Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

venerdì 26 agosto 2011

Torino, 26 agosto 1950



Io sono sempre stato attratto, direi affascinato, dal concetto di destino. Mi piace indagare il destino degli individui, come si dipana, come si conclude, come si attua, le mille e mille forme in cui si arriva al compimento o si fallisce miseramente.
Mi attrae la difficoltà di comprendere fino in fondo una vita, una qualunque, da quella del grande a quella del miserabile: diciamolo, io ci sguazzo in questa melma.
Inendiamoci, nonostante questa attrazione ossessiva per il concetto di destino, io non ne so, di tale faccenda, niente più di chiunque altro. Non so se una cosa chiamata destino esista, immutabile, eterna, o se molto invece dipenda da noi, dal nostro sforzo; non so se siamo, insomma, marionette o spiriti liberi.
A volte credo vera una cosa, altra il suo opposto.
In questa fase della mia vita, mi sento più marionetta che altro, ma questo potrebbe essere causato da una naturale disillusione di sé, quando si è raggiunta una certa età e molto è franato sotto i propri piedi. Tuttavia, basta un empito d'orgoglio e mi ergo come un soldatino pronto a combattere contro tutti gli déi, per poi ricadere nella mia salamoia e rimanere lì.
Insomma, alti e bassi.
La mia lunga frequentazione con il tema del destino mi ha portato all'altro tema legato al destino, il suicidio.
Però, che allegria, si dirà.
In effetti io mi diverto così.
Con argomenti frivoli, poco impegnativi.
C'è stato un tempo, quando ero molto giovane, che mi piaceva frequentare cimiteri. Spesso, dopo essere stato in un cimitero un intero pomeriggio, a sbirciare lapidi, fotografie e date di nascita e morte, andavo a caccia di donne. Vive, naturalmente. Se non ne trovavo, come accadeva sovente, mi rivolgevo a delle professioniste. Ma questi erano altri tempi.
Avevo anche molti altri passatempi più sani.
Dicevo, il suicidio.
Il suicidio, per me, è naturalmente un argomento fortemente letterario.
Sono attratto dagli scrittori suicidi, più perché so che si sono ammazzati, che per la loro opera.
Mishima, Hemingway, Debord, Akutagawa, Kawabata, De Nerval, Drieu La Rochelle.
Il suicidio, letterariamente, è una cosa molto cool. Materialmente invece è uno schifo, corpi contratti, smorfie, digrinamento di denti, merda nei pantaloni o sangue da tutte le parti. Insomma, la realtà è molto meno cool.
Tuttavia c'è un certo rigore, nel chiudere così definitivamente la propria carriera, con ordine. Non si creda che i suicidi siano persone confuse mentalmente.Per porre fine alla propria esistenza, ci vuole un certo ordine e rigore.
I casinisti non si suicidano.
Tra i suicidi DOC c'è Cesare Pavese.
Pavese è uno scrittore di cui non ho letto molto. Non sono attratto dal neorealismo e trovo l'atmosfera letteraria itialiana del secondo dopoguerra un po' asfissiante.
Tuttavia Pavese ha prodotto un'opera molto bella, Dialoghi con Leucò, nella quale ha luogo un costante inerrogarsi sul destino dell'uomo, visto come beffa crudele ad opera degli déi.
Déi che poi, nell'ultimo paragrafo, si scoprono non esistere più. Rimane solo il ricordo di quei vaghi incontri carichi di destino.
Il destino, l'incapacità di sottrarsi ad esso, il carattere, visto come destino che forma gli eventi, è il tema centrale del diario di Pavese, Il mestiere di vivere.
Per tutto il discendere degli anni fino al momento fatale, si assiste al macerarsi di questo povero giovane (per i tempi attuali, scrivere dai 27 ai 42 anni, significa descrivere una giovinezza) sulle proprie delusioni sentimentali, sulle proprie debolezze caratteriali.
Pavese precipita senza potersi fermare, ma rimane sempre consapevole di stare precipitando.Crede fermamente che il destino è colpa. Le cose sono così, perché noi non siamo capaci di farle andare diversamente. Il debole deve perire.
Il destino forgia uomini simili agli déi, e inutili idioti. In mezzo tutte le sfumature possibili.
E' il suicidio l'unico punto fermo, l'unico approdo.
L'unico modo per sottrarsi alla propria debolezza.
Il castigo dell'uomo moderno, senza Dio, punito (ancora il destino) per la propria arroganza.
Mentre Kafka prova a ribellarsi come un bambino recalcitrante e diventa come la maschera di Buster Keaton, Pavese prende troppo sul serio questa sfida contro il destino.
Dove Camus dà una risposta vitale, affermativa, benché dolorosa, alla vita, Pavese si sottrae. Non vede lo scopo.
Un maniaco depressivo, si dirà. Senza dubbio.
Una palla d'uomo, si aggiungerà. Certo.
Ma il suo interrogarsi, le sue esagerazioni, la sua esasperata sensibilità, il suo esacerbato narcisismo, sono una sfumatura tremenda di qualcosa che riguarda tutti.
La ricerca di una via d'uscita, una qualunque. E' tutto quello che serve. Tutto quello che ognuno di noi cerca: nella religione, in una relazione, nei figli, nell'unione mistica con Dio, nella cocaina, nel campionato di serie A, nella letteratura.
Una via d'uscita. Una trascendenza di sé. Perché non abbiamo altri che noi stessi e non ci bastiamo.
La Ginzburg diceva che Pavese era uno con un gran senso dell'umorismo, che però nelle sue opere non traspare mai, nemmeno una volta. Prendere sul serio sé stessi. Il vero dramma.
Avesse scritto un'opera comica. Forse sarebbe arrivato almeno fino agli anni 80, pluripremiato e plurigiurato a tutti i Premi Strega dell'universo. Ma non ce l'ha fatta a sottrarsi al suo destino.
O forse, presagendo questo futuro, ha preferito togliersi dalle palle.
Il destino, sempre il destino.
La via d'uscita è il comico. Forse.
O forse vie d'uscita non ce ne sono.
Se fuori c'è il sole e il bar all'angolo è aperto, non c'è problema.
Si può vivere anche senza vie d'uscita.
Se si è soli e la notte di fine agosto, a Torino, è troppo calda e troppo densa, allora si può prendere e andare. Senza voltarsi indietro. Senza troppi pettegolezzi.

1 commento:

  1. Forse è il comico forse no. Di certo non è la serietà dei nostri tempi: andare a puttane è sempre meglio che impegnarsi nel sociale... e di suicidarsi. Forse a Pavese non piacevano le puttane? O era malato, come credo sia uno, fuori da ogni romanticheria, quando prova a suicidarsi. Se si curasse, se lo curassero, sono sicuro che gli passerebbe. Sicuro sicuro...

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