Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

martedì 22 luglio 2014

Lamentarsi è da stolti



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Ah, se si potesse sapere tutto, con chiarezza e proprietà di linguaggio per poterne riportare agli altri o perlomeno a se stessi, l’essenza: e poi andare avanti, lasciarsi alle spalle lo scibile umano e avventurarsi veramente nell’ignoto. Potersi permettere di scavalcare la conoscenza per attingere alla vera sapienza, oppure ridere della sua inesistenza: questo sarebbe, come dire, un epilogo da bramarsi devotamente.

Ah, se potessi capire tutto, provare tutto, amare tutto, fermare tutto, andare oltre e tornare; se ci fosse un punto d’arrivo a questo interminabile e informe viaggio: un punto che non sia la dissoluzione eterna o un livello di nulla intollerabile. Se potessi, in altre parole vivere per sempre al riparo dall’angoscia. Se solo potessi veramente vivere per sempre nella gloria di un giorno benedetto.

Se solo potessi afferrare questo punto imprendibile che è questa mia vita qui, adesso, in queste condizioni e caratteristiche; se potessi per un momento solo, non essere così limitato.

Questo mio piccolo cervello che pensa, questa mia piccola anima che desidera qualcosa di infinito e indefinito in questo mondo vasto e incomprensibile, questo prodigioso istante di esistenza che sorge e svanisce e non ci posso fare niente.

Questa solitudine, ma anche questa pienezza, questa dolcezza inafferrabile, questa mia vita: voglio tutto di essa, e non capisco nemmeno qual è questo tutto che voglio.

È il senso di desiderio d’infinito racchiuso in me, lo stesso impulso che fa espandere le galassie. Basta poco perché cessi e tutto ritorni nel solito trastullo da ebete incosciente.

In me, umile nessuno in mezzo a miliardi di miei simili, scorre il sangue dei miei progenitori nomadi. È un afflato romantico e come tale svalutato dalla storia, oppure tutto questo ha un senso?

Io non lo so.
 
Una volta il mondo mi sembrava diverso. Non che fosse semplice vivere, ma le persone sembravano un po’ diverse. Adesso, non le riconosco più. Non mi piace la gente di quest’epoca, non so quando hanno cominciato a cambiare, il cambiamento è avvenuto quando io ero troppo occupato a sopravvivere. Tutto mi è passato sopra e attraverso. Le persone di adesso non sono mie simili. Non so come fare.
So che questa è una illusione futile. Gli umani sono sempre gli stessi, fragili, esibizionisti, banali, egoisti, egocentrici, narcisisti, illusi, parziali nei giudizi e nei ragionamenti, violenti, ottusi, generosi per mettersi in mostra. Sono poche le persone degne di nota. Così poche.
Sono poche le persone che vale la pena di frequentare, forse nessuna. Io non sono certo una di queste. Non riesco nemmeno a comportarmi con sincerità. Se parlassi dal centro del mio essere, ogni volta, se non tentassi più di proteggermi, forse qualcosa cambierebbe.
L’uomo è un mistero. È un grande peccato che si avvilisca.
Appassisco dentro. Gioia, dove sei finita?
Come sono finito così, qui e ora? Mi sono perso. Forse lo sono sempre stato. Adesso ne ho semplicemente la consapevolezza.
Mi sono perso. Perso. Perso. Perso.
C’è una strada? Qualcuno me la può indicare?
No, meglio di no.
È pieno di gente che non vede l’ora di indicarti la strada: ne ho conosciute migliaia. Sanno quello che va bene per te. Sanno quello che tu dovresti fare, quello che dovresti dire, pensare, sperare, amare.
Certo che qualcuno ti può indicare la strada: gli umani non fanno altro, gli uni con gli altri, per tutti i giorni della propria vita.
Forse è proprio questo il problema. La società non si potrebbe reggere nemmeno per un secondo se tutti ammettessero candidamente “ragazzi, non sappiamo quello che facciamo, né dove stiamo andando, possiamo solo intuire quello che sta succedendo”.
È impossibile, crollerebbe tutto.
Se si comprendesse che siamo ciechi che guidano sordi e muti, andrebbe tutto a rotoli, più di quanto stia già succedendo.
E invece succede il contrario: il mondo si riempie di gente che crede di sapere, che ti indica la strada. È naturale che siano seguiti. È altrettanto naturale che i seguaci presto o tardi rimangano delusi.
È quello che è successo a me, dopotutto. Ho cercato di seguire, per sentendo che nessuno ha la risposta. Ho sperato, ho pregato, ho pianto, mi sono disperato, perché ero un seguace poco diligente. Alla fine ho dovuto ammettere che non c’era nessuno da seguire.
Nemmeno bisogna cadere nell’errore opposto: seguo me stesso.
Seguire se stessi, non significa nulla. Non c’è un “se stesso” da seguire.
Noi ci costruiamo man mano che la vita va avanti, a prezzo di sforzi e disillusioni.
Quello che ne risulta, spesso è patetico e amorfo, il risultato dello spezzarsi delle illusioni e del ricostituirsi delle stesse, più forti.
Allora crediamo tutto, facciamo tutto, ci muoviamo come burattini, ci facciamo percorrere dalla corrente elettrica dell’iperattività, finendo solo per sembrare animali morti che una scarica fa sobbalzare. Il movimento esasperato non è segno di vita.
Sono molto più vitali i gorilla che stanno ore accucciati nella giungla, sonnecchianti, come bonzi, senza muoversi.
Solo se non cediamo alla disperazione, o meglio, solo se ci lasciamo attraversare da essa senza crederla definitiva, come qualunque altra cosa, possiamo passarci in mezzo, andare oltre, verso una vita più piena (qualunque cosa sia). Allora, apparirà nel suo splendore, quello che abbiamo costruito, il tempio che si staglia nella nebbia che si dirada. E ci accorgeremo che siamo sempre stati dove volevamo andare.
Siamo viandanti perduti, tutti. Pellegrini in una terra sconosciuta.
 
MUT
Fliegt der Schnee mir ins Gesicht,
schüttl' ich ihn herunter.
Wenn mein Herz im Busen spricht,
sing' ich hell und munter.

Höre nicht, was es mir sagt,
habe keine Ohren;
fühle nicht, was es mir klagt,
klagen ist für Toren.
Lustig in die Welt hinein
gegen Wind und Wetter!
Will kein Gott auf Erden sein,
sind wir selber Götter!
 
CORAGGIO
Se la neve mi vola in faccia,
la scuoto via.
Se il cuore mi parla nel petto,
canto con voce chiara e allegra.

Non ascolto quel che mi dice,
non sento;
non avverto i suoi lamenti,
lamentarsi è da stolti.
Su con gioia per il mondo,
contro vento e intemperie!
Se non c'è nessun Dio sulla terra,
noi stessi siamo dei!
 
Eppure … rimane sempre lo stesso dubbio: e se da qualche parte ci fosse la risposta?
Anche se si sa che non c’è, il dubbio rimane e gioca e ride nella nostra vita e ci fa andare avanti ancora e sempre nei giorni di sole e pioggia.
Lamentarsi è da stolti.  

3 commenti:

  1. LA SCONCLUSIONE

    Non c’è un inizio perché non c’è una fine.
    La fine ce l’hanno sempre raccontata, ce l’hanno solo raccontata.
    Noi non capiamo dove stiamo, non stiamo dove è giusto stare. Stiamo dove ci lasciano stare.
    Ogni sistemazione è ben poco sistematica, ogni adattamento è più effettivo di quanto siamo disposti a credere. Tanto basta perché si faccia qualcosa della propria vita, qualcuno ci riconosca, sia legittimo quel po’ di amor proprio che solitario dà senso anche alla più misera delle esistenze.

    Non c’è una fine perché non c’è un inizio.
    In principio c’è uno spazio vuoto, muri imbiancati a calce.
    Dopo, ogni identità mentre si connota anche si confonde, quando si siede per leggere, quando beve mangia fa l’amore va viene si ferma riparte; serie di scatti quasi sempre fuori fuoco, inchiostro che svanisce, una buccia che annerisce al sole.
    Alla fine tutto è ingombro di segni, date, nomi.

    Subiamo la fine e subiamo l’inizio.
    Pieni dell’inevitabile distrazione dello sguardo, divorati dall’intenzione trasportiamo residui, riquadri di finestre, le aste e gli scudi delle antenne, rettangoli di mattoni, ogni tanto un filo che sventola panni stesi.
    Come il paesaggio più consueto ognuno sta circoscritto ed esposto; sbatte e risbatte, poi si ferma. Infine viene ritirato e scompare.

    Guido Turco

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    1. E' veramente una ben strana condizione, la nostra umana. Ci sarebbe da scompisciarsi nel pensare che c'è veramente qualcuno convinto di sapere qualcosa.
      Grazie per essere passato di qua.

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