Quando poi si tratta di un film di Paolo Sorrentino, regista che
da subito si è situato naturalmente e nettamente sopra dell’asfittica media
nazionale dei Virzì, Veronesi e compagnia cantando, il rischio è sempre quello
di mancare l’obiettivo: cioè dire troppo o troppo poco e nella direzione
sbagliata.
La premessa di base è semplice: Sorrentino è talmente bravo che un film “brutto” non gli viene nemmeno per sbaglio. Tutto
è giocato nello spettro che va da “paraculo” a “capolavoro”. Lo spettrometro
oscilla terribilmente in questo film e non arriva a fermarsi quasi da nessuna
parte. La tendenza verso la vibrazione “paraculo” è fortissima, in ogni caso.
Abbiamo così poche cose in Italia di cui essere fieri in questo
periodo, almeno nel cinema siamo tornati a essere “eccellenze”. Non vorrete mica guastarci la festa? E poi,
chi cazzo vi credete di essere, anche solo per segnalare i non pochi momenti di
noia, le cadute di tono, le scene improbabili, gli ammiccamenti snob e paraculi
di un Servillo che pare ormai regolato in automatico sul personaggio del
meridionale snob di buone letture e disincanto al pomodoro e basilico con
smorfia di superiorità incorporata?
Non saremo certo noi a farlo (il pluralis maiestatis, è
imperdonabile, lo so, ma per una volta me lo voglio gustare, come il gelato al
pistacchio o la cassata siciliana, o il babà al rhum). O sì?
La visione del film per me, rimane associata a una vescica in
procinto di esplodere verso la lunghissima fine del film e una poltroncina
scomoda al cinema Colosseo, mentre una scena si susseguiva a un’altra, che ogni
volta sembrava conclusiva, ma non lo era.
Il film sembrava sempre sul punto di terminare, ma poi iniziava una
nuova ripresa con il dolly dall’alto verso il basso e poi ancora verso l’alto,
oppure un primissimo piano su una faccia grottesca che urlava con una smorfia
atroce e poi carrellata all’indietro fino a inquadrare qualche festa surreale.
La vescica si tendeva fino a esplodere e ogni volta pensavo, adesso finisce,
adesso finisce, e che cazzo deve succedere più, è successo di tutto, anzi non è
successo niente, insomma l’abbiamo capito che Roma è una citta corrotta sotto i
cui strati di fatalità storica e marciume giacciono continenti interi di pura
bellezza, ho capito che Sorrentino ha una prodigiosa capacità di mostrarcela,
questa bellezza, questa “grande bellezza”.
Trovo inutile cercare sottili analisi sociologiche sui coatti d’inizio
millennio, sui tatuaggi, sulle imbarazzanti onnipresenti inquadrature da spot degli
sponsor, Banca Popolare di Vicenza e Audi e forse la Samsung. Insomma quel
gusto tardo capitalista che lascia un po’ l’amaro in bocca, ma di cui, negli
anni Dieci, non si può proprio fare a meno.
L’onnipresente condizione umana, dopo un po’ sparisce, sotterrata
da troppa bellezza, troppe Audi e Samsung e Banche popolari di Vicenza.
I personaggi di Sorrentino sono tutti esattamente come ti aspetti
che siano. Anzi, non sono personaggi, sono citazioni letterarie, apparizioni
che servono a completare il quadretto che ha in testa il protagonista, che poi
è sempre lo stesso, un’anima maschile disincantata, perdente, sottilmente “paracula”.
Non è necessariamente un difetto: comincia a esserlo se la vescica ti si
comincia a riempire inopinatamente.
Dopo la prima ora e mezza di esposizione di caratteri dimenticabili, ma
tutti senza eccezione simbolici ed espressivi, dopo dolly su dolly di cinismo
nostrano, mostri felliniani, avanguardie giustamente ridicolizzate, cantanti
inglesi ormai anziani e imbarazzanti camei di Fanny Ardant e Venditti, dopo il
gusto proustiano di cercare di farci “vedere” i profumi dei ricordi, dopo dolly
su dolly (ancora) per i cieli della Città Eterna, dopo la commovente storia
della povera spogliarellista di mezz’età malata e moribonda (Ferilli) che
sembra coatta, anzi lo è, ma che sembra (ma non lo è) l’unico personaggio umano
di un film disumano, quando tutti nella platea eravamo sopraffatti dalle
immagini, la storia (?) pareva conclusa e il capolavoro intravisto.
Ma poi tutto si è rimesso in gioco, ecco subentrare altri pagliacci,
nani, ballerine, e altrettanta “grande bellezza” che pioggia addosso allo
spettatore, dolly su dolly (ora e sempre), riprese storte, piani americani,
piani sequenza. A questo punto arriva la Santa, la necessaria tentazione, più che
della fede, dell’umiltà.
Tra tanta corruzione, disperazione e cinismo, Audi e Samsung, tablet,
tatuaggi, suore, turisti e banche popolari, l’ultraterreno occhieggia dal cielo
meraviglioso della Capitale. Allora abbiamo miracoli con fenicotteri creati con
il computer su albe improbabili.
Mi chiedo perché il regista non abbia scelto di fare scoreggiare
la Santa rumorosamente (magari l’ha fatto e non me ne sono accorto). Allora sì,
che ci sarebbe stato un grandioso passo verso la “liberazione”: un bello
sberleffo finale.
Purtroppo a quel punto, io ero alle prese con la greve materialità
della mia vescica e con la perfidia di Sorrentino che si divertiva a far
seguire una scena all’altra senza che si arrivasse al dunque.
Al dunque poi ci si arriva, in ogni caso. La grande bellezza,
quella che ogni artista vorrebbe cogliere, quel “nulla” leggero, flaubertiano, di
cui il disincantato scrittore protagonista è a caccia, è la gioventù, quell’istante
magico dove il primo amore della tua vita (rassegnatevi donne: è un film inevitabilmente
virato al maschile) si apre la vestina per farti vedere il seno.
Tutto qui? Tutto qui. Vi sembra poco?
Non ho potuto fare a meno di pensare, a vescica implorante, che
almeno Sorrentino poteva far vedere una tipa con delle tette più belle. C’era
la Ferilli a disposizione.
Che dire? Fortuna che ancora la prostata mi tiene.
Una menzione a parte merita la splendida colonna sonora composta
da Zbigniew Preisner, autore delle musiche di molti film di Kieslowski.
La magia della sequenza iniziale fa parte della Grande Promessa di
Grande Bellezza, non sempre mantenuta nel film.
In ogni caso Oscar meritato, per quello che questo premio ormai rappresenta.
Una tensione continua tra paraculismo e capolavoro, tra materialità idraulico-fisiologica e bellezza iperuranica. Il film lo guardo a casa, per non mettere a prova l'apparato.
RispondiEliminaPost acuto e divertente.
In effetti ero arrivato in sala impreparato. Pensavo di cavarmela in meno di due ore e invece ho sfiorato la catastrofe. In casa si è più al sicuro.
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