Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

mercoledì 23 marzo 2016

Promemoria


Pierre Delvaux La Venere dormiente


Domenica ho compiuto 54 anni. Una età ragguardevole, un tempo. Mio nonno paterno non ci è arrivato, è morto due mesi prima di compierli. Mia madre non ci è arrivata. Si è fermata molto prima. Proust è morto a 51 anni, Cartesio a 53, DFW a 46, Glenn Gould a 50, Gustav Mahler poco prima dei 51, PKD a 53, Moliere a 51, ecc. ecc.

Esempi illustri, come pure esempi qualunque, vanno e vengono in una specie di staffetta senza fine.

Si va avanti a superare quelli che se ne sono andati e poi toccherà a noi e l’universo continuerà nella sua opera di di disgregazione. Ogni anno un pezzo si stacca, una molecola decade, il sogno luminoso dell’eterno amore e eterna giovinezza sbiadisce ancora un po’ di più, la trama ormai scolorita fino alla semi trasparenza. Ci si vede la realtà attraverso. Ed è la realtà ad avere sempre più importanza.

Comincio a sentire l’onnipresenza della morte e nello stesso tempo la vita diviene sempre più evidente, potente, vibrante. Meno spazio alle finzioni e più alla cosa – in – sé.

Galleggiamo nel vuoto, come bolle distanti, silenziosi e stranamente sempre più felici, nonostante tutto, di quella felicità fatta di barlumi di sole anche dentro il buio.

Avere sempre più passato dietro di noi, anche se irrecuperabile, anche se non ci si pensa mai, è una forza. Si cammina, come diceva Proust, sui trampoli dei propri anni e più ce ne sono, più lontano lo sguardo si porta. Il nero orizzonte si fa vicino, ma intorno c’è anche la sterminata evidenza della vita, la grandiosa epifania del tutto. È uno spettacolo commovente e sublime. È la gioia della stella che splende bruciando se stessa.

giovedì 17 marzo 2016

Il lato stanco del web


Vladimir Kush

Il blog è morto, dicono. I blog sono obsoleti e molti rimangono inattivi per mesi, per noia, mancanza di tempo, disinteresse, troppa lentezza nel gestirli.
C’è sicuramente qualcosa di vero in queste affermazioni, che peraltro non sono nuove.
Forse, semplicemente il blog rappresenta il lato stanco del web.
E la stanchezza, come sottolinea il filosofo tedesco – coreano Byung Chul – Han in un gustoso libriccino intitolato La società della stanchezza, è una reazione alla “società della prestazione” nella quale viviamo.
Superata la società del controllo, superato Foucault insieme a tutti gli altri ammennicoli francesi, ci ritroviamo precipitati dentro una “società della prestazione” che ci costringe a essere imprenditori di noi stessi, anche solo per lavorare in un call center o capire, in mezzo a valanghe di offerte, dove andare a posare il culo nella prossima vacanzina low cost. I disturbi e i disagi di cui soffriamo non sono più legati, secondo BCH, alla reazione contro la negatività causata dall’alterità, ma per eccesso di positività.
In altre parole, fino al secolo scorso l’alterità caratterizzava il nostro modo di porci nel mondo: noi, loro, competizione, identità, ecc. ecc. Oggi l’alterità è stata sostituita dalla differenza, dall’accoglienza, dall’ibridazione totale, dalla dittatura dell’Eguale.
Questo porta a un eccesso della positività. Da qui deriva il senso di rigetto, di rifiuto, che coglie molti individui sulla strada della vita.
Le nostre vite sono immerse nell’etica della sovrapproduzione. Tutto diventa possibile e tutto quindi deve poter essere fatto. Nella giungla delle possibilità sterminate (illusorie, aggiungo io) l’individuo si smarrisce, si deprime. Non sa cosa fare, e istintivamente, come autodifesa, non ha più voglia di fare niente.
Questo è il paradosso e il dramma delle nostre società opulente, informatiche, mediatiche, spettacolari: l’individuo soccombe di fronte all’imperativo morale di appartenere a se stesso. La società della positività non ha nulla da invidiare a livello di violenza sistemica, nei confronti dell’obsoleta società del controllo. L’apparente libertà (ma in realtà l’abbandono terribile) schianta l’individuo, lo lascia irrisolto, depresso, demotivato, di fronte a banconi sterminati di offerte allettanti.
In questo modo, sempre secondo BCH, libertà e costrizione coincidono all’interno dell’individuo stesso. Si arriva al paradosso che nell’attuale società della prestazione è l’individuo stesso a divenire nello stesso tempo sfruttatore e sfruttato.
Questo accade, aggiungo io, anche nei casi in cui si vive ai margini di questa società della prestazione. Siamo tutti (in un certo senso) uguali, desideriamo le stesse cose, subiamo le stesse mancanze, da qualunque parte proveniamo, Italia, Siria, Giappone, Togo, Marocco, Messico … le differenze sono ormai solo quantitative (leggi: guadagno) più che qualitative. C’è poi la questione della diversa percezione della felicità da parte di popolazioni diverse, ma questo discorso porterebbe troppo lontano.
Anche le reazioni di avversione nei confronti dei massicci flussi migratori non sono, se si bada bene, dovute all’intrusione dell’Altro cattivo e Straniero (queste maiuscole levinasiane ormai sono stucchevoli) nelle nostre vite beate, ma al terrore di dovere ulteriormente “competere” per le stesse cose. Le migrazioni sono ondate “positive” alle quali non possiamo ormai opporre questioni reali di “identità”, “nazionalità”, ecc. ecc.
La soluzione a questa “stanchezza”? Una vita più contemplativa, dice BCH. Bisogna lasciare spazio alla stanchezza, non vederla come un impedimento alla Vita Activa di cui parlava Hanna Arendt. La vita attiva è spesso una trappola. E il web, aggiungo io, è disseminato di queste trappole. Da qui ne consegue che la stanchezza epocale che stanno attraversando i blog, lungi dall’essere un problema, è forse una reazione “sana” al ciclo demente di sovrapproduzione di stronzate che ci circonda.
L’eccesso di individualizzazione ha portato a tutti i problemi che ci sono adesso.
L’individuo – massa (tutti diversi, ma tutti uguali) DEVE realizzare i propri desideri, a scapito della specie e della collettività.
Le ideologie novecentesche partivano invece dall’assunto contrario: l’individuo deve sacrificarsi in nome dell’idea, dell’utopia, della razza, della collettività, della specie.
I risultati li conosciamo. Era la “società del controllo”.
L’ideologia del XXI secolo (tutto è possibile per tutti e chi non riesce è perché non vuole veramente) ha portato alla sovrappopolazione, al riscaldamento globale, a una forma inedita di alienazione al contrario.
Senza contare che la quantità di morti ammazzati, pur se non in maniera così eclatante come nel XX secolo, non cessa di diminuire.
La stanchezza, in quest’epoca di pazzi e idioti, potrebbe dare luogo a una nuova etica.
Non è detto che succeda, beninteso.
BCH, usa un’espressione molto significativa delle conseguenze della società della prestazione: “L’eccessivo aumento delle prestazioni porta all’infarto dell’anima.”
La stanchezza dei blogger, unita a una consapevolezza sempre maggiore, costituisce uno sguardo commovente, a volte “epico” su questa nostra epoca delirante.
 


martedì 15 marzo 2016

Confutare il confutabile


Jack Vettriano The Road to Nowhere


Vogliamo mettere il sottile piacere di confutare il confutabile? Di rinnegare le antiche credenze? Di tradire la fiducia del gregge?

È incomparabile, ripaga la solitudine che ne hai in cambio. Ho mandato all’aria i buddisti, i comunisti, gli anarchici, i chakra, le cazzate di ogni tipo. Sono libero.

Certo, non ho la pretesa di avere ragione su niente. Nemmeno credo che non ci sia un grano o anche più di verità in tutto ciò che ho confutato: semplicemente la verità contenuta in qualsivoglia ideologia, non è sufficiente per nutrirmi.

Certo, è bello credere di potere cambiare la società prima che il sole esploda: ma il modo in cui si attua il cambiamento fa tutta la differenza.

Anzitutto, ho una antipatia istintiva per chiunque affetti una pretesa superiorità morale.

Io, peccatore e uomo miserabile, non vedo intorno a me tutte queste persone irreprensibili.

La civiltà del libero mercato rende tutti inevitabilmente un po’ ipocriti.

L’ipocrisia nasce dal cercare di nascondere che si è in vendita al miglior offerente, 24/24.

E proprio io, che sono un miserabile peccatore, sono meno in vendita di tutti, da sempre.

Proprio io, che non ho certezze, non sono in grado di averne, non ho mai voluto veramente vendermi. Non ce l’avrei fatta. Non ce l’ho fatta: non per superiorità morale, ma per semplice inettitudine. Sono salvo per incapacità congenita.

C’è sempre meno da parlare di questo mondo: è ormai una noia indescrivibile, una noia complessa, ma sempre noia. Non c’è verità, non ci sono fatti, non c’è giusto, sbagliato, non ci sono uomini e donne, ma apparati di consumo. Di cosa raccontare? Automi spermatici.

L’uomo è un prodotto dei tempi, è una nozione che non è mai stata tanto vera come in quest’epoca. E per forza: non siamo mai lasciati a noi stessi, mai, per un solo istante, da New York a Rejkiavik, da Ouagadougo a Rio, da Monaco a Cinisello Balsamo. Siamo sempre in compagna di Tv, tablet, PC, Twitter, WhatsApp, Facebook, sempre connessi con qualcosa, sempre a fotografare qualcosa, sempre a guardare, guardare, guardare, guardare...

Senza vedere.

Non ci lasciano soli un istante. Non ci lasciamo soli un istante. Da qui deriva la catastrofe collettiva e permanente.

 
Eternamente condannato a essere tra quelli che vengono dopo, quando tutti i giganti se ne sono andati, e camminare tra quelle immani suppellettili del pensiero, dell’arte, dell’amore passato. Eternamente condannato a inginocchiarmi di fronte a esse, eternamente condannato a cercare un orizzonte libero dalle loro ombre, al quale affacciarmi.

Distaccato da me stesso, dagli altri, dalla vita, testimone di una biologia in declino. E inspiegabilmente, a volte, felice.

 
La tecnica. Come se davvero contasse qualcosa. Non servono tecnologia, ideologia, progresso. Serve un cielo nuovo in cui riflettersi. Non ha importanza tutto questo balletto su coppie gay, adozioni, uteri in affitto, migrazioni, capitalismo. Serve solo un po’ di silenzio. Il brusio ininterrotto di questa umanità spaventosa, arriva fino a un certo punto poi svanisce. Rimane lo spazio, immenso, nero. Dove questi idioti non possono arrivare.

La specie umana si modifica. Perde in intelligenza e guadagna in capacità di utilizzare congegni di cui non sa l’origine e il funzionamento. È un idiota a sette miliardi di teste.

Le teste aumentano sempre di più. È un immenso organismo che divora tutto in nome di una visione sfocata, una fame atavica di vita che non conosce ostacoli. Edifichiamo civiltà su ipotesi azzardate e queste durano millenni. Siamo la trappola perfetta di Dio.