Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

venerdì 26 agosto 2011

Torino, 26 agosto 1950



Io sono sempre stato attratto, direi affascinato, dal concetto di destino. Mi piace indagare il destino degli individui, come si dipana, come si conclude, come si attua, le mille e mille forme in cui si arriva al compimento o si fallisce miseramente.
Mi attrae la difficoltà di comprendere fino in fondo una vita, una qualunque, da quella del grande a quella del miserabile: diciamolo, io ci sguazzo in questa melma.
Inendiamoci, nonostante questa attrazione ossessiva per il concetto di destino, io non ne so, di tale faccenda, niente più di chiunque altro. Non so se una cosa chiamata destino esista, immutabile, eterna, o se molto invece dipenda da noi, dal nostro sforzo; non so se siamo, insomma, marionette o spiriti liberi.
A volte credo vera una cosa, altra il suo opposto.
In questa fase della mia vita, mi sento più marionetta che altro, ma questo potrebbe essere causato da una naturale disillusione di sé, quando si è raggiunta una certa età e molto è franato sotto i propri piedi. Tuttavia, basta un empito d'orgoglio e mi ergo come un soldatino pronto a combattere contro tutti gli déi, per poi ricadere nella mia salamoia e rimanere lì.
Insomma, alti e bassi.
La mia lunga frequentazione con il tema del destino mi ha portato all'altro tema legato al destino, il suicidio.
Però, che allegria, si dirà.
In effetti io mi diverto così.
Con argomenti frivoli, poco impegnativi.
C'è stato un tempo, quando ero molto giovane, che mi piaceva frequentare cimiteri. Spesso, dopo essere stato in un cimitero un intero pomeriggio, a sbirciare lapidi, fotografie e date di nascita e morte, andavo a caccia di donne. Vive, naturalmente. Se non ne trovavo, come accadeva sovente, mi rivolgevo a delle professioniste. Ma questi erano altri tempi.
Avevo anche molti altri passatempi più sani.
Dicevo, il suicidio.
Il suicidio, per me, è naturalmente un argomento fortemente letterario.
Sono attratto dagli scrittori suicidi, più perché so che si sono ammazzati, che per la loro opera.
Mishima, Hemingway, Debord, Akutagawa, Kawabata, De Nerval, Drieu La Rochelle.
Il suicidio, letterariamente, è una cosa molto cool. Materialmente invece è uno schifo, corpi contratti, smorfie, digrinamento di denti, merda nei pantaloni o sangue da tutte le parti. Insomma, la realtà è molto meno cool.
Tuttavia c'è un certo rigore, nel chiudere così definitivamente la propria carriera, con ordine. Non si creda che i suicidi siano persone confuse mentalmente.Per porre fine alla propria esistenza, ci vuole un certo ordine e rigore.
I casinisti non si suicidano.
Tra i suicidi DOC c'è Cesare Pavese.
Pavese è uno scrittore di cui non ho letto molto. Non sono attratto dal neorealismo e trovo l'atmosfera letteraria itialiana del secondo dopoguerra un po' asfissiante.
Tuttavia Pavese ha prodotto un'opera molto bella, Dialoghi con Leucò, nella quale ha luogo un costante inerrogarsi sul destino dell'uomo, visto come beffa crudele ad opera degli déi.
Déi che poi, nell'ultimo paragrafo, si scoprono non esistere più. Rimane solo il ricordo di quei vaghi incontri carichi di destino.
Il destino, l'incapacità di sottrarsi ad esso, il carattere, visto come destino che forma gli eventi, è il tema centrale del diario di Pavese, Il mestiere di vivere.
Per tutto il discendere degli anni fino al momento fatale, si assiste al macerarsi di questo povero giovane (per i tempi attuali, scrivere dai 27 ai 42 anni, significa descrivere una giovinezza) sulle proprie delusioni sentimentali, sulle proprie debolezze caratteriali.
Pavese precipita senza potersi fermare, ma rimane sempre consapevole di stare precipitando.Crede fermamente che il destino è colpa. Le cose sono così, perché noi non siamo capaci di farle andare diversamente. Il debole deve perire.
Il destino forgia uomini simili agli déi, e inutili idioti. In mezzo tutte le sfumature possibili.
E' il suicidio l'unico punto fermo, l'unico approdo.
L'unico modo per sottrarsi alla propria debolezza.
Il castigo dell'uomo moderno, senza Dio, punito (ancora il destino) per la propria arroganza.
Mentre Kafka prova a ribellarsi come un bambino recalcitrante e diventa come la maschera di Buster Keaton, Pavese prende troppo sul serio questa sfida contro il destino.
Dove Camus dà una risposta vitale, affermativa, benché dolorosa, alla vita, Pavese si sottrae. Non vede lo scopo.
Un maniaco depressivo, si dirà. Senza dubbio.
Una palla d'uomo, si aggiungerà. Certo.
Ma il suo interrogarsi, le sue esagerazioni, la sua esasperata sensibilità, il suo esacerbato narcisismo, sono una sfumatura tremenda di qualcosa che riguarda tutti.
La ricerca di una via d'uscita, una qualunque. E' tutto quello che serve. Tutto quello che ognuno di noi cerca: nella religione, in una relazione, nei figli, nell'unione mistica con Dio, nella cocaina, nel campionato di serie A, nella letteratura.
Una via d'uscita. Una trascendenza di sé. Perché non abbiamo altri che noi stessi e non ci bastiamo.
La Ginzburg diceva che Pavese era uno con un gran senso dell'umorismo, che però nelle sue opere non traspare mai, nemmeno una volta. Prendere sul serio sé stessi. Il vero dramma.
Avesse scritto un'opera comica. Forse sarebbe arrivato almeno fino agli anni 80, pluripremiato e plurigiurato a tutti i Premi Strega dell'universo. Ma non ce l'ha fatta a sottrarsi al suo destino.
O forse, presagendo questo futuro, ha preferito togliersi dalle palle.
Il destino, sempre il destino.
La via d'uscita è il comico. Forse.
O forse vie d'uscita non ce ne sono.
Se fuori c'è il sole e il bar all'angolo è aperto, non c'è problema.
Si può vivere anche senza vie d'uscita.
Se si è soli e la notte di fine agosto, a Torino, è troppo calda e troppo densa, allora si può prendere e andare. Senza voltarsi indietro. Senza troppi pettegolezzi.

giovedì 25 agosto 2011

25 agosto 1900


Nietzsche. 111 anni fa.
Moriva un relitto d'uomo, l'involucro consumato di una mente senza la quale l'intero secolo scorso (e anche quello presente) sarebbe stato difficile da immaginare, forse impossibile.
Moriva un uomo, iniziava il novecento.
Scoppiava il pandemonio borghese.

Kafka, il gesto e il bambino



Benjamin sostiene che la base della narrativa di Kafka è il gesto.
I suoi testi abbondano di gesti misteriosi, indecifrabili, volti, smorfie , situazioni paradossali che sembrerebbero rimandare ad altro, ma non portano a niente di definito.
Il mistero, in Kafka, è assoluto.
Nulla viene rivelato, e neppure si sa se ci sia qualcosa da rivelare: da qui nasce l’angoscia, ma anche un profondo senso del ridicolo.
L’idea del riscatto dalla colpa è onnipresente in Kafka e tuttavia ridicola, e proprio per questo angosciosa, come un clown che rida a crepapelle senza motivo e poi si fermi di colpo a pensare un pensiero qualunque, e quel pensiero fa irrompere l’abisso nella quotidiana routine.
Sarebbe errato ritenere la letteratura kafkiana in qualche modo simbolica. Non c’è uomo e non c’è simbolo in Kafka: solo gesti ed eventi scevri da ogni psicologia. Essa è oltre ogni rappresentazione. È una parabola senza morale.
È il grande teatro naturale di Oklahoma dove tutti sono attori e non si sa perché. Si sa solo che bisogna recitare.
E neanche questo è vero del tutto.
Si può anche desiderare di sottrarsi alla recitazione, al processo, al giudizio del castello e anzi, l'opera narrativa di Kafka è tutta basata sulla non accettazione di un modello precostituito
Il protagonista non accetta le oscure regole imposte dal Tribunale, dal padre, dal Castello, dallo zio, ecc, ecc, e da quel momento ogni gesto, ogni cosa, anche l’aria che si respira sono posti sotto la categoria della colpa.
Ma la colpa, in Kafka è molto più simile allo stupore angoscioso di un bambino triste, che al desiderio di rivalsa di un adulto.
I bambini non hanno il senso del ridicolo, ma il ridicolo si forma naturalmente tutto intorno a loro, come nel gran teatro naturale, appunto, di Oklahoma.

martedì 23 agosto 2011

Le anime morte


Che importa a noi della felicità? Aveva scritto Nietzsche.
Il novecento, il secolo felice per eccellenza, ha disseminato pezzi di felicità e cadaveri lungo tutta la strada.
Il duemila, ridimensionando completamente il concetto di felicità a quello di consumo di merce, condensando materialismo e antimaterialismo in un unico mercato, ha imboccato una nuova strada. Il secolo del benessere è gravido di una tristezza incalcolabile, di una desolazione senza fine. E si continua lo stesso a morire e a fare guerre.
Il secolo delle fottute opinioni, il secolo dei sette miliardi di buchi di culo che arroventano il suolo terrestre.
Il secolo dell’illusione cospiratrice. E ovunque morte morte morte morte morte morte morte morte morte morte morte morte.
Ma attenzione, non la morte naturale, biologica, semplice, giusta, o anche tragica, come quella di Camus, Céline, Hemingway e tanti altri esseri umani, famosi o no: no, questa è la morte dell’anima, la più nera e spaventosa.
Io NON VOGLIO che la mia anima muoia.
IO NON VOGLIO CHE L’ANIMA DELLE PERSONE MUOIA.
Tutto il resto  non conta.

Libertà di coscienza


Dato che non penseremo mai nello stesso modo e vedremo sempre la verità per frammenti e da diversi angoli di visuale, la regola della nostra condotta dovrebbe essere la tolleranza reciproca. La coscienza non è la stessa per tutti.
Quindi, mentre essa rappresenta una buona guida per la condotta individuale, l’imposizione di questa condotta a tutti sarebbe un’insopportabile interferenza nella libertà di coscienza di ciascuno.
                                            M. K. Gandhi

Purtroppo, poi, è finito sparato. Da qualcuno che non sopportava un sovraccarico di tolleranza nella sua libertà di coscienza.

lunedì 22 agosto 2011

Pensieri oziosi sull'utilità e il danno del destino nella vita


La vita scivola via, ostinatamente. Potessimo essere alberi, o rocce, o gabbiani. Essere parte, insomma della potenza. Al di là del destino, al di là dell’orribile quantità di destino che ci è destinata.

Potere ricavare dalla propria vita qualcosa, qualsiasi cosa. Come Montaigne, dalla semplice osservazione della propria limitata individualità, ricavare per soprammercato il mondo intero. Il nemico più forte è la pigrizia. Chi ha voglia di menarsela per le proprie eterne cazzate?

Pensieri oziosi sull'utilità e il danno del destino nella storia


Afferrare i pensieri. La difficoltà più grande.
Pensare a quello che l’umanità si è persa.
Se Spinoza fosse vissuto fino a 70 anni avrebbe elaborato una visione magari diversa dal suo affermativo panteismo e se Sartre fosse vissuto fino al crollo dell’URSS, chissà cosa avrebbe detto.
Se Merleau-Ponty non fosse stato stroncato da un un infarto a 53 anni fin dove si sarebbe spinta la sua indagine sul visibile e invisibile? Forse sarebbe stato più grande di Sartre. Se Mozart fosse vissuto fino ai 70 anni sarebbe stato completamente contemporaneo di Beethoven e Schubert.
Se poi Schubert fosse vissuto fino all’epoca di Brahms, settantenne nel 1867?
E Chopin vecchissimo, intorno al 1886, registrato al pianoforte da uno dei primi fonografi a cilindro? Cosa sarebbe successo?
Se Lenin fosse vissuto in buona salute fino agli 80 anni, dritto in sella fino al 1950, cosa sarebbe successo in Unione Sovietica? Niente stalinismo.
Oppure se Stalin fosse vissuto fino al 1969?
E se Roosevelt non fosse morto nel 1945, se Kennedy o Martin Luther King non fossero mai stati assassinati, se Aldo Moro fosse stato rilasciato dalle Brigate Rosse?
E se Leopardi fosse giunto a tarda età? Che ne avrebbe detto della Comune di Parigi del 1871?
E se Nietzsche non fosse impazzito? Cosa ne sarebbe stato della filosofia se lui, perfettamente lucido, avesse imperversato fino al 1920?
E che dire di Jack London alle prese con la bomba atomica? O Marcel Proust a braccetto con Malraux per i boulevard nel 1947?
O Adorno che commenta alla sua maniera il crollo del Muro di Berlino?
O Pollock che commenta Basquiat?
L'elenco potrebbe continuare, interminabile.
Gesù Cristo non muore sulla croce, Alessandro Magno raggiunge la tarda età, Cesare non viene pugnalato, ecc. ecc. ecc.
È come se tutto dipendesse dalla dissoluzione di poche molecole. La morte crea la storia attraverso continue interruzioni nel compimento individuale.
I secoli pullulano di date che bloccano il destino su un percorso aspro e improbabile.
Emerge una cosa e ne scompare arbitrariamente un’altra.
Tutto sembra incastrarsi così perfettamente, a posteriori, e nello stesso tempo gli individui, le entità psicobiologiche, sembrano così poco importanti.
La fine del mondo e l'inizio di un altro.
Viviamo inesorabilmente sulla morte degli altri.
Prendiamo esempio da esseri che, se fossero vissuti, probabilmente ci avrebbero deluso.
Il presente ha sempre ragione. Hegel.
Il reale, a volte, sembra razionale.
Magari è solo una presa per il culo.

venerdì 19 agosto 2011

L'uomo in rivolta, si rivolta


“Bisogna immaginare Sisifo felice.”
Solo per avere scritto questa frase verrebbe voglia di urlare a Camus, finiscici tu a rotolare su e giù quel masso del cazzo.
Al milionesimo anno forse avrai capito di avere scritto una stronzata.
Bisogna maledire Sisifo mille volte.

mercoledì 17 agosto 2011

Una presenza


Non è facile scrivere
con queste ombre che mi corrono
per casa ogni notte.
Porte nascoste si aprono
nei muri e si richiudono
come sbadigli interrotti.
Sguardi vacui o minacciosi,
come volti di Medusa,
mi osservano glaciali
dietro la lampada a stelo.

Questa notte mi è apparso
con un cappotto largo indosso,
un completo nero,
una camicia bianca e sul colletto,
una cravatta a nastrino.
Un fazzoletto bianco spuntava dal taschino.
Girava per la stanza senza fretta
guardando i libri, i quadri,
spostando distratto carte sulla scrivania
sbirciando furtivo su un giornale aperto
le notizie sull’ultima guerra.
Si è soffermato a lungo incuriosito - un nero
sopracciglio alzato - su quell’articolo del Vaticano
che ha deciso che un embrione è già qualcuno
che aspetta solo di essere convertito.
Ha scrutato assorto il mappamondo
come se penasse a ricostruirsi il mondo.
Un’infantile dolcezza traspare
dagli occhi celesti, dalle orecchie grandi,
pare stupito, ma non troppo, di vedermi
e quando decide di parlarmi
capisco stranamente ogni cosa.
Mi pare  – dice con voce fioca -
di esser rimasto fermo al ventiquattro,
era giugno - forse - un’iniezione di morfina
fatta da un pietoso amico medico:
mi uccida – gli avevo detto – o lei è un assassino.
Non creda a quel che dicono,
non è poi tanto male essere morti.
Certo, manca un qual senso del divenire,
tutto laggiù è,  come dire,
un’eterna domenica di fine  stagione;
niente in fondo cui non mi sia
abituato già un po’ in vita
Ormai l’inquietudine dell’esistenza
non ha per me più presa.
Niente più visioni inafferrabili, 
me ne sono spogliato
assieme a oggetti indeducibili,
nequizie,  sevizie, di molte notti insonni.
Allora il mondo mi moriva nello sguardo,
la letteratura soltanto, era una cosa viva.
Ma adesso se potessi, vorrei tanto
essere a casa mia, a Praga,
sdraiato sul divano
e sfiorare con le dita
il volume di Kierkegaard al mio fianco,
senza aprirlo,
passarmi una mano tra i capelli,
lanciare un sguardo dalla finestra,
dare un saluto alla mamma,
vivere senza freni
la mia sognante vita.
Ancora vacillo: non la morte,
ma l’eterna tortura del morire, mi fa soffrire,
ed io - io ho sofferto molte cose col pensiero.
Non bisogna perdersi
ma resistere al dolore,
senza mai lasciarsi andare.
Ogni miracolo deve infine accadere.
Le parole sono ombre proiettate
su uno schermo opaco
da una luce, indefinita.
Chissà, forse dietro quello schermo
l’agrimensore sarà entrato,
finalmente, nel castello.
Io però – sorride mesto –  a quel punto 
non ci sono mai arrivato.

martedì 16 agosto 2011

Piccoli omicidi



"E' pericolosissimo combattere un sistema, se non sei sicuro che, quando crollerà, non ti mancherà."

Dal film "Piccoli omicidi" di Alan Arkin (1971)

venerdì 12 agosto 2011

Credo e credevo



Credevo che il libero mercato fosse una favola per coglioni.
Lo credo ancora.

Credevo che l’Iran fosse democratico come gli Stati Uniti o Israele e che i diritti umani venissero rispettati al suo interno come negli Stati Uniti o in Israele: voglio dire, con la stessa frequenza statistica.
Non conosco le statistiche, ma credo che avere 200 canali televisivi e tutte le agenzie di rating sul proprio suolo non sia garanzia di amore per il prossimo.

Credevo che l’unità d’Italia fosse un bluff: un ulteriore aspetto della colonizzazione europea del XIX secolo. È stato disfatto un regno in declino per motivi di politica internazionale.
Credo che, come in tutte le manifestazioni umane, un ristretto numero di galantuomini si veda sputtanare il lavoro da un esercito di arrivisti, stupidi e ruffiani.

Credevo che la scienza avesse dentro i suoi schematismi qualcosa di molto affine alla religione.
Lo credo ancora: solo che al pensiero scientifico rimane ancora una possibilità di agganciarsi alla realtà. La religione  invece può solo mistificare in nome del sogno.

Credevo che Saviano fosse funzionale al sistema-spettacolo e, se non gli fosse capitata qualche disgrazia (Dio non voglia) o non sarebbe venuta la fine del mondo, per i prossimi 55 anni non ce lo saremmo più tolto dai coglioni.
Credo invece ora che il fenomeno Saviano si sia consumato molto più in fretta del previsto: è vero che nel "mondo dello spettacolo" si cade e si risorge spesso. Vedi Pippo Baudo.

Credevo che dove esiste una “versione ufficiale dei fatti” la verità possa facilmente essere individuata nel suo opposto.
Lo credo ancora.

Credevo che Berlusconi fosse un delinquente mafioso, ma che operasse in un sistema perfettamente integrato di politica criminale a livello internazionale. Lui aveva solo il difetto di essere un po’ troppo “italiano” e di buttare tutto in caciara. In questo stava il suo declino a livello internazionale. Fosse stato meno esibizionista avrebbe potuto fare il triplo delle leggi ad personam senza che nessuno sollevasse un beh. Ma aveva cominciato a dare fastidio a chi conta veramente.
Lo credo ancora, in parte. Lui, comunque, è molto più dentro al carrozzone della merda internazionale di quello che tanti benaltristi possano pensare.

Credevo che Santoro, Travaglio e soci, in un paese normale e in un mondo normale, avrebbero reso un gran servizio alla collettività. Credevo che nel sistema-spettacolo facessero teatrino. Tuttavia, meglio loro che il niente. Placavano l’ansia generata dalla nostra terribile impotenza.
Non lo credo più. Credo che siano le tante facce di un prisma che abbaglia le allodole, che siamo noi. Lobby contro lobby, a colpi di share.

Credevo che l’Italia fosse una finzione. L’Italia ha perso la IIGM e da allora è  colonia americana. Scodinzola alla voce del padrone.
Lo credo ancora. Solo che il futuro riserva sempre sorprese inaspettate. Voglio dire, il futuro futuro, non domani o dopodomani.

Credevo che i valori occidentali, avrebbero potuto essere condivisibili. Ma quali valori? Kant o Hobbes? Marx o Keynes? Rousseau o Gobinau? Nella loro rappresentazione fasulla, i valori diventano il veicolo di mille ingiustizie.
Lo credo ancora, ogni giorno di più.

Credevo che gli Stati Uniti fossero il demone del XXI secolo, altro che l’Islam: un Islam, peraltro, sempre più spettacolarizzato, e per questo farlocco, di quello reale.
Adesso credo che il demone del XXI secolo sia il conformismo. In nome del conformismo inconscio la ggente rinuncia a cambiare, ma spera sempre di vincere il superenalotto.
Il conformismo non è monopolio degli USA. Anche L'Iran o la Corea, o L'Italia, o il Lichtenstein non scherzano.

Credevo che la quantità di problemi planetari generata  dai tre monoteismi negli ultimi millenni, fosse semplicemente incalcolabile.
Lo credo ancora, ma ci aggiungo il sistema delle caste induista e gli abbagli del buddismo tibetano e giapponese. Ti sorridono e poi ti scannano.

Credevo che banche e usura, lungi dall’essere spettri hitleriani, fossero la diretta conseguenza di almeno due dei tre monoteismi. Non potete dare a Dio e Mammona insieme, dice il Tale. E come continuare  a farci i cazzi nostri? Si fanno diventare Dio e Mammona una cosa sola!
Potenza della scienza talmudica.
Lo credo ancora. Come non crederlo?

Credevo che la psicopolizia non fosse solo un’invenzione di Orwell.
Lo credo ancora.

Credevo che il crollo del comunismo fosse stato una catastrofe le cui conseguenze stiamo pagando tutti e continueremo a pagare per molti anni ancora.
Comincio a dubitarne. Il tempo passa e la gente dimentica.

Credevo che niente potesse nascere dal basso, mai. Chi lo  affermava era sospetto.
Lo credo ancora, con alcune riserve. Non indiane, per carità. Dalle riserve o nazioni indiane, basse o alte, non nasce niente.

Credevo che la Paranoia fosseRealtà e la Realtà, Paranoia.
La salute mentale consisteva esclusivamente nel non crederci.
Lo credo ancora.

Credevo che il razzismo non esistesse veramente. Dietro quello che si definisce razzismo, c’è sempre stato qualcos’altro.
Lo credo ancora.

giovedì 11 agosto 2011

Contorsioni mentali di un lumpen proletar


Fossi anche il più clamoroso cretino, voglio esserne totalmente consapevole.
La perfetta coscienza dei miei moventi e atti resti almeno come conquista.
Esacerbare il proprio narcisismo con la pretesa della più completa lucidità.
Sapere di non avere neanche questo.
Rimanere un idiota che vuole farsi bello di fronte a un pubblico inesistente.
Cercare un senso nel non senso.
Illudersi di essere intelligente.
Illudersi di sapere di illudersi di essere intelligente.
Illudersi di sapere di illudersi di sapere.
Siamo buchi. Tappiamo buchi.
Con un po’ di sforzo si potrebbe comprendere la pochezza che c’è in ogni cosa.
Dietro la pochezza la magnificenza, dietro pochezza e magnificenza, moti browniani. Hume rimane forse l’unico che ha azzeccato qualcosa.
Ma sono stanco di girare intorno alle solite cazzate.
Rimane il discorso sul suicidio di Camus. La vita vale la pena di essere vissuta?
Neanche su questo c’è concordanza.
Ognuno decide per sé. Se lo può.
Il fatto che non tutti credano di potere, apre il campo a nuove indagini.
Nasce la società civile.
Resta il fatto che al cosiddetto uomo moderno, l’unica libertà rimasta è quella di farsi fuori.
Per il resto non c’è libertà alcuna, o se c’è, è un margine sottile sottile.

Comunista



Il Grande Metafisico - Giorgio de Chirico (1917)




Canto l'uomo che è morto
non il Dio che è risorto
canto l'uomo infangato
non il Dio che è lavato
Canto l'uomo impazzito
non il Dio rinsavito
canto l'uomo ficcato
dentro il chiodo ed il legno
un uomo che è tutta una croce
un uomo senza più voce
un uomo intirizzito
l'uomo nudo,straziato
l'uomo seppellito
Canto la rabbia e l'amore
dell'uomo che è stato vinto
canto l'uomo respinto
non l'uomo vincitore
Canto l'uomo perduto
l'uomo che chiede aiuto
l'uomo che guarda
nell'acqua del fiume
dove l'acqua conduce
L'uomo che accende una luce
o quello che trova la voce
Canto l'uomo che è morto
non il Dio che è risorto
canto l'uomo salvato
non l'uomo sacrificato
Canto l'uomo risorto
non il Dio che è lì morto
Canto l'uomo che è solo
come una freccia nel suolo
L'uomo che vuole lottare
e che non vuole morire
Canto Andrea del Vento
ragazzo di Crotone
che si fa avanti e racconta
la sua vita di cafone
Anch'io sono partito
piangevo alla stazione
e poi là nella neve
dove si poteva sperare
Non c'era l'onda del mare
Là,sono arrivato
anch'io mi sono fermato
Canto l'uomo che ascolto
con la voce distesa sul prato
Canto chi vuole tornare
non chi vuole fuggire
Canto Andrea che dice
quella era la mia terra
adesso la prendo e la mangio
Io,adesso la prendo e la mangio

 (R. Roversi)

mercoledì 10 agosto 2011

Bobby Fischer in Islanda



ascolta vecchi dischi jazz e soul
si  abbandona come un sacco
su una panchina del parco
la grossa pancia tesa sotto il respiro
Dicono che Bobby tenga un basso profilo
Ma il suo profilo non è mai stato così alto
Mangia un panino al formaggio
di fronte al mare

Un giorno si slancerà
dritto in culo al cielo universale
arrivando a bucare  lo zenit
Per ora si accontenta di addentare
il suo panino in faccia al mare

Quassù, vicino al Circolo Polare
i pomeriggi eternamente riflessi
sopra i vetri delle case
sono tenuti sotto scacco
dal bagliore principale
della Torre Municipale
Bobby conosce le sue mosse magistrali
Il bianco muove e il nero vince sempre
Masturbazioni per fringuelli
Finisce il suo panino al formaggio
Luce radente sulle case basse
Odore di mare e nuvole riflesse 
Granelli di luce sui vetri sporchi
Eccoli, i marchingegni del cosiddetto cosmo
Ecco il prodigio dell’intelligenza  
rivolta contro se stessa
Uno specchio verticale
di acqua e aria chiara
e cielo e terra e mare grigio azzurro
nitido come cristallo
La partita della vita si può solo perdere
Ma Bobby è felice da scoppiare

martedì 9 agosto 2011

Sogno della grande onda

Io sogno molto, troppo. Non a occhi aperti. Di notte.
La mia esistenza notturna è costellata di strani appuntamenti con eventi di varia natura.
Di alcuni potrei trovare un significato, di altri ignoro l'origine.
Non mi sono mai affaticato a interpretarli. Mi limito a viverli.
Certe volte vorrei farne a meno. A lume di memoria, non credo di avere passato una notte della mia vita senza la sensazione di avere sognato, se non il ricordo vero e proprio del sogno. In sostanza mi è aliena l'esperienza di crollare come un sasso e risvegliarmi qualche ora dopo, con la sensazione di una cessazione di sé intermittente.
No, adesso che ci penso, così mi capitava da piccolo.
Ora, di notte, la mia mente è furente come un vespaio. Non è esattamente una cosa riposante.
Questo sogno l'ho sognato quasi tre anni fa, appena dopo l'inizio della crisi economica mondiale, come la chiamano. Non so se c'entra qualcosa, forse no. Ma l'ho ritrovato in un vecchio appunto e a questo punto lo ficco nel blog. 
Così farò man mano che sognerò nuovi sogni o troverò appunti di sogni vecchi.
Dopo tutto qui posso fare come mi pare.


C'è un ospedale approntato nel mio appartamento, un appartamento peraltro più simile a un vecchio ristorante che a un’abitazione.Tavolini, separé, banconi, fiori ovunque, televisioni accese negli angoli. Eppure rimane il vecchio appartamento-topaia che ho abitato per quasi tre lustri, quando ero povero (lo sono ancora).
C'è troppo viavai e mi lamento per la confusione. Vado a dormire sul divano in sala, ma non riesco a prendere sonno. Allora torno in camera da letto per protestare e la trovo piena di vecchie signore in camicia da notte, evidentemente le degenti nel mio ospedale-casa.
Nessuno mi dà retta. Mi sento solo e per trovare uno sfogo al mio nervosismo guardo fuori dalla finestra e nel chiarore di un giorno senza tempo mi accorgo che c’è un mare oltre le case di fronte e questo mare si è alquanto ritirato verso l’orizzonte lasciando pozze di fango ovunque.
Trovo la cosa assai preoccupante e lo dico a Paola che, come tutti gli altri, non mi dà retta.
All’improvviso, eccola, la grande onda del maremoto che si stacca dall'orizzonte e si avvicina
Io mi sento tranquillo, perché siamo molto in alto rispetto al terreno.
L’onda ci passa qualche metro sotto il balcone, travolgendo tutto e facendo scricchiolare tremendamente le fondamenta della casa-ospedale. Qualcosa mi colpisce sulla testa senza farmi male.
Cambia scena, l'acqua si è ritirata. Tutto intorno è devastazione, ma noi siamo salvi, la casa ha resistito e poi suona la sveglia.
Ore 5:45.

martedì 2 agosto 2011

Il Formidabile



Se si potessero assimilare tutte le teorie scientifiche, tutte le opere filosofiche e artistiche, tutte le dottrine religiose in un colpo solo e  a fondo, se un essere favoloso potesse leggere tutti i libri e interiorizzarli, comprendere e interiorizzare tutte le formule, questo essere saprebbe, senza ombra di dubbio, che sono tutti trastulli.
Trastulli d’animali. Come accoppiarsi. Come mangiare. Come masturbarsi. Diversivi.
Nel flusso prodigioso del tempo, queste insignificanti analisi, che pure sono costate anni di vita, sforzi indicibili e spesso la vita stessa ai suoi ricercatori, sono solo lo zampettare di un topo che esplora da un capo all’altro, ininterrottamente, la sua gabbietta.
Eppure il Formidabile è tutto intorno. Produce déi a getto continuo.
Il Formidabile è ciò che la percezione potrebbe percepire se non fosse soggetta a innumerevoli limitazioni.
Questo significa che il Formidabile si può sempre e solo intravedere.
Una metafora buddista parla di un cavallo bianco visto passare veloce come un lampo dal buco di una serratura.  Il cavallo bianco rappresenta la fugacità dell’esistenza.
Il Formidabile è lo slancio infinito del cavallo.