Nevica. Fa freddo. Un po’ di aria siberiana è colata quaggiù, verso il centro Europa, a causa del fatto che il riscaldamento climatico globale ha fatto collassare non so quale anticiclone da qualche parte. O forse non era un anticiclone, non ricordo bene.
Il mondo (ma quanta attenzione bisogna avere oggi per pronunciare o scrivere questa parolina?) va avanti con le sue interconnessioni incalcolabili. Il dibattito su cosa sia quello che definiamo reale, va ugualmente avanti come un lungo nastro di concetti che si srotola come strisce di carta da una di quelle vecchie telescriventi anni 70, accumulandosi sul pavimento delle nostre concezioni.
In fondo l’idea principale della sinistra (in comune anche con la destra sebbene con orientamenti differenti e in comune anche con i tre monoteismi) è che l’universo sia essenzialmente antropocentrico.
Tutti questi apparati concettuali non producono alcuna consapevolezza che tra un topo ragno, un coleottero e un essere umano le differenze siano quantitative più che qualitative. I castori costruiscono dighe, dopotutto. Dighe che hanno un sia pur minimo impatto ambientale. Tra noi e i castori la differenza è solo apparentemente qualitativa, in realtà è quantitativa.
Noi siamo parte del mondo, una specie tra tante. Siamo più attrezzati a livello intellettuale. Bisognerebbe capire che cos’è l’intelletto e se abbia senso parlare di “idealismo” escludendo il fatto che le categorie dello spirito hegeliane decisamente non riguardano anche la vita sociale dei capibara. Eppure la vita sociale dei capibara esiste. Come pure quella dei cavallucci marini o dei coralli.
L’antropocentrismo è il vulnus alla base di ogni concezione filosofica. L’accumularsi di teorie nella mente di questo povero primate non lo porta più vicino alla verità di un solo millimetro.
L’unico vero momento di ultra percezione, questo povero animale deve averlo avuto in una scena tipo 2001 Odissea nello Spazio. Vede il femore del caribù e gli viene in mente che può darlo in testa al suo simile e prendersi la sua fetta di territorio. Allargarsi. Questo concetto di allargarsi passa poi all’Egitto a Babilonia, a Roma, arriva alle colonie inglesi, nasce l’Idea dello sfruttamento. Servo e Padrone. Hegel ne fa un indigesto papiro. Il capitalismo, in fondo, nasce da quella prima scimmia del cazzo. Ecco, il Reale, sempre lui. Il Reale è il fondo cieco nel quale nasce l’Idea e l’Idea è sempre strumento di sopraffazione / collaborazione. Il Reale è il monolito nero di 2001.
Il reale non si lascia lacaniamente cogliere, direbbe Slavoj Žižek.
Tutto si riduce a un soggetto supposto sapere, il Grande Altro che condiziona tutto ma di cui possiamo solo supporre l’esistenza. Da una parte il Simbolico, il Reale, e dall’altra parte gli oggetti, irriducibili.
Siamo a caccia del Reale. Dopo la morte di Dio cosa resta? Almeno il Reale. Passiamo da uno spettro all’altro.
Quello che abbiamo è invece il cosiddetto “realismo capitalista”.
È un’idra a cento milioni di teste, la perfetta incarnazione di Shiva il distruttore.
È questo il Reale con cui ciascuno di noi, volente o nolente, deve fare i conti.
Possiamo cambiare la Realtà, o subire il Reale?
Finché saremo dentro il reale, non potremo mai capire cos'è.
RispondiEliminaIn un certo senso è vero.
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