Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

sabato 31 agosto 2019

Nel grande universo tutto è lo stesso


Non ci sono errori. Non c’è mai stato un errore. Dio o il Gohonzon, o il karma, o le leggi, o Brahma, o Vishnu, non commettono errori. E perché dovrebbe esserci un errore in quello che accade? Errore nei confronti di chi e cosa? Quello che accade è quello che accade e deve accadere. Potrebbe andare altrimenti ma non ci va. Se va altrimenti è come doveva andare. Come deve andare non lo sappiamo MAI finché non accade. E dopo che è accaduto, è scolpito. Quello che noi desideriamo, lo desideriamo perché siamo fatti in un dato modo e siamo fatti in un dato modo perché infinite circostanze si sono unite per formarci in quel dato modo. Ogni nostro sforzo lo compiamo perché in noi c’è uno slancio che esiste perché cause ed effetti si sono formati per creare quello slancio. Non c’è un punto di origine e un punto di arrivo. La sofferenza coinvolge il piccolo individuo che si sente tagliato fuori da questo flusso. È l’io psicofisico che soffre o gioisce, ma questa sofferenza o gioia sono il prodotto di infinite cause e infiniti effetti che non hanno un’origine unica e un unico fine. Nel flusso continuo accade solo quello che deve accadere. Questo è solo apparentemente fatalismo, in realtà è un semplice movimento unico di tutte le cose, una danza, o meglio, una rete che oscilla al vento.
Gemere perché non si ottiene quello che si vuole o perché si è bastonati dalla vita va bene, in quanto l’energia che entra deve uscire in qualche modo. Il dolore avviene, come avviene tutto il resto, come avviene la gioia, come avviene qualunque cosa. Lamentarsi o non lamentarsi è ininfluente. Non lamentarsi può essere lodevole in una certa configurazione, ma ai fini dei risultati, è indifferente. Quello che accade non è mai un errore, nell’universo non esistono errori, casomai deviazioni da uno standard che poi è il frutto delle nostre percezioni e niente altro. Le infinite cause ed effetti fanno sì che noi siamo esseri che cercano di sfuggire alla sofferenza, peraltro non riuscendoci. In questa fuga solo apparente creiamo arabeschi nel tessuto del mondo. La percezione individuale vede nel dolore un errore della creazione, quando in realtà esso è un movimento come un altro. Nessuno commette errori o fa azioni giuste. Giusto e sbagliato riguardano solo le nostre percezioni limitate. Nel grande universo tutto è lo stesso. Il reale è razionale, il razionale è reale. Quando Hegel lo ha capito, al cospetto di Napoleone, intorno al 1807, è caduto in una depressione nervosa nella quale si è dibattuto per qualche anno. Poi ne è uscito, se ne è fatto una ragione, appunto. Perché il reale è razionale. Hegel era un essere abbastanza illuminato. Non completamente, ma abbastanza. Il reale è razionale: saperlo ti fa sentire come la nottola di Minerva che esce al crepuscolo, quando tutto è avvenuto e non si può fare più nulla.
È per questo che le persone risvegliate, i Buddha, praticano il distacco del frutto dall’atto, che non è la stessa cosa del fatalismo. Il fatalismo e la razionalità del reale sono due cose diverse. Qui subentra Schopenhauer e si ribella Nietzsche e il giochino riprende. Sarvakarmaphalatyaga.