Cronache Babilonesi

Cronache Babilonesi
Escursione nella Filosofia - Edward Hopper (1959)

venerdì 20 settembre 2013

IJ



Ho finito ieri Infinite Jest. Non credo sia un lavoro da cinquantenni leggerlo. C’è qualcosa di così giovane, in fondo, di così irrisolto, che spiazza, intenerisce ma anche infastidisce.
È un colossale esercizio di bravura, con dentro una gran quantità di dolore che lo rende autentico. Mi è piaciuto? A tratti è indimenticabile, non c’è dubbio. Ma c’è qualcosa che non quadra, qualcosa di indefinibile, come se realmente il fulcro di tutto fosse ( come si evince dal titolo) uno scherzo infinito, inutile, che non fa ridere (nonostante in molti punti DFW crei situazioni che strappano involontariamente risate fragorose).
Immergersi in IJ è come fare un lungo, lunghissimo sogno, a tratti densissimo, a tratti magnifico, ma che una volta svegli cessa completamente di avere importanza. Esci da IJ con il desiderio di respirare, come dopo una lunga apnea: respirare e guardarti intorno, lasciandoti assorbire dalla tua quotidiana realtà. È  come se fossi appena scappato da dentro al cervello in ebollizione di qualcuno che non sei tu. In ogni pagina pare di sentire il flusso inarrestabile di una fantasia poderosa, sostenuta da una enorme follia razionale. Mai un’opera lascia intravedere, come IJ, l’interno del cervello di chi l’ha concepita. In questo DFW è unico tra i, diciamo, contemporanei. È a livello di P. K. Dick,, Kafka, Beckett. Vite intese come letteratura, nel bene e nel male.



È un libro che tuttavia lascia un leggero retrogusto di insoddisfazione: non per il finale – non finale, non per la struttura più o meno circolare e frammentaria (a cose così un lettore abituale è preparato), ma per l’insensatezza generale del tutto.
Non che le opere letterarie debbano avere senso, non che il concetto stesso di senso abbia senso: non si richiede a Beckett di avere senso, ad esempio. No, il punto di Infinite Jest è che, pur essendo molto bello in molti punti, pur avvincendoti in modo incredibile, pur ammirando la maestria indiscutibile di DFW (maestria spesso molto vicina all’esibizionismo), la sensazione che ne rimane, dopo il mesetto di frequentazione con quel mattone dalla copertina azzurra, è vuoto.
Il libro è un enorme contenitore vuoto: oserei dire, vuoto in maniera angosciante. Attenzione, vuoto non è un giudizio estetico, né etico. Vuoto è vuoto. Un vuoto che attrae, insano. Nel fondo di tutto il romanzo c’è un senso di tristezza, un qualcosa di tremendo che lascia sconsolati e vuoti e freddi, qualcosa che solo la compassione, e solo a tratti, può sperare di raggiungere. In fondo non parla d’altro che dei tanti mezzi e trucchi approntati da varia umanità per cercare di continuare a vivere, quando in realtà non ne ha nessuna voglia. Si vive sostituendo una dipendenza a un’altra dipendenza, perché fuori da essa c’è solo la morte.
Il vuoto è quello di chi si agita freneticamente e rimane sempre allo stesso punto: una descrizione perfetta dell’inferno della depressione e dell’abuso di sostanze in cui DFW ha dovuto vivere per tutta la sua vita.
È un romanzo profondamente personale e, come tutte le opere profondamente personali, si rovescia nell’universale: dentro la testa di DFW (IJ è la testa di DFW, senza dubbio) ognuno può vedere riflesso sé stesso, in qualche modo. Questo può essere uno dei motivi del grande successo di IJ, se ne vogliamo trovare uno: un altro motivo può essere che è un libro che, se ti lasci prendere, ti risucchia. Conosce i trucchi per indurre dipendenza e non c’è niente come il Disagio Mentale che attrae, specie in quest’epoca, come l’Intrattenimento letale creato da JOI.
Slavoj Žižek dice in una delle sue ipercinetiche sputacchianti digressioni su Youtube: perché  essere felici, quando si può essere interessanti?
La volontà di essere interessante, a qualunque prezzo, permea tutto IJ. E ci riesce spesso, ad esserlo. Non c’è un vero desiderio di felicità,  nel libro, quasi fosse una parola sconosciuta. Tutto è, anzi, molto triste. Le miriadi di personaggi che costellano il libro si muovono come caricature pavloviane, agitate nella caccia alla loro specifica Sostanza. Le caricature si susseguono alle caricature, partorite dalla fantasia inesauribile di DFW, quasi un compendio di quella che potrebbe essere una delle innumerevoli e interminabili sit – com americane. Tutto il libro lo è, in fondo: una sit – com di altissimo livello.
IJ smaschera la Dipendenza per quello che è: desiderio di morte. E lo fa senza giudizi morali: tratta la cosa per quello che è. Non c’è qualcosa di giusto, né qualcosa di sbagliato. Non si sceglie, ci si finisce. Per uscirne ci si deve Arrendere, motto degli AA. Bisogna Arrendersi a un Potere Superiore (Il Secondo dei 12 Passi degli Alcolisti Anonimi) che non si sa se c’è: sostituire un Vuoto con un Fantasma. Sostituire la dipendenza dalla Sostanza, con la dipendenza da quella che per molti versi è una setta rigida, gli AA.
 E funziona. Per molti funziona. Non c’è perché. Non c’è libertà. La libertà uccide.
Si può solo scegliere di Arrendersi.
Mentre Tristram Shandy (di cui IJ è pronipote postmoderno) opera circolarità e digressioni infinite allungando i tempi, procrastinando per allontanare la fine e sfuggire alla morte, celebrando la vita, IJ opera circolarità e attua eterne digressioni, perché è intrappolato in qualcosa di morto, come lo spettro di JOI che verso la fine del libro appare e cerca di parlare con il figlio morto - dentro. Mentre tutti gli innumerevoli personaggi del libro sono in un certo senso unidimensionali e bloccati  nelle loro idiosincrasie, i due protagonisti principali (Hal Incandenza e  Don Gately) tentano di raggiungere la consapevolezza, unica forza che può spezzare la corazza per potere uscire all’aperto. Non si sa, né si può intuire, se i loro sforzi potranno essere vincenti. Resta forse uno spiraglio aperto, posizionato molto oltre la fine del libro, una speranza che alla fine la maledetta circolarità possa essere spezzata: una tenue speranza, di cui però non sappiamo nulla.
IJ descrive con una gigantesca vitalità, tesa ai limiti delle possibilità umane, il desiderio di morte della nostra società. È il più colossale ossimoro mai creato dalla letteratura. Una morte viva, quella dell’Intrattenimento letale. Una vita morta, quella degli atleti ragazzini e dei disperati della casa di recupero. Il meno che si possa dire di IJ è che è inquietante. È come se rappresentasse l’immenso sforzo di far capire a degli zombie che si devono svegliare. Ma gli zombie non dormono, sono non – vivi e non - morti. Lo sforzo non può avere successo che con gli umani. E tanti sono i personaggi – zombie così, forse tutti, tranne Mario, forse, eterno fanciullo, ma purtroppo ancora caricaturale nella sua quasi scontata “santità”. Don Gately, ex ladro di appartamenti, ex alcolista e dipendente da narcotici è l’unico personaggio del romanzo che, insieme ad Hal, abbia ancora qualcosa di vivo, di umano. Sono  umani attraverso il dolore. Entrambi abbracciano la consapevolezza del dolore, unico mezzo attraverso il quale può, forse, operarsi una rinascita.


5 commenti:

  1. Ci voleva una tua recensione per incuriosirmi, e non poco (affetto come sono da prevenzione verso la letteratura a stelle e strisce, con rare eccezioni). A presto

    ;-)

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    1. Neanche io sono un filoamericano, ma IJ è una rara eccezione, anche se non mi sento di definirla un'opera completamente riuscita ...

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  2. "Immergersi in IJ è come fare un lungo, lunghissimo sogno, a tratti densissimo, a tratti magnifico, ma che una volta svegli cessa completamente di avere importanza".

    Vero, e si potrebbe dire anche di tanta filosofia contemporanea!

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  3. A quando un post su Thomas Pynchon e Cormac Mccarthy?

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