Cronache Babilonesi

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Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)
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giovedì 27 dicembre 2012

Budd(h)ismo o dell’illuminazione illusa




Il mio inizio buddista è stato tutto fuorché casuale. Da sempre affascinato dalle religioni orientali, quando ho saputo che una mia amica praticava una specie di buddismo giapponese mi ci sono fiondato, come si dice. Era da un po’ di tempo che la vedevo cambiata, più sicura di sé, meno casinista e più concreta, ma lì per lì non ci avevo fatto troppo caso.
Il motivo per cui mi sono voluto buttare nel buddismo era che, pur ritenendomi ormai irrimediabilmente ateo, avevo una fame di spiritualità non appagata. Volevo qualcosa che desse un senso al tutto e che, in più, funzionasse. Il cambiamento della mia amica e la promessa che situazioni concrete trovassero soluzioni meravigliose, mi fecero decidere al grande passo (per me) di fidarmi di una qualche dottrina.
E così, un bel giorno di maggio 1988 ho iniziato a recitare il mantra e a imparare il libretto del sutra. Gongyo e daimoku e Nam Myoho Renge Kyo. Il Buddismo, senza acca, di origine giapponese.
Per raccontare tutto quello che ho vissuto e sperimentato ci vorrebbero pagine e pagine. Sono rimasto nell’universo della Soka Gakkai, questa apparentemente perfetta organizzazione laica buddista, da praticante indefesso (cioè costante fino al masochismo) fino al 2002.
Devo dire che i primi anni sono stati belli. Conoscevo un sacco di persone, visitavo un sacco di posti nuovi, il mio umore (loro lo chiamano stato vitale) era quasi sempre buono. Stavo bene, veramente. Ero giovane, mi divertivo. La pratica mi dava la possibilità (o l’illusione) di potere risolvere qualunque problema della vita quotidiana mi si parasse davanti.
Più o meno velocemente i miei amici di prima del buddismo sparirono per lasciare il posto a nuovi amici, tutti buddisti, ovviamente. Era una cosa naturale, che chi non condividesse con me la gioia della “verità assoluta”, dopo un po’ sparisse. 
Per come sto descrivendo la faccenda, tutto sembra essere il deliro di un malato e in certo senso può essere così, ma è veramente difficile spiegare la fascinazione assoluta che mi aveva pervaso, per questa pratica. Mi sembrava di aver trovato la risposta a tutte le mie domande: perché la mia vita è così come è? Perché molti si danno da fare e non ottengono mai nulla? Perché al mondo c’è tutta questa sofferenza? Esiste una vita dopo la morte? Ecc, ecc.
Mi sono reso conto di questa fascinazione assoluta soltanto dopo che me ne sono tirato fuori.