Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

mercoledì 30 luglio 2014

Divagazioni sulla fine dell'inconscio



Gli psicoanalisti, leggo, lamentano lo strapotere attuale delle terapie cognitivo comportamentali. Lamentano, a sentir loro, non tanto il fatto che gli stanno portando via una abbondante fetta di mercato, ma che le TCC siano il frutto di un adattamento a un’epoca (questa) alquanto disgraziata perché vede l’affermarsi del “discorso del capitalista” di Lacan.

Il buon vecchio strutturalista non – strutturalista, diceva che l’attuale evoluzione del capitalismo portava a una frattura tra desiderio e Legge - castrazione, di modo ché, il desiderio sganciato dal controllo, avrebbe reso gli umani ultra edonisti, favorendo l’insorgere di gravi patologie, prima tra le quali la mancanza di necessità di identificare qualcosa come “Inconscio”.

Le TCC, leggo, sono un tentativo di rimodellare sé stessi basato sulla realtà per quella che è. Senza voli pindarici, senza scomodare mamma e papà, pur non negando le nefaste influenze parentali, la TCC prova a basarsi sul qui e ora.

È un approccio in realtà antichissimo, già il buddismo si riferiva alla totale inutilità di capire da dove la freccia avvelenata era stata scoccata, di fronte alla priorità di togliersela ed evitare possibilmente di morire.

Di qui, dicono i TCC, l’inutilità del concetto di inconscio. Non che non esista l’inconscio, ma non appare più un linguaggio che ci abita, oppure il serbatoio delle pulsioni più atroci, cioè in sostanza qualcosa con cui i più bigotti benpensanti erano costretti a fare i conti sotto forma di nevrosi: ormai è un misero laghetto prosciugato, nella terra dove sono curati solo i sintomi, in modo prevalentemente farmacologico.

In sostanza l’uomo moderno starebbe diventando senza inconscio, cioè nel suo sottosuolo il desiderio è totalmente sganciato dal godimento. L’imperativo di quando c’era ancora l’inconscio era “come osi voler godere?” ( di mamma, di papà, della cameriera, del cameriere con la grossa patta, del buco del culo del cagnolino di Madame X, ecc, ecc.).

Adesso l’imperativo che il super Io lancia è “come osi non riuscire a godere?” (con tutte le offerte disponibili, ecc. ecc. ecc.), cosa che diventa paralizzante da un lato, mortifera dall’altro. Pare proprio che l’uomo per funzionare abbia bisogno di autolimitazioni, tolte le quali solo gli egotisti totali funzionano (Berlusconi, Renzi & co. docet), gli atri diventano obesi o depressi.

I  cosiddetti psicoanalisti, parrebbe, vedono nella pletora di disagi specifici di quest’epoca (bulimia, anoressia, obesità, depressione, disturbi di ansia e panico) qualcosa che ha a che fare con l’impossibilità di aderire al festino generale. Ma questa incapacità, mi sembra, di aderire all’istanza sociale del “festino generale” che cosa ha di diverso dal voler fuggire dalla rigidità che opprimeva il desiderio del “festino generale” nel periodo storico pre – spettacolare?

Solo, credo, il segno + al posto del segno - .

Se nell’ottocento e fino al 1950 era “di moda” l’isteria e ficcarsi candele di varie dimensioni nella vagina, oppure il tarantismo nel meridione, oppure sfogarsi con razzismi e sessismi vari, ora è ”di moda” baloccarsi con il reale che non si riesce a consumare. A ogni epoca la sua nevrosi o psicosi.

Ora abbiamo la psicosi collettiva del politicamente corretto. La cosa strana è che i cosiddetti psicoanalisti vedono nel proliferare di nuove nevrosi il godimento sganciato dal desiderio, senza affrontare la frustrazione che questo godimento apparentemente accessibile a tutti, in realtà è sottoposto a tutta una serie di limitazioni. Tutto viene codificato, classificato. Le sofferenze delle nuove (che poi nuove non sono) nevrosi provengono dal fatto che l’individuo è lasciato completamente solo con sé stesso, abbandonato da una società che è solo un involucro vuoto. Non esiste più una società borghese con la quale confrontarsi o scontrarsi.

La psicoanalisi si sente innocente di fronte al proliferare di queste nuove follie post e ipermoderne, come se nel passato, chissà quali passi da gigante avesse fatto nel rendere consapevoli gli individui dell’inculata che è vivere in una società di consumo di massa.

Freud e Marx, uniti insieme nelle mitologie anni Sessanta, tanto amate da chi adesso le critica, avrebbero provveduto, pensavano, a sganciare l’individuo dalla schiavitù del consumismo. In realtà questo non è mai avvenuto perché gli psicoanalisti sono stati i primi a mettersi come obbiettivo unico quello di “ripristinare” l’individuo e farlo funzionare meglio in un contesto sociale che adesso, perché le TCC stanno spopolando, criticano. Troppo facile, troppo ipocrita.

Dietro le loro valanghe di parole trovo solo un rifiuto ad accettare l’agonia meritata di una scuola  di pensiero dai connotati religiosi: una setta ormai condannata a minoranza. Una setta che si è dimostrata totalmente incapace di curare veramente le sofferenze degli uomini, perché troppo legata a mitologie ed esoterismi.

Gli psicoanalisti fanno fatica a integrare le neuroscienze. Pensano, romanticamente, che le neuroscienze siano limitative. Una pastiglia ti cura solo il sintomo, dicono. Giusto, ma bisogna vedere cosa c’è veramente dietro al sintomo. Forse non c’è la castrazione, forse c’è l’ignoranza di essere al mondo e non sapere perché: il disagio di essere immersi nei codici linguistici che traggono origine principalmente dai giochi di potere. Parlano di vuoto del senso, come se prima ci fosse stato un pieno. C’era l’illusione, ai tempi di Freud, di una società borghese che sembrava funzionare. C’era l’illusione, ai tempi di Marcuse, di una società borghese alla quale opporsi. Ora ci sono solo individui che brancolano nel vuoto, un vuoto che la psicoanalisi non ha fatto nulla per arginare.

In buona sostanza la crisi e il fallimento della psicoanalisi è responsabilità della psicoanalisi stessa, non della società che non ha mai desiderato veramente cambiare.

La TCC è adatta a quest’epoca di pronto intervento.

Ora, in quest’epoca c’è un grande vantaggio: tutte le illusioni sono cadute, oppure sono verificabili come illusioni, se si vuole. Puoi scegliere la tua illusione dallo scaffale che preferisci e indossarla. Solo la sofferenza è, in un certo senso, reale: l’unica cosa reale.

Essa trae origine dal fatto, semplicissimo, che siamo vivi come individui. I vari rimedi alla sofferenza possono definirsi, in un certo senso, storia dell’uomo. Nelle società primitive, nelle quali l'individuo è parte integrante della collettività, il carico di angoscia è minore. Torniamo alla collettività? Non so se ci resisterei, personalmente. Sono ormai troppo corrotto dal vizio del pensiero critico, dall'individualismo. Mi farebbero fuori subito.

L’inconscio è la grande creazione della coscienza borghese, sparita la quale, quello che rimane è il terzo millennio: cioè una riduzione all’osso delle priorità, camuffata da tecnologia. Ma anche questa fase non è destinata a rimanere eterna.

La fase attuale, il vero motivo per cui le TCC incontrano il “gusto” del pubblico, è che la nostra è un’epoca di orfani. Non ci sono più madri e padri. La nostra società non si può definire veramente maschilista, né ancora peggio patriarcale. È una società bisessuale, anzi, asessuale, nonostante tutta l’enfasi sul sesso praticato e consumato.

Gli orfani provano a cavarsela come possono, si sa. Se resistono, in genere, scoprono nuovi orizzonti. Buddha, Rousseau, erano orfani precoci.

Quella attuale è una società dominata da forze imperscrutabili, con cui è impossibile identificarsi e che è altrettanto impossibile combattere. Le multinazionali? La pubblicità?

Siamo orfani della Coca Cola, anche se continuiamo a berla.

Dio è morto nell’ottocento, nel duemila è morta la Coca Cola, anche se la vendono e la bevono. La promessa di felicità contenuta nella pubblicità è una dichiaratamente vuota e inutile ripetizione. Ormai non abbiamo più bisogno nemmeno della felicità vera, ma solo di qualcuno che si suppone abbia l’autorità di qualificarla. Abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci dica, ecco, questa è la felicità, per poter fingere di crederci. Di questo abbiamo bisogno, di un principio di autorità del godimento. Qualcuno che ci dica che laggiù troveremo posti meravigliosi, svaghi, riposo. Non ci crediamo veramente, ma è importante mantenere la finzione. È importante fare finta di credere alla Coca Cola, ne va del nostro funzionamento. Ciò che ci fa andare avanti è unicamente il tempo della routine, l’aspettativa che il domani sia ragionevolmente uguale all’oggi, senza infamia e senza lode. Dobbiamo fare finta di avere dei desideri, perché sarebbe asociale non averli. Dobbiamo fare finta di credere, anzi, dobbiamo impersonare colui che crede. Allora il meccanismo va avanti. Da qui nasce il planetario fenomeno della dipendenza.

Dobbiamo fare finta che quello che facciamo sia normale, anche la cosa più bizzarra rientra nella normalità di chi vive la vita come si deve viverla: cioè con ottimismo.

L’ottimismo dell’eterno presente. Ogni deviazione dalla linea è frutto, dicono di risentimento. Può essere.

Noi, quaggiù, viviamo già nell’eternità. Niente può più accadere, anche se poi tutto sembra succedere. Ciò contrasta stranamente con la frenesia che sembra prendere tutti, specialmente la mattina per le strade.

Un vero progresso sarebbe stare fermi, immobili, tutti, magari solo per cinque minuti: tutti, ma proprio tutti, in ogni parte del mondo. Allora qualcosa di straordinario succederebbe: l'affiorare magico del libero arbitrio.
 

martedì 22 luglio 2014

Lamentarsi è da stolti



www.youtube.com/watch?v=FuTsLJSMCsU

Ah, se si potesse sapere tutto, con chiarezza e proprietà di linguaggio per poterne riportare agli altri o perlomeno a se stessi, l’essenza: e poi andare avanti, lasciarsi alle spalle lo scibile umano e avventurarsi veramente nell’ignoto. Potersi permettere di scavalcare la conoscenza per attingere alla vera sapienza, oppure ridere della sua inesistenza: questo sarebbe, come dire, un epilogo da bramarsi devotamente.

Ah, se potessi capire tutto, provare tutto, amare tutto, fermare tutto, andare oltre e tornare; se ci fosse un punto d’arrivo a questo interminabile e informe viaggio: un punto che non sia la dissoluzione eterna o un livello di nulla intollerabile. Se potessi, in altre parole vivere per sempre al riparo dall’angoscia. Se solo potessi veramente vivere per sempre nella gloria di un giorno benedetto.

Se solo potessi afferrare questo punto imprendibile che è questa mia vita qui, adesso, in queste condizioni e caratteristiche; se potessi per un momento solo, non essere così limitato.

Questo mio piccolo cervello che pensa, questa mia piccola anima che desidera qualcosa di infinito e indefinito in questo mondo vasto e incomprensibile, questo prodigioso istante di esistenza che sorge e svanisce e non ci posso fare niente.

Questa solitudine, ma anche questa pienezza, questa dolcezza inafferrabile, questa mia vita: voglio tutto di essa, e non capisco nemmeno qual è questo tutto che voglio.

È il senso di desiderio d’infinito racchiuso in me, lo stesso impulso che fa espandere le galassie. Basta poco perché cessi e tutto ritorni nel solito trastullo da ebete incosciente.

In me, umile nessuno in mezzo a miliardi di miei simili, scorre il sangue dei miei progenitori nomadi. È un afflato romantico e come tale svalutato dalla storia, oppure tutto questo ha un senso?

Io non lo so.
 
Una volta il mondo mi sembrava diverso. Non che fosse semplice vivere, ma le persone sembravano un po’ diverse. Adesso, non le riconosco più. Non mi piace la gente di quest’epoca, non so quando hanno cominciato a cambiare, il cambiamento è avvenuto quando io ero troppo occupato a sopravvivere. Tutto mi è passato sopra e attraverso. Le persone di adesso non sono mie simili. Non so come fare.
So che questa è una illusione futile. Gli umani sono sempre gli stessi, fragili, esibizionisti, banali, egoisti, egocentrici, narcisisti, illusi, parziali nei giudizi e nei ragionamenti, violenti, ottusi, generosi per mettersi in mostra. Sono poche le persone degne di nota. Così poche.
Sono poche le persone che vale la pena di frequentare, forse nessuna. Io non sono certo una di queste. Non riesco nemmeno a comportarmi con sincerità. Se parlassi dal centro del mio essere, ogni volta, se non tentassi più di proteggermi, forse qualcosa cambierebbe.
L’uomo è un mistero. È un grande peccato che si avvilisca.
Appassisco dentro. Gioia, dove sei finita?
Come sono finito così, qui e ora? Mi sono perso. Forse lo sono sempre stato. Adesso ne ho semplicemente la consapevolezza.
Mi sono perso. Perso. Perso. Perso.
C’è una strada? Qualcuno me la può indicare?
No, meglio di no.
È pieno di gente che non vede l’ora di indicarti la strada: ne ho conosciute migliaia. Sanno quello che va bene per te. Sanno quello che tu dovresti fare, quello che dovresti dire, pensare, sperare, amare.
Certo che qualcuno ti può indicare la strada: gli umani non fanno altro, gli uni con gli altri, per tutti i giorni della propria vita.
Forse è proprio questo il problema. La società non si potrebbe reggere nemmeno per un secondo se tutti ammettessero candidamente “ragazzi, non sappiamo quello che facciamo, né dove stiamo andando, possiamo solo intuire quello che sta succedendo”.
È impossibile, crollerebbe tutto.
Se si comprendesse che siamo ciechi che guidano sordi e muti, andrebbe tutto a rotoli, più di quanto stia già succedendo.
E invece succede il contrario: il mondo si riempie di gente che crede di sapere, che ti indica la strada. È naturale che siano seguiti. È altrettanto naturale che i seguaci presto o tardi rimangano delusi.
È quello che è successo a me, dopotutto. Ho cercato di seguire, per sentendo che nessuno ha la risposta. Ho sperato, ho pregato, ho pianto, mi sono disperato, perché ero un seguace poco diligente. Alla fine ho dovuto ammettere che non c’era nessuno da seguire.
Nemmeno bisogna cadere nell’errore opposto: seguo me stesso.
Seguire se stessi, non significa nulla. Non c’è un “se stesso” da seguire.
Noi ci costruiamo man mano che la vita va avanti, a prezzo di sforzi e disillusioni.
Quello che ne risulta, spesso è patetico e amorfo, il risultato dello spezzarsi delle illusioni e del ricostituirsi delle stesse, più forti.
Allora crediamo tutto, facciamo tutto, ci muoviamo come burattini, ci facciamo percorrere dalla corrente elettrica dell’iperattività, finendo solo per sembrare animali morti che una scarica fa sobbalzare. Il movimento esasperato non è segno di vita.
Sono molto più vitali i gorilla che stanno ore accucciati nella giungla, sonnecchianti, come bonzi, senza muoversi.
Solo se non cediamo alla disperazione, o meglio, solo se ci lasciamo attraversare da essa senza crederla definitiva, come qualunque altra cosa, possiamo passarci in mezzo, andare oltre, verso una vita più piena (qualunque cosa sia). Allora, apparirà nel suo splendore, quello che abbiamo costruito, il tempio che si staglia nella nebbia che si dirada. E ci accorgeremo che siamo sempre stati dove volevamo andare.
Siamo viandanti perduti, tutti. Pellegrini in una terra sconosciuta.
 
MUT
Fliegt der Schnee mir ins Gesicht,
schüttl' ich ihn herunter.
Wenn mein Herz im Busen spricht,
sing' ich hell und munter.

Höre nicht, was es mir sagt,
habe keine Ohren;
fühle nicht, was es mir klagt,
klagen ist für Toren.
Lustig in die Welt hinein
gegen Wind und Wetter!
Will kein Gott auf Erden sein,
sind wir selber Götter!
 
CORAGGIO
Se la neve mi vola in faccia,
la scuoto via.
Se il cuore mi parla nel petto,
canto con voce chiara e allegra.

Non ascolto quel che mi dice,
non sento;
non avverto i suoi lamenti,
lamentarsi è da stolti.
Su con gioia per il mondo,
contro vento e intemperie!
Se non c'è nessun Dio sulla terra,
noi stessi siamo dei!
 
Eppure … rimane sempre lo stesso dubbio: e se da qualche parte ci fosse la risposta?
Anche se si sa che non c’è, il dubbio rimane e gioca e ride nella nostra vita e ci fa andare avanti ancora e sempre nei giorni di sole e pioggia.
Lamentarsi è da stolti.  

martedì 1 luglio 2014

Frammenti apocrifi su carta igienica II



Ho vissuto sia il “sentimento oceanico” di cui parla Rolland a Freud, sia il suo contrario, il senso di totale isolamento.
Penso dunque di potere affermare che trattasi solo di stati, o meglio, possibilità della mente.
La realtà rimane inconoscibile. Questo non significa che non ci sia una “realtà”.

 
Nel gennaio 1996 assistevo al tramonto del sole sull’Oceano Pacifico. Ero su una terrazza naturale delle Pacific Palisades, a Los Angeles. La quiete perfetta del momento, la bellezza tersa della giornata, lo scivolare del cielo in tonalità sempre più scure, ma non cupe, morbide, mi faceva sentire amico l’oceano. L’immensa distesa d’acqua, appena increspata fino all’orizzonte, la lenta discesa del sole, gli alberi intorno a me, il muschio erboso che arrivava fino all’orlo del precipizio che dava sulla statale, trecento metri più in basso, la striscia di asfalto a sei corsie che costeggiava il mare, l’odore di resina leggermente bruciata che riempiva l’atmosfera: tutto era il culmine di un istante perfetto.
Il mio amico Oceano, pensavo. Esattamente dall’altra parte dell’orizzonte, a diecimila chilometri, il Giappone mi chiamava: pareva perfettamente raggiungibile, toccato com’era dalla luce che scendeva giù. Il mondo girava piano, con me sopra. Era una cosa sola, era vibrante e assolutamente vivo: io ero tutt’uno con esso, in perfetta armonia e pace.
All’epoca era follemente e totalmente innamorato di una donna che mi faceva dannare l’anima. E tuttavia questo amore così difficile, così discutibile, mi ha permesso di attraversare tutti gli stati dell’illusione umana. Ho volato attraverso l’inferno aggrappato a un angelo. Sono stato totalmente felice, nella più strana infelicità.
Non mi sono mai sentito così vivo come allora. Ogni cosa intorno a me era una benedizione.
Ero in uno stato di esaltazione mistica, non saprei definirlo diversamente.
Avevo raggiunto il femminile, l’avevo finalmente “penetrato” ed esso mi stava ancora fatalmente sfuggendo.
Noi siamo nel grembo del cosmo. Nasciamo e poi moriamo senza mai uscirne.
Che significa questo?
Che noi “siamo” il cosmo. E tuttavia ne siamo profondamente estranei e che entrambe queste cose sono vere.
Non è un caso che noi possiamo sentirci vuoti e meccanici come automi oppure pieni di vita e totalmente confluenti con quello che ci circonda. Il nostro spirito può avere evidenza di entrambe “queste “modalità”  e percepirle come reali.
Può un cieco dalla nascita provare il “sentimento oceanico”? Sarebbe importante rispondere a questa domanda.

 
La polarità Achab – Bartleby. Ossessione totale e distacco definitivo.
 
Relazione strettissima tra i propri pii o empi desideri, e la concezione filosofica o scientifica o politica che si abbraccia. Nessuno è innocente, né obiettivo. Siamo mercenari delle idee.
Riteniamo “vera” una cosa perché ci risuona dentro: ma di vero non c’è altro che i nostri desideri, o le nostre paure.
 
Ernest Becker. Eroismo di fronte alla morte. Bataille. Erotismo di fronte alla morte.
Femminile. Coazione nel donare la vita. Come una droga.
Maschile. Irruzione del “perché”.
Femminile. Stabilita nel qui e ora. Totalmente intrisa di qui e ora. Candidata perfetta a diventare consumatore totale.
Maschile. Attrazione per la morte.
Femminile. Morte nella vita.
Non c’è vera fusione tra il maschile e il femminile. È solo una mitologia. Il maschile è, presumibilmente, un’eccezione. Tramite l’eccezione del maschile, la vita può riprodursi.
Tuttavia la base della vita diploide è femminile.
 
Dottrina del doppio effetto. È accettabile fare un’azione che abbia come conseguenza due effetti, uno positivo e uno negativo, purché: 1) l’atto deve essere buono di per sé eticamente o almeno indifferente. 2) l’effetto buono deve essere quello inteso dall’agente e l’effetto cattivo previsto ma tollerato. 3) l’effetto cattivo non deve essere il mezzo per ottenere quello buono. 4) l’effetto buono deve essere maggiore di quello cattivo.
In sintesi questa è stata la storia del XX secolo. Hanno calcolato male tutti gli effetti. Ancora un po' e c'eravamo.
 
Basta appiccare l’etichetta “nuovo” a qualunque cosa e si ottiene un nuovo paradigma.
Nuova merda. Puzza e fa schifo, ma è “nuova”. Ci si approccia con una nuova ermeneutica.
Con tutto questo non si può intendere che il “vecchio” invece sia una garanzia, ecco.
Vecchio. Nuovo. Si tenta sempre e solo di aprire quella porta, che rimane invariabilmente chiusa. Sono masturbazioni di menti perlopiù maschili, che cercano di deflorare la realtà con i loro inadeguati cazzetti concettuali.
Siamo ancora tutti inguaribilmente romantici o antiromantici e da lì non usciremo fino alla fine del mondo.
 
La stupida pretesa che in qualsiasi cazzo di libro ci sia una risposta.  Non c’è. Non ci sono risposte nei libri, né nei sistemi filosofici, né ci sono risposte nelle parole di chiunque. Nemmeno nell’arte e nella scienza ci sono risposte, casomai solo domande. Il resto sono solo belle speranze, pretese, aspirazioni: di queste inezie non manca nulla.
 
Il nichilismo è una comoda certezza: è il conforto di accademici che nichilisticamente percepiscono stipendi e si fanno ammirare da studentesse con belle gambe abbronzate e nude. Non ha senso proclamarsi nichilisti, non più di quanto abbia senso essere cattolici osservanti. Ha molto senso invece cercare di trombare studentesse con belle gambe abbronzate e nude. Senza farsi beccare dalla moglie. Indagare questo aspetto dell'eterna illusione maschile.
 
 
L’oscena soddisfazione della teoria, la vuota escrezione della pratica.
 
La nostra era è quella della morte di Dio. Presto o tardi avverrà la Morte del Capitale.
Senza Dio né Capitale, l'uomo cosa farà?