Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

lunedì 12 agosto 2013

Battisti Panella. Don Giovanni: L'artista non sono io, sono il suo fumista



Prima di cominciare, bisogna dire che porsi l’obiettivo di analizzare i 40 brani è da un lato un compito ingrato e, da un altro lato, completamente inutile.
Indagare sull’astrattismo ha sempre in sé una sfumatura di ridicolo che aumenta man mano che l’indagine prosegue. Non si troverà l’assassino, alla fine del giallo, ma solo il cadavere consunto di noia dell’investigatore.
Non ci sono interpretazioni dei significati dei testi, o meglio, ce ne sono migliaia e tutte potenzialmente valide. Molti ci hanno provato e anche con risultati interessanti (in Rete c’è una pletora di interpretazioni: psicanalitiche, filosofiche, matematiche, logiche). C’è chi trova nei bianchi citazioni del Petrarca, chi i numeri di Fibonacci, chi informazioni criptate sulla vita quotidiana del cantante … la sensazione che se ne trae è quella inquietante che tutte queste interpretazioni potrebbero essere vere e false a un tempo.
Panella disse a suo tempo che le parole hanno significati molteplici e che il suo “gioco è proprio trascorrere e percorrere la parole e i sensi. Invito al ritrovamento di un tesoro che nessuno vuole trovare. E soprattutto sfuggo il senso unico, o meglio l’unico senso.”
L’impronta che si ricava dalle parole di Panella è quella dell’avanguardista stanco di se stesso: un avanguardista che non ha più bisogno di essere tale. Tutte le retroguardie sono rientrate, ormai, e la guerra, mai vinta e mai combattuta, è finita laggiù, da qualche parte degli ultimi anni del novecento, prima di cominciare. Panella pare sempre parlare da dietro un sbadiglio di noia, vezzo che si concedono molti pseudo artisti: a lui glielo si può anche perdonare. Battisti invece era un entusiasta del lavoro, un perfezionista. La produzione BP riflette questo strano connubio di noia partecipata: lo sforzo di tenere insieme due mondi distanti che per otto anni ha funzionato.
I cinque album parlano direttamente dal fondo opaco in cui le cose e le parole si confondono. Parlano di cose oltre le cose, apparentemente riconoscibili (L’Apparenza è un'altra parola chiave) in realtà inconoscibili e sconosciute.
Tutto quello che si può fare è giocare con la percezione che questi brani producono e perdersi completamente.

Il primo dei cinque bianchi non è bianco, in realtà, ma di un marroncino beige chiarissimo.
In copertina un attaccapanni alquanto stilizzato da cui pende una sciarpa d’artista, di quelle lunghissime alla Fellini, per intenderci, lascia ben poche indicazioni sul contenuto del disco.
Nel 1986, in pieno decennio pop elettronico, testi intellettualoidi, densi di richiami alle tradizioni del novecento, alla letteratura, alla psicanalisi, mescolate a melodie accattivanti, dopo l’enorme successo di Battiato, non sono più una novità per gli ascoltatori.
A Drive In, trasmissione esemplare del decennio, si prendono in giro le pretese intellettuali di Sting, che fa canzoni basandosi sulla psicanalisi di Jung.
Perfino i Matia Bazar cominciano a fare testi ermetici e minimalisti, con canzoni tipo Aristocratica o Vacanze romane.
Insomma, il pubblico è diventato onnivoro: difficile disorientarlo. La cultura ufficiale stessa viene presa e frullata nel calderone di superficialità commerciale di quegli  anni di cosiddetto riflusso.
Tuttavia anche nei rifluenti anni Ottanta il nuovo album di Battisti, lascia sbalorditi pubblico e addetti ai lavori.
Dopo quattro anni dallo sperimentale e non del tutto riuscito Eh già, con testi della moglie (o forse di Battisti stesso? Mistero mai svelato), per di più un nuovo album senza Mogol, è un evento che non può lasciare indifferenti.
Battisti aveva già abituato i suoi fan a sorprese inaspettate.
Da Anima Latina in poi (del 1974: album tra i più ricercati, raffinati e profondi della discografia non solo di Battisti, ma della musica leggera italiana) la coppia Battisti – Mogol esplora tutti i ritmi e i riti della cultura popolare.
Ecologisti, terzomondisti, ribelli, anti consumisti in un’epoca in cui era di moda esserlo, i testi di Mogol sembrano compendiare a tratti Eros e Civiltà di Marcuse: portavoce di un’epoca in cui l’immagine dell’intellettuale anti borghese aveva ancora un suo senso.
Nonostante i belli ma “furbi” testi di Mogol la curiosa e inarrivabile capacità di Battisti di creare canzoni che echeggiano l’epoca nella quale sono state composte e nello stesso tempo la trascendono, sembra crescere sempre più.
Marciare insieme al tempo e esserne al di fuori: questo è il segreto di Battisti.
Gli anni Ottanta iniziano con la fine del sodalizio con Mogol.
Sui motivi di questo distacco tutto è stato detto ed è inutile aggiungersi ai cori di deprecazione o felicitazione.
Gli ultimi due album fatti con Mogol hanno un gran successo, ma qualcosa già si nota che stona. Una donna per amico (1979) e Una giornata uggiosa (1980) sono due perfetti successi commerciali.
Chiunque si potrebbe accontentare. I tempi sono quelli che sono. Finita la deriva ecologista i testi di Mogol accennano a un proto femminismo, a una incipiente stanchezza delle ideologie. Anche la musica di Battisti sembra in qualche modo appiattirsi nella facile melodia, nella giustificazione delle cose come stanno, sia in senso letterale che in quello musicale.
Su questa china a breve si può solo arrivare alla ripetizione e alla stanchezza, la macchietta di sé stessi, la stessa irrinunciabile canzonetta di successo ripetuta ogni anno.
Ma Battisti non si accontenta del successo. Battisti non può e non vuole tutto questo.
Non vuole più, forse non lo ha mai voluto.
Lui è diverso e lo sa. Lui è veramente diverso. È disposto a tutto.
Quello che Battisti vuole è andare avanti, ricercare, trasformarsi, perdersi e ritrovarsi.
Ricordiamo sempre i due aspetti fondamentali della psicologia artistica di Battisti: volontà mimetica e desiderio di trascendersi, non essere mai dove si è, un modo per riconfermarsi sempre numero uno.
Patologia e immenso valore artistico, sempre in bilico.
Volontà di autodistruzione e desiderio feroce di perdersi dentro la propria opera, unito a un altrettanto feroce sentimento del proprio valore.
Come un Proust che si seppellisce in casa per completare la Recherche e rinnega sé stesso a favore dell’opera, così Battisti rinnega la propria immagine pubblica, azzera sé stesso definitivamente per diventare autore totale.
Ha già smesso da qualche anno di apparire in pubblico. Ora cesserà totalmente di cercare di favorirlo. Non concederà più interviste. L’ultima è del 1980, per la TV svizzera.
Chi potrà mai prendere il posto di Mogol?
Pasquale Panella, classe 1950, incontra sulla sua strada Battisti grazie ad Adriano Pappalardo. Tra Pappalardo e Battisti c’è una amicizia di lunga data.
I due condividono la passione per le immersioni e Pappalardo è stato una promessa nella scuderia della Numero Uno, la casa discografica fondata da Mogol e Battisti. Insomma, si gioca in famiglia, si può dire.
Panella sta scrivendo i testi per l’album di Pappalardo Oh, Era ora. Battisti ne sta curando gli arrangiamenti. È un disco stranissimo, inconsueto, e non stupisce che non avrà riscontro. In quell’inizio anni Ottanta pare proprio che Battisti e suoi collaboratori si mettano di impegno per remare contro qualunque probabilità di successo.
Battisti rimane colpito dai testi di Panella, che usa lo pseudonimo Vanera.
Panella ha scritto per il teatro, è un giocoliere della parola, conosce le sfumature, dosa sentimenti e ridicolo con maestria incredibile. È, in una parola, un poeta, un vero poeta, uno che sa. Questo basta per Battisti.
È il 1983. Battisti vuole che Panella faccia i testi del suo prossimo disco. Lui farà le musiche e per i testi lascia assoluta carta bianca al poeta.
È fatta. Inizia il viaggio.


Torniamo a quell’album marroncino chiaro, a quell’attaccapanni, alla sciarpa che vi pende, lunga, felliniana. Tutto l’album è in effetti un circo felliniano di parole e musica che mettono in campo immagini in bilico tra il sogno e il reale.
Qualcosa di mai sentito prima appare. Non i testi colti di citazioni alla Battiato, non rime cuore amore, non pretenziose analisi sociologiche: ma una valanga di parole a primo ascolto incomprensibili, su una musica che sembra prendere dal repertorio dei generi, ma che non esisteva prima.
L’album si apre con un precipizio di note di un pianoforte elettrico. È jazz? È pop? Non è subito chiaro. Inizia il sottofondo ritmico che rimarrà immutabile per tutto il pezzo.
Al di sopra del ritmo basilare, nuda si apre la dolcezza del canto.
In nessun luogo andai, per niente ti pensai e nulla ti mandai per mio ricordo. Sul bordo m’affacciai d’abissi belli assai … Sul dolce tedio a sdraio amore t’ignorai e invece costeggiai i lungomai …
Le cose che pensano è l’apertura degna di un album che vuole segnare la nuova epoca di Battisti. Il testo, tutto metafore sfuggenti, rime baciate e non, allitterazioni e apparenti solecismi, è un inno alle occasioni perdute, agli sguardi che non si incontrano, agli amori e alle emozioni leggere e inafferrabili che svaniscono o mai appaiono e che tuttavia rimangono impregnate nelle cose. Non c’è più oggetto, soggetto, chi parla di chi, di cosa, nulla ha più importanza se non questo vagare del sentimento nello spazio tra le cose.
La musica, un apparentemente (sempre l’Apparenza) semplicissimo giro armonico di mi maggiore, si sposta sempre, gira su piani armonici differenti a quasi ogni strofa, si allontana dalla tonalità originale sempre più, pare essere scritta in forma di variazioni, rimane sospesa mentre le voce canta
Son le cose che pensano ed hanno di te sentimento. Esse t’amano e non io, come assente rimpiangono te, son le cose, prolungano te …
E quando la musica non potrebbe arrivare più lontano di così, ecco che scivola quasi senza volerlo, inavvertitamente, nella tonalità originale e tutto viene ripetuto. Non importa quanto ci si allontana nello spazio, le cose ci risucchiano nel loro esserci, piene dell’amore che abbiamo sprecato.

Fatti un pianto ha un ritmo travolgente, è un trasporto epico, una cavalcata sadomasochista, una gioia di vivere sottolineata dal continuo paragone tra la donna e il cibo da mangiare. È il desiderio della donna, il desiderio dell’uomo di mangiare ed essere mangiati, di digerirsi nella totale carnalità. Tutto è cibo.
Tu dici ancora che non parlo d’amore, batte in me un limone giallo basta spremerlo, con lacrime salate agli occhi tuoi, ben condita amata t’ho  …
C’è persino una fuggevole citazione di Moon river fatta dalle trombe, un ponte che porta verso armonie jazz e il ritornello, Fatti un pianto, oh oh oh oh oh ooohhh … ha delle assonanze quasi madrigalistiche, con una curiosa somiglianza con il movimento lento della Holberg suite di Grieg. Battisti mostra una assoluta padronanza della forma, mette insieme climi e generi distanti ere e secoli con nonchalance. Panella sforna un testo incredibilmente bello sull’apparente amore e non amore.
Lacrimoni che sono lenzuola da calare o da strappare giù (Fatti un pianto) e lì perdutamente qualcuno che ti sfugga o che salga su. Per intanto qualche vento qualche tentativo fa.

Il doppio del gioco è un arazzo pop elettronico tinto di grigio in la cui strofa è basata su una semplicissima scala discendente. E tutto il pezzo sembra discendere, dalla chiarezza della strofa all’oscurità del ritornello, mentre il testo di Panella fa sfoggio di tutta la sua capacità metaforica per esplorare la rete di menzogne e pettegolezzi di cui i rapporti umani sono intessuti. Ognuno è l’agente segreto di se stesso, pronto a ogni doppio del gioco.
E ne parlò, certo che ne parlò, e che saziò i gusti di chi vide o intuì non visto gli opposti su un ponte e brume su un fiume con molte schiume …
Il finale è uno svanire nelle brume dei segreti altrui, sottolineato dalla scala discendente del tema: È fina e lei già s'incrina e l'agente segreto come ondeggia, come ondeggia, come  ondeggia. Si diffonde, si diffonde, si diffonde.
Finisce come una goccia che cade nell’acqua. Plin.

Il terzo brano comincia quasi come un acid jazz lento, con un basso fretless che ondeggia alla Jaco Pastorius, suoni di synth che sembrano immergere l’ascoltatore nella notte della giungla africana. La voce invece, canta lenta scene di vita nostrana.
La strada che curva e l’insegna notturna, un tir che si ritira, tutto il sole al nadir.
E alte a prua, chiome d’albero e zolle che non mi arenano …
Madre Pennuta esplode di colpo in furiosi ritmi tribali come una corsa di selvaggi a caccia nella foresta. Si parte dall’Africa nera per parlare di infanzia
Finita la storia e caduto l’impero di vivere dal vero ecco me di anni tre,
fu lì che fui faraonico tra bumbe e tra rumbe tiepide …
Il testo di Panella è agganciato saldamente al tema della memoria: l’inconscio e l’infanzia come punto di partenza per il poeta che tratta la poesia, la propria Madre pennuta, quasi con sprezzo.
Ho usate penne e piume di uccelli, ma quando mai?
Ho perso il sonno per scrivere solo “io volo”.
Madre pennuta, il mio morbidio, mia pelle d’oca, cuscino mio.
Il vero è nella memoria e nella fantasia, non c’è storia, il tempo finge e poi commette ingenuità. Non cancella mai le tracce sue, vuol essere preso arreso inchiodato lì …
Destino di ogni poeta è trovare la propria Abissinia, come Rimbaud.
Che caso strano questa musica “africana”.  Un accoppiamento interminabile,
Faccia a faccia tra tutti e due che infine uno è. Madre mia la gente che s’è alzata, ma che dico la gente: uno uscì.           

Equivoci amici è un vero e proprio divertissement che riecheggia quasi le musiche da spiaggia degli anni Sessanta, le file di ombrelloni, i tormentoni di Guarda come dondolo, il tutto su un robusto e ritmato arrangiamento estivo.
Il testo è praticamente un unico divertentissimo calembour su una sfilza di nomen omen.
Cassiodoro Vicinetti, Olindo Brodi, Ugo Strappi
Sofio Bulino. Armando Pende, Andriei Francisco Poimò
Tristo Fato, Quinto Grado, Erminio Pasta. Pio Semi
Ottone Testa. Salvo Croce, Facoffi Borza. Aldo Ponche.
Uno andò saldato, uno vive all'estro
uno s’è spaesato, uno ha messo plancia
e fa il trans-aitante, uno fa le more
uno sta invecchiando perché è un nobile scotch.
Uno fa calzoni dai risvolti umani,
uno ha un solo naso, uno ha mani e polsi
uno è su due piedi, uno è calvo a onde
uno si nasconde poi non sa in che vano sta.
Un viso ucciso dal pensiero, Un tal con voce da uccelliera
Un sostituto a sua insaputa, e un misto storie e geografie
Uno per uno li ricorda, l'orchestra mentre si accorda
la verità viene sempre a palla, dolce chi era sei tu
Il maestro solitario fischietta ariette d'oblio
Sei tu!
Il maestro solitario è Battisti. Questo è certo.
Tutto finisce con una sorta di Grande abbuffata, come spesso in Panella, dove il cannibalismo è la soluzione per evitare gli equivoci.

Don Giovanni è il fulcro dell’album. Qui si potrebbero sprecare fiumi di inchiostro (o migliaia di pixel) per sottolineare l’inesauribile valenza filosofica del testo.
Si possono scomodare Lacan, Derrida…  sarebbe la solita noia mortale di cercare di rivestire di significati ulteriori ciò che qui è così evidente. Il duo BP non ha bisogno di substrati filosofici per operare. Il “senso che si è letto tutti i libri” opera da una angolazione post culturale. Panella produce il risultato di un lungo processo digestivo.  Si pone oltre ciance di mestiere. Non chiede nulla, mette in atto parole.
Battisti parte con un coinvolgente arrangiamento spagnoleggiante, con tanto di nacchere, una danza in tempo binario: pare di vedere Don Giovanni procedere lentamente verso di noi, al ritmo della musica, liberarsi di tutte le maschere che gli hanno messo, spogliarsi definitivamente di tutto. È lui l’attaccapanni della copertina
Non penso quindi tu  sei: questo mi conquista. L’artista non sono io, sono il suo fumista.
Son santo, mi illumino, ho tanto di stimmate. Segna e depenna Ben Hur: sono Don Giovanni. Rivesto quello che vuoi, son l’attaccapanni … poi penso che t’amo, no anzi, che strazio!
Che ozio nella tournée di mai più tornare, nell’intronata routine del cantar leggero l’amore sul serio. Mi scrivi che non esisto quaggiù, che sono l’inganno. Sinceramente non tuo.
Siamo lontani dal Don Giovanni di Mozart. Lì c’è il libertino che non si sottopone alle superstizioni borghesi, a costo dell’inferno, qui c’è di mezzo tutto il novecento con le sue delusioni. Don Giovanni è il centro vuoto dell’album, l’attaccapanni con niente altro appeso che una vecchia sciarpa d’artista.
Don Giovanni è l’ingannatore di chi cerca significati. Non è l’artista, è il suo fumista.
Musica e parole coincidono in maniera sublime, come una maschera sotto una maschera.

Che vita ha fatto sembra tornare su panorami più consueti, timbri e atmosfere da Prendila così, ma il ritorno è solo apparente. Accordi jazz e stacchi da big band fanno da sfondo a una delusione da triangolo di amorosi equivoci
Lei m’amò, tu l’amasti io no: i verbi non coincidono …
Qui la musica diventa descrittiva. L’ermetismo delle frasi è quasi scoperto.
Che vita ha fatto, ma ben più rapida con lei duellò la vita.
Che vita ha fatto metà sognandola metà in realtà
se poi è realtà quel che in realtà sognò a metà.
Lei m'amò, tu l'amasti, io no: i verbi la tradirono
che c’entro io?
Che vita ha fatto a immaginarsela cosi, colà la vita.
Come sta, come stai, come sto?
La voce coniugandoci s'allontanò.
Gli ultimi versi possono far pensare a una farsa finita in tragedia. Il terzo, presunto innocente è stato preso in mezzo e stritolato. Oppure la menzogna è stata accettata come normale. Ci si incontra a una festa, ci si saluta.
Tutti sanno, nessuno dice nulla. La vita continua.
Il pezzo finisce con una coda “oceanica”. Ci si trova davanti alla risoluzione di tutte le tensioni, seduti o sdraiati in riva al mare, gabbiani stridono, onde distanti si frangono.
Le povere figure del triangolo, come angoli destinati a non incontrarsi mai, curano la propria solitudine.
Tutto era perfetto e niente stonava, come dice Vonnegut in Mattatoio n. 5.

Con Il Diluvio finisce l’album d’esordio del duo Battisti Panella. 
È un brano ciclico, sembra non finire mai, come la pioggia che descrive. Accordi che mimano, forse, i tuoni, una coppia che si dichiara finale: dopo di noi il diluvio, nessuno potrà essere come noi, ma mentre lo dicono già non ci credono, devono inventarsi storie sempre più clamorose per reggere il gioco.
Dopo di noi diluvierà, non spioverà, va bene.
Noi la fortuna degli ombrellai.
Chili di liquidi dopo di noi
Va bene, come vuoi, dopo di noi.
Diluvierà, non spioverà.
Dopo di noi: il diluvio.
Vittime fa l’ottima idea d'essere noi finali.
Straziante d'estri tristi annegherà
la più assetata arsura nel frullio.
Un ingordo gorgo umido è l'addio.
Dopo di noi non spioverà
Dopo di noi: il diluvio
Buona l’idea del tempestio
tuona di già, stai buona.
Piove con ghiaccia semplicità
con truci gocce dal bel luccichio
e piove, piove, piove, siamo annaffiatoi
Dopo di noi, il bello verrà finché terrà l’ombrello.
Anche in questo pezzo, come in quello precedente, c’è un lungo finale che insiste su atmosfere morbide, dove ogni tensione viene lasciata andare.
Ormai il diluvio è placato e l’arca di Noè galleggia placida sopra il mondo sommerso.
Continua il viaggio. 

12 commenti:

  1. «Continua il viaggio.»
    Mi unisco, in un impaziente silenzio.

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  2. non son d'accordo con la parte finale della recensione, 'Il Diluvio' non finisce affatto in maniera morbida, o almeno in quell'accordo finale di synth che suona al quanto minaccioso.

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    1. Diciamo che suona come un dissolvimento allo stato acquoso dell'arca di noé ... in effetti la sovrapposizione di due accordi in tritono è inquietante, come un destarsi da un sogno con i sensi ancora intorpiditi o il passare a un altro livello, a un'altra serie di storie ... come l'album successivo.
      Grazie per essere passato da qui.

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    2. Da "Don Giovanni" in poi, Battisti, con Panella, realizzerà delle opere uniche che, grazie alle pieghe sempre più imprevedibili e inaspettate, che prendono la musica e le parole, non stancheranno mai. Proprio perché il fatto di non essere "orecchiabili", e la difficoltà di memorizzarne i testi, sono il segreto che le rende sempre nuove e sempre più belle ad ogni ascolto.

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    3. Bella disamina, anche erudita. Complimenti. Solo che hai scritto almeno 5 volte se stesso con l'accento su se. L'accento su sé va messo solo quando non si accompagna alla parola "stesso"... Ahi ahi

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    4. Grazie per la segnalazione, provvedo a correggere.

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    5. All'anonimo "professore" che, da saputello, corregge gli accenti su 'sé stesso', incoraggiamo a informarsi su ciò che l'Accademia della Crusca dichiara al riguardo: "[...] sebbene negli attuali testi di grammatica per le voci rafforzate se stesso, se stessa e se stessi non sia previsto l'uso dell'accento, è preferibile considerare non censurabili entrambe le scelte, mancando in realtà una regola specifica che ne possa stabilire il maggiore o minore grado di correttezza [...]".

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  3. Grazie per il tuo tempo, grazie per le tue spiegazioni/opinioni. Anche se mi prendono per matto, la Battisti-Panella è il periodo migliore di una carriera geniale

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  4. Articolo trovato per caso cercando del "periodo bianco" di Battisti sul web: lettura davvero appagante,complimenti! Una disanima così approfondita rende giustizia ad uno dei dischi più belli della musica italiana (e non solo). È come sentire una versione sophisti pop dei Pet Shop Boys)...

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  5. Ciao
    Ci sono delle imprecisioni nella trascrizione dei testi

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  6. i couldn't believe that i would ever be re-unite with my ex-lover, i was so traumatize staying all alone with no body to stay by me and to be with me, but i was so lucky one certain day to meet this powerful spell caster Dr Akhere,after telling him about my situation he did everything humanly possible to see that my lover come back to me,indeed after casting the spell my ex-lover came back to me less than 48 hours,my ex-lover came back begging me that he will never leave me again,3 months later we got engaged and married,if you are having this same situation just contact Dr Akhere on his email: AKHERETEMPLE@gmail.com thanks very much sir for restoring my ex-lover back to me,his email: AKHERETEMPLE@gmail.com or call/whatsapp:+2349057261346


























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