Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

giovedì 27 settembre 2018

Deserto d'acqua di J. G. Ballard

Diverso tempo fa mi era venuta la balzana idea di "recensire" i libri più importanti e formativi della mia vita: non necessariamente i più belli, ma quelli che avevano dato l'impronta al mio gusto e al mio sentire letterario, i libri che mi hanno fatto risuonare qualcosa dentro, in un'eco che dopo svariati decenni ancora non si è spenta. I libri di una vita, insomma. 
Svariati impegni, problemi e circostanze imprevedibili mi hanno distolto da questo intento. Ma siccome sono uno che cerca sempre di mantenere le promesse, ecco, per la gioia dei miei 1/2 lettori, il terzo della serie (dopo Orfeo in paradiso e La montagna incantata). Grazie per l'attenzione.

All’incirca nell’estate 1977, mi trovai tra le mani questo Urania già vecchio di qualche anno e un po’ stropicciato. È stato ripubblicato di recente con il titolo Il mondo sommerso, più fedele all’originale The drowned world. Ero nella casa che avevamo all’epoca in una valle bergamasca poco turistica. Circondato da boschi e montagne, sulla terrazza, nel fresco dell’estate, lessi questa epopea del calore sfibrante, questa fine del mondo differita, questo salto all’indietro temporale verso le giungle del nostro passato filogenetico.
Allora mi attrasse l’aspetto catastrofista della storia, con il mondo prigioniero di un clima triassico tropicale, la grande metropoli di Londra trasformata in una laguna in cui elicotteri dell’ONU vanno e vengono tra i palazzi in rovina in cui vivono iguane giganti che il rumore delle pale fa spaventare e tuffare in acqua. Nell’immensa città fantasma lagunare emergono ogni tanto radure metafisiche alla De Chirico fatte di piazze e colonnati, dove squarci improvvisi in mezzo alle liane fanno balenare il riflesso intollerabile del sole sull’acqua, che rende tutto nero, invisibile.
Il retro di copertina recitava: “zanzare grosse come libellule entrano dalle finestre del Ritz di Londra” o qualcosa del genere.
Personaggi dal perfetto aplomb inglese che potevano essere essere tratti da qualche serie TV tipo Avengers, con Patrick MacGoohan e Diana Rigg, passeggiavano tra le rovine di un mondo perduto e sfinito, pronti a tutto. Per la prima volta lessi frasi tipo “le giungle autofaghe di Max Ernst” che mi spinsero a vedere chi mai fosse questo Max Ernst e che mi appassionarono da allora alla pittura surrealista. E in effetti tutto il romanzo sembra una grande carrellata di quadri surrealisti.
Ballard è riuscito a creare un connubio perfetto tra un realismo impeccabile (nella descrizione degli oggetti, delle case, del fango, delle iguane, del sudore che bagna i corpi senza speranza di sollievo) e il surrealismo della giungla che viene sempre più a coincidere con la giungla interiore. Un lento suicidio per regressione amniotica è l’ossessione di tutto il romanzo. Con quel Urania tra le mani qualcosa in me comprese che mi trovavo davanti a una grande esperienza letteraria. Il mio cervello adolescente fu letteralmente stimolato a produrre visioni di lagune formatesi tra grattacieli altissimi, di piazze misteriosamente salvate dalla marea del fango nelle quali appaiono statue bianche, marmoree, a testimonianza che il passato dell’umanità non è altro che sogno.
Soprattutto da questo romanzo imparai la luce.
In pochi romanzi come in questo la luce domina tutto.
A distanza di più di quarant’anni, se chiudo gli occhi rivedo ancora quella luce abbacinante che si riflette su una piazza bianca circondata da colonnati, con le ombre nettissime e tutto intorno la giungla immensa, sterminata, dalla quale emergono palazzi ricoperti di felci gigantesche. La luce si riflette su pavimenti di marmo bianco appena sporcati dal fango di impronte umane dirette verso l’ignoto, in qualche punto della giungla circostante. In questa luce il calore è semplicemente inconcepibile. Eppure anche qui, in questo inferno di luce, l’uomo pensa e sogna.
I sogni sono infatti la chiave d’apertura della storia.
Una squadra di ricercatori scienziati guidata da militari dell’ONU sta esplorando il sistema di enormi lagune che ricopre la città che un tempo fu Londra. Siamo alla fine del ventunesimo secolo o giù di lì e una serie di alterazioni nel sole hanno fatto aumentare la temperatura globale. Le calotte polari si sono sciolte e il livello dei mari si è alzato di decine di metri trascinando con sé innumerevoli quantità di detriti e fango che hanno seppellito tutte le città costiere e su cui è cresciuta una giungla immensa, grande come l’intero pianeta. Le temperature all’equatore raggiungono ormai gli ottanta gradi e la vita umana è possibile solo entro il circolo polare artico con gli abitanti che divengono sempre più sterili e meno numerosi. Il genere umano è votato all’estinzione: “l’albero genealogico dell’umanità si stava sistematicamente potando  da solo, risalendo alle radici e sarebbe giunto un momento in cui un secondo Adamo e una seconda Eva si sarebbero trovati soli in un nuovo Eden”.
Le temperature sono in costante aumento. È come se la natura avesse deciso di espellere l’uomo da sé, per fare proliferare antiche forme di vita, come i rettili e gli insetti.
In questo nuovo Triassico i militari e gli scienziati dell’ONU, esplorano ciò che rimane delle città sommerse dell’Europa “come tante Venezie riluttanti ad accettare l’inevitabile matrimonio con il mare”.
Il biologo Robert Kerans, membro della spedizione, è nato nel circolo polare artico, non ha mai conosciuto l’antica civiltà umana, per lui i ruderi e le rovine dei grattacieli non rappresentano nulla più di un curioso sfondo lagunare. Da mesi alberga all’ultimo piano del Ritz, ormai al pelo dell’acqua e flirta con Beatrice Dahl, una strana figura di donna che vive in un mega attico con vista su laguna e rovine, che passa il tempo prendendo il sole in terrazzo, nelle primissime ore del mattino, quando è ancora possibile resistere. Sia Kerans che Beatrice, hanno trovato la loro dimensione esistenziale nelle lagune e quando il colonello Riggs, capo della spedizione, annuncia che di lì a pochi giorni se ne dovranno andare, accusano il colpo. Alcuni degli uomini della spedizione hanno cominciato a fare strani sogni, dai quali si risvegliano alterati. Insieme allo scienziato Bodkin, Kerans indaga sugli strani sogni dell’equipaggio. Sembra che questi sogni riguardino un sole enorme, che pulsa e che sovrasta una giungla immensa, un sole che lancia un richiamo e il pulsare della luce si sovrappone alle pulsazioni cardiache. Il sogno è un richiamo fortissimo, che rende durante il giorno catatonici gli uomini, in particolare il tenente Hardman.
Quest’ultimo, alla notizia che la spedizione sta per ripartire per il circolo polare, ruba un barchino e scompare nella giungla. Inutilmente Riggs e gli altri cercano di riprenderlo. Le sue tracce si perdono verso sud, verso il grande sole che ha visto nei sogni.
Con la scomparsa di Hardman, anche Kerans comincia ad avere il sogno vivido del richiamo del sole. Bodkin, anche lui uno dei “sognatori” dà del fenomeno una spiegazione prettamente junghiana. L’inconscio si sta adattando alla regressione che è in atto nella natura, mettendo l’individuo in uno stato di profondo desiderio di annullamento in questo passato primordiale. Il grande sole del Triassico richiama giù giù dentro l’oceano dal quale siamo nati in un tempo immemorabile, in vista di una nuova rinascita o una completa dissoluzione.
Tutto il romanzo è una lunga, lenta discesa dei protagonisti verso la disgregazione, trattenuti a stento dai pochi che ancora sono attaccati alla propria umanità. Riggs è uno di questi, un militare tutto di un pezzo che per senso del dovere è inattaccabile ai sogni. Strangman, un pirata che con la sua truppa di mercenari  una mattina invade la tranquilla laguna dove Kerans, Beatrice e Bodkin si sono ritirati, abbandonando Riggs e gli altri per seguire il proprio destino regressivo, è un altro.
Feroce, egomaniaco, vitalista, Strangman detesta la giungla ed è attratto dalle vestigia del passato dell’uomo. È un collezionista, un bandito. È un colonizzatore e un pirata, un amante della cultura e un assassino. La sua crudeltà si manifesta nel massacro dei grandi alligatori che infestano la laguna e nel mondo in cui schiavizza i neri che fanno parte dell’equipaggio del suo battello a ruote.
Ma Strangman fa di più. Svuota una delle lagune, riporta alla superficie piazze e palazzi corrosi e pieni di alche che perdono così agli occhi di Kerans e Beatrice il loro splendore per rivelarsi marce e fetide come la morte. È la decisione finale. Non possono tollerare la vista del passato umano, ormai perduto. Vogliono andare avanti, verso sud, verso il sole pulsante.
Da questo momento Strangman attacca Kerans, trascinandolo in uno strano festino orgiastico con i suoi mercenari neri. Kerans viene legato a un baldacchino e portato in giro come il dio Nettuno sconfitto, per le strade asciutte e fangose poi lasciato legato nel baldacchino rovesciato su un fianco finché non sorge il sole. Nel calore terribile del mezzogiorno, Kerans riesce in qualche modo a liberarsi e a raggiungere l’ombra. Bodkin riemerge dalle strade e lo si rivede in cima alla diga con dell’esplosivo. L’acqua riprende possesso della città e la laguna fa il suo ritorno. Riggs ricompare all’orizzonte per cercare di recuperare i recalcitranti nuovi Adami e Eve, ma Kerans spara e fugge in mezzo alla giungla. La sua strada è verso sud. Cominciano le piogge e lui vaga per la foresta. Incontra Hardman nelle rovine di una vecchia chiesa. L’ombra di quello che un tempo fu il tenente Hardman, figura spettrale che non ha niente di più umano, biascica ordini insensati e ha quasi completamente perso la vista. Passano diverse notti insieme al riparo ma un mattino Kerans si accorge che Hardman è scomparso di nuovo. Incide con la canna della rivoltella un messaggio sul muro “certo che nessuno l’avrebbe mai letto. Ventisettesimo giorno mi sono riposato e mi dirigo verso sud. Tutto va per il meglio. Kerans.”
È la fine.
“Così abbandonò la laguna e si addentrò nuovamente nella giungla. Nel giro di qualche giorno si perse completamente, seguendo le lagune che si susseguivano verso sud nella pioggia e nel calore sempre più intensi, attaccato dagli alligatori e dai pipistrelli giganti, un secondo Adamo alla ricerca dei paradisi dimenticati del sole rinato.”
L’incontro con la potenza della natura indifferente che inghiotte l’io civile dell’uomo che tenta di resistere, di darsi un ordine, trova il suo senso proprio nel lasciarsi andare; all’opposto c’è l’ordine (Riggs) o il disordine consentito (Strangman). Tutto questo è  così umano, così lontano dal regno oscuro della morte e dell’istinto, è la cosiddetta normalità, il sano realismo. Anche Strangman, il criminale, ha una valenza positiva in mezzo a tutto questo richiamo mortifero. Mai come in questo romanzo il conflitto tra Eros e Thanatos è assurto a pianeta intero. Il cambiamento climatico è l’innesco per un’esplosione dell’inconscio che travolge tutto. Non a caso il surrealismo è usato da Ballard per cercare di rappresentare questo Triassico del futuro che dilaga tra il Ritz e Leicester Square, tra condizionatori d’aria e pompe idrovore, idrovolanti, impianti ad alta fedeltà, elicotteri, tutta la confortante tecnologia così reale, e le giungle autofaghe di Max Ernst o le figure spettrali di Delvaux.
Ballard è uno scrittore pittorico, moderno in senso novecentesco. Per lui Freud è un faro nel buio, cui si aggiunge Jung e il fascino degli archetipi. In lui il borghese medio britannico, non ancora solo consumatore, viene sconvolto da quello che emerge da se stesso, dal confronto del proprio io civile con la parte di sé che vuole dissolversi nel mondo. Tutti i messaggi dell’inconscio hanno un unico scopo, un’unica direzione: la dissoluzione del sé, la nascita di qualcosa di nuovo, di inconcepibile, dalle rovine della morte.
E non è forse questo quello che fa la grande letteratura? Ci fa viaggiare in mezzo alle rovine, al gran sole triassico, o sotto il gelo siberiano, o tra le stelle, o tra i relitti di un antico amore, sempre a fianco della morte, sempre in cerca della vera vita.




martedì 25 settembre 2018

Microdefinizioni

Filosofia e religione: due suppellettili del ridicolo
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Assoluto: aspirazione per egomaniaci romantici
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Nadia Toffa: la dimostrazione che avere il cancro non rende più intelligenti
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Crescita perpetua: ideale degli ubriachi
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Eroismo: convivere con le emorroidi, le palpitazioni e le vergogne in tutto il proprio splendore
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Economia: sbadiglio di tuono
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Istante: ultima illusionè di una creatura fatta di tempo
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Sesso: cavalcata tra malinconie

lunedì 24 settembre 2018

C'è un canto dentro di me


C'è un canto dentro di me che non potrà mai uscire dalla mia bocca - che la mia mano non saprà scrivere sopra nessun pezzo di carta.
C'è un canto dentro di me che devo ascoltare io solo - che devo soffrire e sopportare soltanto io.
C'è un canto chiuso nelle mie vene come gli adagi celestiali nelle canne argentate degli organi - c'è un canto che non fiorirà come la radice del giaggiolo sepolta sotto la frana.
C'è un canto dentro di me che che resterà sempre dentro di me.
Se questo canto uscisse dal mio cuore romperebbe il mio cuore.
Se questo canto fosse scritto dalla mia mano nessun'altra parola più potrebbe scrivere la mia mano.
Questo canto non sarà detto che nell'ultima ora della mia vita; questo canto sarà il principio d'una felice agonia.
C'è un canto dentro di me che non può uscire fuori di me perché non furono ancor create le parole necessarie.
Un canto senza misura e senza tempo; senza ritmo e senza leggi.
Un canto che non può adagiarsi in nessuna forma e che spezzerebbe qualunque linguaggio.
Un canto che nessuno potrebbe ascoltare senza che la sua anima fosse sgomenta dalla sorpresa e ricolorata da un altro sole.
Un canto più respirato che detto, più presentito che manifestato: suono di luci, raggio d'accordi.
Un canto che non desidera nessuna musica perché sarebbe più melodioso d'ogni strumento conosciuto.
Dentro il mio cuore così grande che a giorni contiene l'universo questo canto è così grande che ci sta a gran fatica. Nei minuti più angosciosi della vita questo canto vorrebbe traboccare dal mio cuore troppo stretto come il pianto dagli occhi di chi piange se stesso. Ma lo respingo e lo ringhiotto perché insieme a lui anche il sangue del mio cuore traboccherebbe con la stessa furia voluttuosa. Lo rinchiudo in me stesso perché non voglio ancora morire.
Son la vittima docile di questo canto divino e omicida. Debbo serrare il cuore come la porta di una carcere e soffocare i suoi battiti soprumani come tanti rimorsi. Ed essere, con tutta la mia tenerezza, il feroce a cui non s' accostano i deboli.
Perché il mio canto sarebbe uno spaventoso canto d'amore e quest'amore brucerebbe tutto quello che tocca.
L'amore che riscalda soltanto è appena tiepido ma il vero amore nel medesimo soffio bacia e distrugge.
Quest' amore sarebbe così splendente d'infocata bramosia che in quel giorno la terra illuminerebbe il sole e la mezzanotte sarebbe più ardente del più bruciato meriggio.
Ma io non canterò mai questo terribile canto che mi consuma senza che nessuno abbia compassione del mio tormento.
Non canterò questo canto meraviglioso che la mia paura rinnega e che fa tremare la mia debolezza.
Non canterò questo canto perché nessuno potrebbe sostenerne l'infinita, la straziante, la dolorosa dolcezza.

Giovanni Papini

sabato 22 settembre 2018

Considerazioni inattuali di un soma elettronico

In ogni caso la speranza è un tossico e va presa a piccole, piccole dosi.
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Kafka e David Foster Wallace. Il più recente è una reincarnazione da sit com postmoderna del più antico.
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Teatro naturale di Oklahoma. Biglietti esauriti, temo.
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Esegesi finissime mi prudono nella mente ma escono solo scoregge di topo sulla tastiera. Dovrei essere verosimilmente un autore maturo, sulla soglia della vecchiaia, totalmente padrone del mezzo espressivo. Beh, lo sono.  Ma la mia nuvola nera personale offusca il mio splendore.
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Morire prematuramente oggi è in fondo una vergogna. È segno di debolezza, mancanza di slancio vitale e un tradimento dello sforzo che la collettività tutta compie per reggere questo enorme Bengodi che è diventato il mondo. Ma come, oggi tutti campano fino a 90 anni e oltre e tu vai a crepare a 40 o 50 o 60 anni? Sei uno stronzo.
La sofferenza non deve mai essere sottolineata e la sconfitta, dove avviene, deve essere dimenticata. Chi soccombe deve essere velocemente sostituito.
Gli eroi lottano, con il sorriso, per dimostrare una volta di più quanto è bella la vita. Se perdi, perdi non solo una battaglia, ma il diritto di accesso essere parte del baraccone.
La solitudine del morente, del malato grave, è spaventosamente terribile oggi, al punto che il malato stesso deve fare lo sforzo di comportarsi come se ci credesse alla gioia di cotanta impresa. L'obbligo alla felicità senza patemi deve essere rispettato. È vero che ormai sono pochissimi quelli che si pongono un dubbio sull'esistente. All'ottimismo implacabile dello zeitgeist non si può sfuggire nemmeno con l'ultimo respiro.
Non che la vita sia brutta: la vita è come è.  Non è sul banco degli imputati, la vita: e il cancro, dopotutto fa parte di essa esattamente come ne fanno parte Bruno Vespa, le zanzare, l'Everest, la merda di cane sui marciapiedi.
Solo che non c'è niente di più disperante di un soffocante ottimismo.
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Se  avessi un'anima immortale, come dice il catechismo, sarebbe un soma elettronico che pulsa nell'aria.
Un'anima con le orecchie a sventola.

sabato 8 settembre 2018

L'ideale dei maiali

Poiché il concetto di felicità borghese è defunto, oggi l’esclusione dal godimento avviene per mancanza di desiderio e non per repressione sociale. Ricchi o poveri, l’accesso al godimento o ai suoi surrogati socialmente più accessibili, è pressoché universale.
Si dovrebbe, allora, incensare una rivoluzione della depressione.
Deprimersi perché non si riesce a godere è fuorviante. Il depresso conosce cose che l’entusiasta può solo fraintendere. 
Depressi di tutto il mondo unitevi! Fate saltare il baraccone per aria! Proclamate all’ecumene l’inanità di qualunque sforzo, il vuoto dietro ogni forma, la stupidità pervicace e ingombrante della pubblicità, dei governi, della democrazia, della dittatura, della vita e della morte.
Proclamate la nausea di fronte al Grande Banchetto.
Proclamate il vaffanculo assoluto. Non a questo o quel personaggio politico, ma al Consumo. No, grazie, no, grazie, no grazie, non ho bisogno, lasciatemi solo. Un esercito di Bartleby che faccia sparire nel cesso i vari Bezos, Jobs, Musk, i capitani d’industria e le vacche da monta.
Silenzio e pace e orizzonti grigi con Mastercard. Abolizione del fottuto turismo universale! Viaggi low cost solo verso i migliori cimiteri per abituarsi all’idea che tutti muoiono, marciscono e puzzano e smettono di essere produttivi.
Niente da fare, niente da vedere, solo fissare muri per ore fino a farli cadere. Questo è il grido di battaglia dei Bartleby di tutto il mondo. Avrei preferenza di no. Avrei preferenza di no. Avrei preferenza di no. Istagram? Avrei preferenza d no. X Factor e Masterchef? Avrei proprio preferenza di no. Facebook? Avrei preferenza di no. Youporn? Avrei preferenza di no.
Depressi di tutto il mondo, abbattete il vessillo della stupida felicità! La felicità del Consumo è l’ideale dei maiali e il maiale è il modello perfetto dell’umano del XXI secolo. Maiale dotato di smartphone. Il perfetto maiale è il turista, con al seguito prole e gadget vari. Tra i gadget e la prole non c’è differenza. I sentimenti e le emozioni si vendono a un tanto al chilo, per ogni emozione c’è una serie TV da comprare.
Il povero uomo coi baffoni già lo disse: che importa a noi della felicità? Può darsi che noi si sia più grandi di essa. La più grande felicità possibile è sbarazzarsi dell’idea di felicità. I vari Bezos e co. lo sanno, ma ve lo tengono nascosto. Per loro dovete solo abbonarvi a Amazon Prime.

mercoledì 5 settembre 2018

La soluzione di Nietzsche

Ritrovarsi significa ritrovare il proprio dolore, la propria gioia. Significa partire dalle nostre albe, dai nostri tramonti, da tutto ciò che ha lasciato un'impronta sulla cera molle del nostro essere, trasformando quello che c'è in noi. Significa ritrovare questa intoccabile solitudine, da cui tutto ha origine.
Conoscere se stessi. Diventare se stessi. Cioè?
Io mi sento avviluppato da questa cosa che è me stesso da sempre, come una qualità addirittura un po' vischiosa dell'aria. Mi soffoca, certe volte. Essere me stesso è un limite: io vorrei essere tutto. Ma il mio me stesso è poca cosa, pochi fatti di memoria che fanno di me, me. Se mi fosse tolta la memoria che cosa sarei? Un essere vivo e palpitante e confuso, tutto qui.
Essere se stessi nell'epoca dell'Alzheimer, strana pretesa.
Ma dunque la formuletta "conosci te stesso" vuol dire qualcosa di più che l'impossessarsi delle proprie memorie e idiosincrasie per farne una specie di monumento a se stessi.
Che significa, dunque? Essere autentici, non portare maschere. Bene, ma già scrivere significa incarnare un ruolo, quello del diarista, che è quanto di più inautentico si possa pensare. Forse la riflessione stessa porta all'inautenticita', è sovrapporre a quello che c'è una pellicola stampata a uso e consumo di chi legge.
Com'è un essere umano autentico, qualcuno che è diventato se stesso?
Si diVenta se stessi man mano che si riduce l'alienazione ai minimi termini possibili, forse.
Dire ad esempio che Buddha è un essere realizzato significa che Buddha non è più un individuo centrato sull'ego, ma sul Se'. Questa bella frase a effetto vuol dire che il Buddha ha compreso le connessioni tra la sua individualità psicofisica e l'universo circostante e le ha trovate indissolubili.
Ha superato il dolore della separazione e si è scoperto tutt'uno con la baracca.
La fusione è avvenuta. Così si racconta.
È la felicità di non temere ppiù la morte.
Buddha è dunque il superuomo di cui balbettava Nietzsche? No, perché Nietzsche aveva delle idee imprecise sul buddhismo: per lui era una religione materna, di rinuncia alla vita e non di reale superamento del nichilismo.
Nietzsche aveva avuto nel buddhismo per così dire la.soluzione sotto gli occhi e non l'aveva colta