
-          Non faresti nulla?
-          No.
-          Non ti arrabbieresti?
-          No.
-          Non soffriresti?
-          Sì. Soffrirei, certo.
-          Ma non faresti nulla.
-          No. Aspetterei.
-          Cosa?
-          Che la cosa finisca. In un modo o nell’altro.
-          Sei una persona passiva. L’ho sempre detto. Lasci che la vita decida per te.
-          A volte è la cosa migliore da fare.
-          Stronzate. Stronzate filosofiche. Come sempre, dalla tua bocca escono solo stronzate filosofiche. E niente di concreto.
-          Che facciamo, ricominciamo? Ricominci ad alzare la voce?
-          Vuoi sapere la verità?
-          Anche se dicessi di no, non me la risparmieresti, vero?
-          La verità è che ti senti in colpa. Tu lo sai di non avere la coscienza pulita. È per questo che non faresti nulla. È per questo che hai sempre quell’aria da cane bastonato.
-          Coscienza pulita? Ma di che cazzo parli?
-          Lo sai di cosa parlo.

-          Vai a prendere la frutta. In frigo.
-          Va bene.
-          Senti che urla.
-          Sono quelli del piano di sopra.
-          No, peggio. Sono quelli di due piani sopra.
-          Mio dio, è terribile. Non è che li abbiamo innescati noi?
-          Che vuoi dire?
-          Cioè, sentendoti urlare …
-          Stai dando la colpa a me, per caso? Come tuo solito?
-          No, no, non volevo dire questo. Solo che a volte basta poco per scatenare certe cose.
-          Santo cielo, ma noi non siamo mica così.
-          Dio mio, che pena. Non posso sentirli.
-          E tu ti preoccupavi dei vicini, vero?
-          Beh, loro non se ne preoccupano di sicuro.
-          Siamo fortunati, vero? Voglio dire, tutto sommato, lo siamo.
-          Credo di sì. Ascolta …
-          Ti ascolto.
-          È successo tanto tempo fa.
-          Non così tanto tempo fa.
-          Due anni.
-          Due anni da quando hai chiuso. E tutto il tempo prima?
-          Non è stato tanto tempo.
-          Sei mesi non è tanto tempo? E con lei scopavi tutte le volte, vero? Te l’eri scelta apposta.
-          Senti, per quanto la dovrò pagare?
-          E io? Per quanto dovrò pagarla io? Non riesco più a lasciarmi andare, lo capisci? Ho avuto gli incubi ogni notte per mesi interi. Mi svegliavo piangendo.
-          Gesù Cristo, lo sai benissimo che non ho più, mai più, fatto nulla, che la cosa non significava niente per me e neanche per lei, che non passa giorno in cui, ripensandoci, non mi sento una merda. Non puoi perdonarmi? Non perdi occasione per avvilirmi, stuzzicarmi, farmi dannare per ogni cosa che faccio. Perdonami, Cristo santo. Non vuoi perdonarmi, una buona volta? Non sono ancora qui con te? E ho intenzione di starci per sempre, con te. Io e te, sempre.
-          Davvero?
-          Lo sai. Lo sai che è così. Ma non riesco più a fare il tappetino da bagno.  Non riesco più a farmi calpestare …
-          Dio mio, ma cos’è?
-          Sembravano ...
-          Dici che dobbiamo chiamare la polizia?
-          Ma no, sono i botti per Capodanno. Ormai questi idioti iniziano sempre più presto a fare casino, la sera. Si mettono sui balconi con quei razzi e poi …
-          Mancano ancora due settimane. E poi con questo tempo chi si mette sul balcone.
-          Tempo o non tempo, qualche deficiente che si mette a sparare i petardi, c’è sempre.
-          Però hanno smesso. Di sopra, dico. Non so se è un buon segno.
-          Non so.
-          E se non sono botti di Capodanno?

      -     Scusami.
-          Non ti preoccupare.
-          Certe volte sono molto nervosa. Mi sento persa.
-          Non ti preoccupare.
-          Tu sei una brava persona.
-          Grazie.
-          Hai passato anche tu i tuoi guai. E sei una brava persona. Voglio dire, lo sei stato per quasi tutto il tempo che ti conosco. Ma quella cosa non sono ancora riuscita a mandarla giù.
-          Vorrei non fosse mai successa. Vorrei essere morto, piuttosto.
-          Non dire così. Per sei mesi ti è andata bene.
-          Mi era presa una specie di smania. Mi sentivo così solo.
-          Non starai dando la colpa a me?
-          No. La colpa è mia. A volte si perde il filo della propria vita. Si crede che …
-          Chi è?
-          Non so. Vado io.
-          No, no. Vado io. Intanto tu sparecchi, da bravo.

-          Smetti di piangere.
-          Non posso.
-          Smetti, per favore. Non ti posso vedere così.
-          Ho paura, non capisci? Il brigadiere era stato mandato, qui. Qui.
-          È perché i vicini ti hanno sentito urlare. È quello che li ha indirizzati male.
-          Stai ancora dando la colpa a me?
-          Ma no, per la miseria! Cioè, voglio dire, i vicini sentono urlare mi vuole ammazzare, mi vuole ammazzare, e poi sentono degli spari e non capiscono da dove arrivano. Insomma, è facile sbagliarsi. Con tutti questi appartamenti …
-          Sì, ma il brigadiere è venuto qui.
-          Lo so. C’ero anch’io. Adesso calmati, su.
-          Potevamo essere noi.
-          Ma cosa dici?
-          Potevamo essere noi, noi, noi.
-          Ma non lo siamo. Adesso calmati.
-          Non riesco. Ho paura.
-          Io non ti farei mai del male.
-          Me ne hai fatto. In passato.
-          Cristo, voglio dire che non farei mai una cosa del genere.
-          Ne sei sicuro?
-          Beh, è più facile che sia tu a sparare a me, che io a te.
-          È questo che pensi di me?
-          Per favore, per favore, almeno adesso non litighiamo. Te ne prego.
-          Li vedevo spesso in giro, quei due. Chi l’avrebbe detto?
-          Qualche volta, la mattina presto incontravo lui in ascensore. A volte anche la sera.
-          E come ti sembrava?
-          Come mi sembrava. Normale.
-          Sempre normale?
-          A volte …
-          A volte...?
-          Era sempre gentile e si parlava del più e del meno. Sai, le chiacchiere che si fanno in ascensore per evitare di stare in silenzio. Però, certe volte mi era sembrato che si sforzasse molto di parlare e sorridere. Sorrideva per tutto il tragitto in ascensore, ma i suoi occhi non sorridevano. Erano …
-          Erano?
-          Beh, tristi. Sai, succede, a volte. Come se stesse facendo uno sforzo enorme per non piangere.
-          Lo sapevo. Anche tu sei così. Ti sforzi di sorridermi, mai i tuoi occhi sono tristi. Tristi e vuoti.
-          Un sacco di gente è triste e vuota. Avrà dei motivi per esserlo. Ma questo non significa nulla.
-          Lei qualche volta la incontravo al supermercato. Qualche volta abbiamo parlato. Una bella donna. Non più tanto giovane. Da giovane sarà stata bellissima.
-          E come ti sembrava?
-          Forte, piena di vita. Energica. Una che sapeva il fatto suo. Si vedeva che sapeva trattare con le persone. Molto simpatica. Era sprecata per lui, era sprecata per questo quartiere, per questa vita. Come al solito, con donne così, gli uomini non reggono il confronto. Lui non avrà retto il confronto. Lei sarà stata stanca di lui.
-          Non possiamo sapere come stanno le cose. Ognuno è diverso. A me sembrava che andassero d’accordo.
-          Evidentemente no.
-          Già. Comunque, ognuno è diverso.
-          Credi? Credi che siamo tutti così diversi?
-          Lo spero.
-          E così l’ha uccisa.
-          E poi si è sparato. Quasi subito, ha detto il brigadiere. Prima le ha sparato al cuore, alla pancia. Poi, il colpo di grazia, alla testa. Tre colpi. Poi per sé, un colpo in bocca. Voleva essere sicuro di morire.
-          Non trovi strano che il brigadiere si sia preso la briga di scendere a spiegarci i fatti, fin nei particolari? È come se avesse detto, signori, vi è andata bene, per questa volta non siete voi … come se avesse voluto incoraggiarci … perché avremmo potuto essere noi, vero? So che lo ha fatto apposta, a scendere qui, dopo, come se ci volesse avvisare, come se avesse un presentimento … Come se fosse un messaggero di qualche strana forza … Dimmelo. Sarebbe potuto succedere anche a noi, vero? O potrebbe succedere in futuro.
-          No. A noi no. Non può succedere. Non ti farei mai del male.

-          Quanta neve. Se va avanti così tutta la notte, domani sarà un casino liberare la macchina.
-          Guarda. Le ambulanze non sono riuscite a entrare neanche nel cortile. Stanno usando quelle bare di metallo che si vedono nei film. Chissà in quale è lui e in quale lei.
-          Che importanza ha?
-          Dove li portano?
-          All’obitorio dell’ospedale più vicino, credo. Dovranno fare l’autopsia.
-          È il loro ultimo viaggio. Ognuno per conto suo. In quelle bare di metallo.
-          Piangi ancora?
-          Lasciarsi così, in questo modo. Senza poter rimediare. Mai più, mai più. Finito.
-          Forse, a quel punto, non c’era più niente da rimediare.
-          Quanta tristezza c’è al mondo. Quanta cattiveria.
-          Già.
-          Abbracciami. Per favore.
-          Vieni qui.
-          Non ti è mai capitato di sentire che sei sprofondato nel buio? Io sì. Pensiamo che le cose siano in un modo e magari sono in un altro, perché non vediamo niente e non sappiamo niente. Non sappiamo niente di noi stessi e niente degli altri. Ci muoviamo al buio sbattendoci addosso gli uni con gli altri e non ci guardiamo mai in faccia. Mai per tutta la vita. Da bambina facevo spesso un sogno dove ero ai piedi di una lunga scala buia in mezzo a un sacco di gente e in cima a questa scala sapevo che c’era una bellissima luce e tutto quello che serviva per essere felici. Ma io ero ai piedi di questa scala ed era tutto buio. Mi svegliavo e chiamavo la mamma. Non riuscivo mai a salire per quella scala. Nessuno saliva mai per quella scala. Io sapevo che se fossi salita il buio sarebbe sparito. Mi chiedevo perché nessuno salisse. Nemmeno io riuscivo a salire. Sarebbe bastato salire e tutto sarebbe andato a posto. Io lo sapevo, nel sogno. Ma per qualche motivo, restavo sempre giù, al buio, insieme agli altri. C’era questa forza enorme che mi schiacciava, e mi ricacciava indietro. E mi svegliavo terrorizzata.
-          Cosa era questa forza enorme che ti schiacciava?
-          Non lo so. La paura. La forza degli altri ai piedi della scala.
-          La paura del buio ci fa rimanere al buio. Non ci avevo mai pensato.
-          Forse è così per tutti. È  come se fosse qualcosa … di spirituale. Noi siamo agli ultimi gradini dello spirito. Siamo in fondo alla scala. Siamo anime affamate. Sopra c’è la luce. Ma non riusciamo a muoverci.  C’è una forza che ci schiaccia. E restiamo al buio con la nostra fame. Lassù è pieno di cibo, di amore, di luce, di ogni cosa che ci può servire, ma noi stiamo giù e rimaniamo affamati. Non riusciamo a muoverci e moriamo di fame, soli, al buio. O ci ammazziamo tra di noi. Ci hai mai pensato a queste cose?
-          No, veramente, non ci ho mai pensato. È una visione orrenda.
-          Dici che sono stronzate filosofiche?
-           No, potrebbe esserci qualcosa di vero. Quasi tutti sprecano la propria vita. Combinano disastri. È spaventoso a pensarci.
-          Quei due, laggiù … se ne sono andati via da soli. Ognuno per conto suo. Vagano da soli nel buio e nel freddo. Per sempre. Non potranno mai più salire quella scala.
-          Ma noi possiamo, invece. E siamo insieme. Siamo ancora insieme.
-          Noi litighiamo tanto. Troppo.
-          Già.
-          Io non riesco a perdonarti. Voglio dire, non ci sono mai riuscita fino ad ora.
-          Sì.
-          Ma posso provarci. Forse la posso salire quella maledetta scala. Forse può essere diverso.
-          Sì. Sì. Certo che può esserlo.
-          Forse glielo dobbiamo. Voglio dire, glielo dobbiamo, a quei due.
-          Sì. Lo penso anch’io. Certo che glielo dobbiamo.
-          Va bene. Ti perdono.
-          Grazie. Oh, grazie, grazie. Davvero? Mi perdoni davvero?
-          Sì.
-          Non so cosa dire. Grazie.
-          Adesso, scusami, ma sono molto scossa. Ti secca se vado in soggiorno a sdraiarmi un po’ sul divano? Voglio stordirmi con un po’ di TV.
-          Non ti preoccupare. Sistemo io la cucina e poi ti raggiungo.
-          Stasera c’è Amici. Vorrei vederlo. Ma è già iniziato da un po’…
-          Oh.
-          Ma se non ti piace possiamo guardare qualcos’altro …
-          No, no. A te piace. E io voglio stare con te.
-          Mi piace la danza. Mi piace vedere quei ragazzi così giovani che cantano e ballano.
-          Sì.
-          Ce la mettono tutta. Vedessi.
-          Va bene, finisco qui e ti raggiungo.
-          Quanto buio c’è fuori. Freddo e neve e buio. E  noi siamo qui al caldo. Noi due.
-          Sì, amore mio. Siamo qui.
-          Sono molto scossa. Non credevo di essere così scossa. Sono contenta che ci sei.
-          Anch’io sono contento di esserci. E che ci sei.
-          Ti amo.
-          Ti amo anch’io. Finisco qui e arrivo.

(Dicembre 2010)

7 commenti:

  1. Massimo, gran bel racconto veramente. c'è tanta roba, su piani diversi. e soprattutto ci sta lo scalpo tuo sul tavolo che ancora si muove...
    sono contento che scrivi così bene.

    ciao

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  2. grazie :)
    ho letto un po' di tuoi post a caso...mi piace il tuo blog, e piano piano spero di leggere tutto.
    su alcune cose non sono in accordo con te...ma questo e' il bello dei blog, confrontarsi, scrutarsi, discutere ed anche apprendere...e qui c' e' tanto...e' stato un piacere scoprirti.
    ciao

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  3. Ti ringrazio per le belle parole, S. Va benissimo che tu non sia d'accordo con me su alcune cose (ma quali?), tanto io sono il primo a non essere sempre d'accordo con me stesso ...

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